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il mondo al crepuscolo dello stato
- Subject: il mondo al crepuscolo dello stato
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 29 Dec 2001 07:38:44 +0100
dal corriere della sera Giovedì 27 Dicembre 2001 L’idea di nazione omogenea e organizzata, figlia del pensiero europeo, era già stata corrosa da entità regionali e trasversali. Ora, secondo lo storico Reinhard, è in agonia Il mondo al crepuscolo dello STATO di ADRIANO PROSPERI Stato: una parola di cui da tempo avvertiamo la mancanza. Non poterla usare è un vero problema per la comunicazione. E pazienza per i più anziani, per i quali è solo uno dei tanti segnali che il mondo, per loro, sta diventando un paese straniero. Ma la questione riguarda tutti perché la parola in via di scomparsa non è ancora sostituita in modo adeguato. Si pensi all’argomento che occupa il nostro presente: la guerra. Una volta era semplice: uno Stato dichiarava guerra a un altro, vincitori e perdenti erano sempre e comunque uno o più Stati. Indicando uno Stato si condensavano tante cose in una: territorio e popolazione, confini, bandiera, lingua, cultura, religione, istituzioni. E c’erano uomini che ne incarnavano l’essenza: sovrani o presidenti, ministri o capi politici, erano detti tutti statisti o anche uomini di Stato (solo uomini, non esisteva l’equivalente femminile). Oggi, scomparsa la parola chiave, dobbiamo muoverci nelle nebbie di incerte perìfrasi: si fa la guerra contro il terrorismo, eserciti plurinazionali affrontano etnie e religioni, si muove non più per la patria ma per idee che ignorano confini nazionali e frontiere statali. Gli uomini di Stato ci sono ancora, ma - così come gli spazzini sono diventati operatori ecologici - si chiamano operatori di pace e ricevono a turno il Nobel per aver combattuto non altri stati o altri popoli ma i mostri senza volto e senza confine che popolano la terribile mitologia del presente: terrorismo, razzismo, pulizia etnica, apartheid, genocidio. In tutto questo, noi europei siamo un po’ defilati, come una Svizzera del mondo. E viviamo una fase di passaggio. Abbiamo ancora degli Stati: ma sotto e sopra di loro, si avanzano altri poteri: per le leggi e l’amministrazione ci sono le Regioni e gli organismi dell’Unione europea, per l’esercito e la guerra c’è la Nato. Per ultimo, se ne sta andando in soffitta quello che è stato il primo simbolo del potere statale: il diritto di batter moneta. Con l’euro, a giorni la gente si rigirerà tra le mani valori e simboli indecifrabili di un potere che non è più lo Stato di cui continuiamo a essere cittadini e non è ancora compiutamente quello che ci auguriamo diventi: qualcosa di meglio, di più adeguato ai nostri bisogni, di più vicino alle nostre esigenze. E tuttavia, in Europa l’orizzonte è ancora dominato dagli Stati. E questo perché lo Stato è un’invenzione europea. Da questa premessa parte Wolfgang Reinhard in un’opera capitale ( Storia del potere politico in Europa , editore Il Mulino, pagine 800: ma sarebbe stato meglio tradurre «Storia dello Stato»): una vera «summa», uno sforzo gigantesco di rielaborazione delle conoscenze storiche a cui da ora in poi dovranno rifarsi tutti coloro che vorranno parlare o scrivere di Stato con cognizione di causa. Dunque, si potrebbe parafrasare il titolo del celebre scritto di Novalis: non «Cristianità cioè Europa», ma «Stato cioè Europa». È nato in Europa. E qui è morto, o almeno agonizza (la data della morte presunta si colloca, secondo Reinhard, sullo scorcio finale del secolo XX, fra gli anni 1970 e 1980). È nato da radici diverse: le tradizioni di monarchia militare germanica, i fondamenti classici (pensiero greco e diritto romano) veicolati dalla Chiesa cristiana e - terzo ma non ultimo - l’idea di sovranità messianica della Bibbia ebraica e cristiana. Muore per effetto dell’emergere di nuove aggregazioni per certi aspetti più vaste, sovrastatali, per altri invece più ridotte, di tipo etnico, microregionale. E oggi, la costruzione europea balbetta e si arena proprio per lo scontro fra modelli inconciliabili, quello centralistico francese e quello di decentramento informale della tradizione inglese (come ha segnalato di recente lo storico del pensiero politico Larry Siedentop, in La democrazia in Europa ). Intanto, nel suo percorso l’idea di Stato ha costruito quella realtà storica e non geografica che è l’Europa. Reinhard analizza caratteri e percorsi del potere statale, prendendo atto della realtà effettuale (come avrebbe detto Machiavelli) e non dell’immagine corrente. Di tale realtà fa parte, ad esempio, il fatto che si tratta di una storia da cui le donne sono escluse: la politica è stata sempre fondamentalmente «una questione di uomini». La ricchezza delle informazioni raccolte con un poderoso sforzo di controllo di una sterminata letteratura va qui di pari passo con la penetrazione delle domande, che nascono da una viva attenzione al presente: le dimensioni europee e la lunga durata di problemi come i rapporti tra potere politico e amministrazione della giustizia (inclusa la questione della separazione delle carriere e dei rapporti tra giudici e avvocati), la fiscalità e l’economia sommersa, le radici locali e la proiezione centrale del potere clientelare, sono solo alcuni tra i robusti ancoraggi del passato al presente che reggono la possente architettura dell’opera. Sulle soglie di questa opera imponente c’è un documento che viene in mente a un lettore italiano: è una lettera datata 26 aprile 1478. La scrisse Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, appena sfuggito all’attentato che durante la Messa solenne in Duomo era costato la vita di suo fratello Giuliano: «In questo punto - scrisse Lorenzo, invocando l’aiuto dei duchi di Milano suoi alleati - m’è stato morto mio fratello et sono in grandissimo pericolo dello stato mio». Nacque così, in un momento drammatico, quel termine «Stato» in cui si racchiude il contributo originale dell’Europa alla storia del potere politico: il pensiero di quel ricco e geniale erede di una famiglia di banchieri e di mercanti corse allora non alla vita sua ma al regime che andava costruendo per sé e per i suoi eredi. Dunque la precoce invenzione del termine, come riconosce Reinhard, spetta all’Italia. Ma, tanto in Italia quanto in Germania, lo Stato sovrano doveva diventare realtà solo nel XIX secolo. Singolare contraddizione: in questi due paesi, dove lo Stato moderno ebbe la gestazione più lunga e difficile, la sua vittoria culturale fu strepitosa. Se Machiavelli, riflettendo sulla mancanza di un Principe capace di unificare l’Italia, inventò la moderna scienza della politica, nella Germania dell’800 spettò a Hegel definire lo Stato come «la totalità etica», il fine stesso della storia del mondo. Che tocchi proprio ad uno storico di esperienza internazionale ma di salde radici tedesche affrontare una decostruzione storica della forma Stato è un fatto di indubbio significato simbolico. Reinhard se ne rende conto e ce ne avverte. Si tratta di decostruire lo Stato, di battere il percorso inverso rispetto a quello consueto agli storici e ai professori di storia, destinati un tempo a funzionare come educatori al senso dello Stato e quindi tradizionalmente pronti a ricostruirne le magnifiche sorti e progressive e a farsene servitori e propagandisti presso i giovani. Ci si augura che il libro di Reinhard offra materia di meditazione a quegli storici italiani che sembrano dilettarsi ancora della questione deamicisiana di come si possa piantare l’idea di Patria nel cuore dei giovani, convincendo con questo argomento una classe politica priva di ogni altro «appeal». Quel terreno è oggi irrimediabilmente desueto. La storiografia tedesca ce lo spiega con la sua voce migliore. È bene, dunque, che l’Italia cessi di scimmiottare la Germania nel culto dello Stato e la segua nel cercar di capire quali altre e diverse forme occupino il nostro orizzonte. Per il passato, la decostruzione dello Stato è come lo smontaggio caricaturale di Luigi XIV. Il Re Sole, alto un metro e 60 e calvo fin da giovane, si costruì una immagine pubblica maestosa coi tacchi e con la parrucca. Come scrisse William Thackeray, «barbieri e ciabattini creano gli dèi che noi adoriamo». Il nostro tempo vi ha aggiunto solo un piccolo dettaglio: la televisione.
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