geografie dell'impero



dal manifesto

    
    
 
    
 

22 Dicembre 2001 
  
 
  
Geografie dell'impero
La crisi della democrazia ne "Il capitalismo del terzo millennio" I nuovi
rapporti tra Nord e Sud del mondo nella riflessione dell'ultimo volume
dell'economista Samir Amin 
Le multinazionali alla conquista della sovranità nazionale. La
globalizzazione nel libro dell'economista Noreena Hertz 
BENEDETTO VECCHI 

Agli inizi degli anni Novanta la bandiera rossa fu ammainata dal Cremlino.
Finiva un'epoca, quella del socialismo reale. Ed è più o meno in quel
periodo che prendono le mosse due volumi tanto diversi tra loro da
risultare però complementari. Il primo è stato scritto da un decano degli
studi sull'economia mondiale, Samir Amin. Si tratta de Il capitalismo del
nuovo millennio (Edizioni Punto rosso, pp. 143, L. . 15.000). L'autore è
noto per i suoi contributi sul capitalismo inteso come modo di produzione
con una vocazione "universale" che ha plasmato il pianeta secondo una
precisa e rigida gerarchia di rapporti tra gli stati-nazione: il centro,
rappresentato dagli Stati uniti e dall'Europa, condiziona e determina,
sempre in posizione di dipendenza e di subalternità, lo sviluppo sociale e
politico della periferia, cioè di gran parte del pianeta.
In questa raccolta di saggi Samir Amin riprende il filo rosso della sua
riflessione. La scomparsa dell'Unione sovietica è da considerarsi la fine
di un modello specifico di capitalismo, quello di stato, o come lo
definisce l'economista egiziano "un capitalismo senza capitalisti". La
scomparsa del socialismo reale accentua però la polarizzazione tra il
centro e la periferia del capitalismo mondiale. Da una parte ci sono alcuni
stati nazione e aree geopolitiche - Usa e Europa - nonché i grandi monopoli
che si sono formati durante il Nocecento - telecomunicazioni, informazione,
finanza, energia, militare -, dall'altra il Sud del mondo, ridotto, di
volta in volta, a bacino di forza-lavoro poco costosa, di materie prime, di
mercati da conquistare. In questo scenario non è prevedibile il formarsi di
confederazioni di stati-nazione che possano contrastare l'egemonia della
triade Usa, Europa, grandi monopoli. Anzi, Samir Amin riprende la nozione
di imperialismo per spiegare e spiegarsi la crisi dello stato-nazione. Per
estensione, si potrebbe dire che nel capitalismo del libero mercato
assistiamo a una sorta di iperimperialismo che erode la sovranità
nazionale, delegando agli stati-nazione il compito di guardiani dell'ordine
capitalistico mondiale. Ed è per questo insieme di motivi che si può
spiegare la ricomparsa della guerra in quanto "potere costituente" di un
nuovo ordine mondiale, prima nel Golfo, poi nei Balcani, ora in
Afghanistan. Ma il capitalismo, ripete un vecchio adagio, è un rapporto
sociale di produzione che deve continuamente rivoluzionare l'ordine
sociale, politico e economico. Per questo, si può tranquillamente affermare
che la guerra deve essere "guerra permamente". O meglio uno "stato
permanente d'eccezione" che ha funzioni interne e esterne: tra le prime lo
stato di sicurezza nazionale in quanto forma politica che fissa, di volta
in volta, i rapporti di forza tra le classi nella società; per le seconde
la ridefinizione continua della gerarchia tra centro e periferia del
capitalismo mondiale. Conclusioni che non appartegono a questo libro, ma
che ne sono il naturale esito "politico".

Come sempre negli autori che guardano al lungo periodo per individuare le
tendenze del presente, c'è poco spazio per i "movimenti antisistemici".
D'altronde Samir Amin lo dice apertamente che il suo libro è sì a loro
dedicato, ma ne prescinde, stabilendo così una contigente e necessaria
autonomia della teoria dalla prassi politica. Una scelta metodologica che
ha il pregio di guardare con il dovuto distacco il caotico presente, ma che
corre il rischio di non cogliere gli elementi di trasformazione e di
mutamento di rotta che i movimenti sociali introducono nel capitalismo
mondiale.
Chi, invece, cerca di mettere a fuoco proprio gli elementi di rottura e
mutamento dei movimenti antisistemici è l'autrice del secondo libro, che ha
come titolo un enigmatico La conquista silenziosa (Carocci, pp. 234, L. .
34.000) ed è il risultato della riflessione e delle esperienze della
giornalista nonché docente alla Cambridge University Noreena Hertz. I temi
dei due volumi sono complementari. E se quello di Samir Amin mette a fuoco
le tendenze del capitalismo mondiale in questo inizio di millennio, il
libro di Noreena Hertz denuncia i rischi per la democrazia nel nord del
mondo a causa del progressivo svuotamento della sovranità nazionale
provocato dall'azione "globale" delle multinazionali.
La conquista silenziosa parte dal crollo dell'Unione sovietica. Agli inizi
degli anni Novanta Noreena Hertz è una giovane laureata inglese che sbarca
a Mosca con l'incarico è importare il "libero mercato" nel paese dove
l'economia pianificata dallo stato è in vigore da più o meno ottanta anni.
Lo svolge con l'entusiasmo dei neofiti, anche se lo spirito missionario che
la anima non le impedisce di vedere il saccheggio delle ricchezze operato
dalla vecchia nomenklatura che si è convertita al credo neoliberista. Ma
alla Hertz non interessa l'Unione sovietica, quanto quello che avviene a
Ovest dell'Elba.
Due lustri dopo, infatti, quella stessa giovane è diventata una giornalista
economica affermata e docente del Centre of International Business and
Management dell'Università di Cambridge in Inghilterra. All'entusiasmo dei
primi anni Novanta è subentrato il disincanto di chi ha visto il mondo
cambiare sotto i suoi piedi. Fresca della lettura di un libro della Ruckus
Society su come difendersi dalla polizia in caso di scontri di piazza, ha
un biglietto di andata e ritorno da Praga per partecipare ai lavori del
Fondo monetario internazionale. Ma a quella riunione non metterà piede,
perché vuol vedere da vicino quel magma indecifrabile che la stampa inglese
chiama "antiglobalizzatori". Arriva nella capitale ceca sapendo che avrà la
sua buona razione di lacrimogeni e che vedrà ripetersi le scene a cui ha
assistito nella "sua" Londra il primo maggio: cioè scene di ordinaria
guerriglia urbana. Per lei quei manifestanti hanno semplicemente ragione
nel contestare gli organismi sovranazionali come il Wto, la Banca mondiale
e il Fmi, nonché i governi nazionali protagonisti o complici della
"conquista silenziosa" da parte delle multinazionali del bene comune, sia
che si tratti della sovranità nazionale, che della privatizzazione dello
spazio pubblico, che della trasformazione dei parlamenti nazionali in
rissosi supporter di questa o quell'impresa transnazionale.
La conquista silenziosa è infatti un impietoso je accuse contro chi si è
reso complice del primato dell'economia sulla politica, quest'ultima intesa
come potere di indirizzo e controllo dell'economia stessa. A Noreena Hertz
non interessa che il cosiddetto popolo di Seattle sfasci le vetrine, né che
sia variegato e molteplice, come recita la vulgata giornalistica. Per lei è
centrale la critica radicale che esercita nei confronti della
multinazionali, cioè di quelle imprese che sospendono il diritto non solo
al proprio interno, ma anche nelle società che le ospitano: ricattandole, o
ci dai le migliori condizioni fiscali e di governo della forza-lavoro, o ce
ne andiamo. Ma anche avvalendosi della rete produttiva costruita su scala
planetaria che fa sì che una multinazionale non sia perseguibile in un
paese se i reati - ad esempio la violazione della legislazione a difesa
della forza-lavoro o il mancato rispetto di leggi a tutela dell'ambiente -
sono commessi altrove. Tutto questo accade e può accadere perché la
politica ha rinunciato a quel potere di indirizzo e controllo che il
conflitto sociale, e di classe, ha consentito di esercitare dalla fine
della seconda guerra mondiale fino alla controrivoluzione reaganiana e
thatcheriana. Per questo, Toni Blair, Gerard Schröder, Lionel Jospen e il
centrosinistra italiano sono complici delle multinazionali: hanno
semplicemente fatto propri le priorità e i vincoli stabiliti dalla
globalizzazione economica, cioè dalle multinazionali. Per l'autrice, mai
come nella globalizzazione l'espressione "mercato politico" sintetizza così
bene l'avvenuta trasformazione dei parlamenti nazionali in strutture al
servizio delle multinazionali. Questa implosione del sistema politico non
avviene in maniera indolore. Crisi della rappresentanza, democrazia
plebiscitaria, sussunzione della sfera pubblica al comando d'impresa,
potrebbero suggerire un lettore o una lettrice attenti della crisi che
attraversa la democrazia reale.

Fenomenologie tutte corrette, ma comunque insufficienti nel cogliere alla
radice questa "crisi della politica". Compito che esula dalla lettura e
discussione di questo libro, ma che è sullo sfondo di una forma di lotta
che l'autrice vede manifestarsi potentemente nelle società capitalistiche
avanzate: cioè il boicottaggio. Il boicottaggio nasce dalla crisi della
poltica, se ne nutre, cercando di occupare quella zona grigia che
comunemente viene chiamata mediazione politica, cioè quell'insieme di
istituzioni - quelle del welfare state, ad esempio - e di organizzazioni
che hanno costituito la sfera pubblica come partiti e sindacati. Al loro
posto ci sono associazioni no profit, organizzazioni non governative,
gruppi di base, che stabiliscono un rapporto diretto - conflittuale alcune
volte, da gruppo di pressione in altre occasioni - con le multinazionali.
Si boicotta la Nestlè, la Shell, la Nike, la Microsoft, la Coca-Cola, la
Monsanto, McDonald's, stabilendo un rapporto diretto con la controparte,
senza aspettare che intervenga il "politico" a sanzionare comportamenti e
strategie ostili al "bene comune". Ma è comunque in questa contraddittoria
occupazione dello spazio lasciato libero dal ritirarsi della "politica" che
risiede la radicalità del cosiddetto popolo di Seattle. E la sua
irriducibilità a qualsiasi politica riformista, sia che vada sotto il nome
di riconquista della sovranità nazionale che di governance della
globalizzazione. La riflessione di Hertz merita di essere discussa,
cambiata di segno, senza nessuna nostalgia per le forme della politica fin
qui conosciute. Va quindi riconosciuto a questo libro l'aver posto il
problema, cioè quale politica e quali forme del conflitto nella
globalizzazione economica.
E' indubbia la crisi dei grandi partiti di massa e dei sindacati, così come
è innegabile la riconduzione della sfera pubblica statale ai dettami del
comando d'impresa, perché la crisi irreversibile del welfare state e della
democrazia rappresentativa è l'altro aspetto della globalizzazione
capitalistica. Pensare di contrastarla facendo leva sul potere che può
esercitare la figura del consumatore - questo in realtà è il boicottaggio -
induce qualche ragionevole dubbio. Da una parte c'è la natura sociale della
produzione di merci, che rende mobili fino allo scomparsa delle linee di
confine tra produzione, consumo e circolazione se le si guarda dal punto di
vista del lavoro vivo. Tutto è lavoro, si potrebbe dire, proprio quando la
vecchia talpa ha scavato fin nelle fondamenta minandole alla base,
quell'unità di misura del lavoro socialmente necessario in quanto effettivo
governo della società. Ed è forse proprio da qui che bisogna ripartire. La
democrazia rappresentativa va in crisi perché in crisi è quell'unità di
misura della produzione di ricchezza. Spostare l'accento sul lato del
consumo e della circolazione delle merci corre il rischio di rendere
fragile la critica alla globalizzazione economica. E' infatti nella storia
del "movimento dei movimenti" la consapevolezza che per essere efficaci nel
boicottare le multinazionali e gli organismi sovranazionali bisogna fare
leva sulle "zone rosse" della produzione sociali. In questo caso la
politica e le forme dell'agire politico riprendono il vecchio adagio del
mutamento dei rapporti di forza nella società. Cioè di come organizzare il
conflitto.