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geografie dell'impero
- Subject: geografie dell'impero
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 28 Dec 2001 07:42:51 +0100
dal manifesto 22 Dicembre 2001 Geografie dell'impero La crisi della democrazia ne "Il capitalismo del terzo millennio" I nuovi rapporti tra Nord e Sud del mondo nella riflessione dell'ultimo volume dell'economista Samir Amin Le multinazionali alla conquista della sovranità nazionale. La globalizzazione nel libro dell'economista Noreena Hertz BENEDETTO VECCHI Agli inizi degli anni Novanta la bandiera rossa fu ammainata dal Cremlino. Finiva un'epoca, quella del socialismo reale. Ed è più o meno in quel periodo che prendono le mosse due volumi tanto diversi tra loro da risultare però complementari. Il primo è stato scritto da un decano degli studi sull'economia mondiale, Samir Amin. Si tratta de Il capitalismo del nuovo millennio (Edizioni Punto rosso, pp. 143, L. . 15.000). L'autore è noto per i suoi contributi sul capitalismo inteso come modo di produzione con una vocazione "universale" che ha plasmato il pianeta secondo una precisa e rigida gerarchia di rapporti tra gli stati-nazione: il centro, rappresentato dagli Stati uniti e dall'Europa, condiziona e determina, sempre in posizione di dipendenza e di subalternità, lo sviluppo sociale e politico della periferia, cioè di gran parte del pianeta. In questa raccolta di saggi Samir Amin riprende il filo rosso della sua riflessione. La scomparsa dell'Unione sovietica è da considerarsi la fine di un modello specifico di capitalismo, quello di stato, o come lo definisce l'economista egiziano "un capitalismo senza capitalisti". La scomparsa del socialismo reale accentua però la polarizzazione tra il centro e la periferia del capitalismo mondiale. Da una parte ci sono alcuni stati nazione e aree geopolitiche - Usa e Europa - nonché i grandi monopoli che si sono formati durante il Nocecento - telecomunicazioni, informazione, finanza, energia, militare -, dall'altra il Sud del mondo, ridotto, di volta in volta, a bacino di forza-lavoro poco costosa, di materie prime, di mercati da conquistare. In questo scenario non è prevedibile il formarsi di confederazioni di stati-nazione che possano contrastare l'egemonia della triade Usa, Europa, grandi monopoli. Anzi, Samir Amin riprende la nozione di imperialismo per spiegare e spiegarsi la crisi dello stato-nazione. Per estensione, si potrebbe dire che nel capitalismo del libero mercato assistiamo a una sorta di iperimperialismo che erode la sovranità nazionale, delegando agli stati-nazione il compito di guardiani dell'ordine capitalistico mondiale. Ed è per questo insieme di motivi che si può spiegare la ricomparsa della guerra in quanto "potere costituente" di un nuovo ordine mondiale, prima nel Golfo, poi nei Balcani, ora in Afghanistan. Ma il capitalismo, ripete un vecchio adagio, è un rapporto sociale di produzione che deve continuamente rivoluzionare l'ordine sociale, politico e economico. Per questo, si può tranquillamente affermare che la guerra deve essere "guerra permamente". O meglio uno "stato permanente d'eccezione" che ha funzioni interne e esterne: tra le prime lo stato di sicurezza nazionale in quanto forma politica che fissa, di volta in volta, i rapporti di forza tra le classi nella società; per le seconde la ridefinizione continua della gerarchia tra centro e periferia del capitalismo mondiale. Conclusioni che non appartegono a questo libro, ma che ne sono il naturale esito "politico". Come sempre negli autori che guardano al lungo periodo per individuare le tendenze del presente, c'è poco spazio per i "movimenti antisistemici". D'altronde Samir Amin lo dice apertamente che il suo libro è sì a loro dedicato, ma ne prescinde, stabilendo così una contigente e necessaria autonomia della teoria dalla prassi politica. Una scelta metodologica che ha il pregio di guardare con il dovuto distacco il caotico presente, ma che corre il rischio di non cogliere gli elementi di trasformazione e di mutamento di rotta che i movimenti sociali introducono nel capitalismo mondiale. Chi, invece, cerca di mettere a fuoco proprio gli elementi di rottura e mutamento dei movimenti antisistemici è l'autrice del secondo libro, che ha come titolo un enigmatico La conquista silenziosa (Carocci, pp. 234, L. . 34.000) ed è il risultato della riflessione e delle esperienze della giornalista nonché docente alla Cambridge University Noreena Hertz. I temi dei due volumi sono complementari. E se quello di Samir Amin mette a fuoco le tendenze del capitalismo mondiale in questo inizio di millennio, il libro di Noreena Hertz denuncia i rischi per la democrazia nel nord del mondo a causa del progressivo svuotamento della sovranità nazionale provocato dall'azione "globale" delle multinazionali. La conquista silenziosa parte dal crollo dell'Unione sovietica. Agli inizi degli anni Novanta Noreena Hertz è una giovane laureata inglese che sbarca a Mosca con l'incarico è importare il "libero mercato" nel paese dove l'economia pianificata dallo stato è in vigore da più o meno ottanta anni. Lo svolge con l'entusiasmo dei neofiti, anche se lo spirito missionario che la anima non le impedisce di vedere il saccheggio delle ricchezze operato dalla vecchia nomenklatura che si è convertita al credo neoliberista. Ma alla Hertz non interessa l'Unione sovietica, quanto quello che avviene a Ovest dell'Elba. Due lustri dopo, infatti, quella stessa giovane è diventata una giornalista economica affermata e docente del Centre of International Business and Management dell'Università di Cambridge in Inghilterra. All'entusiasmo dei primi anni Novanta è subentrato il disincanto di chi ha visto il mondo cambiare sotto i suoi piedi. Fresca della lettura di un libro della Ruckus Society su come difendersi dalla polizia in caso di scontri di piazza, ha un biglietto di andata e ritorno da Praga per partecipare ai lavori del Fondo monetario internazionale. Ma a quella riunione non metterà piede, perché vuol vedere da vicino quel magma indecifrabile che la stampa inglese chiama "antiglobalizzatori". Arriva nella capitale ceca sapendo che avrà la sua buona razione di lacrimogeni e che vedrà ripetersi le scene a cui ha assistito nella "sua" Londra il primo maggio: cioè scene di ordinaria guerriglia urbana. Per lei quei manifestanti hanno semplicemente ragione nel contestare gli organismi sovranazionali come il Wto, la Banca mondiale e il Fmi, nonché i governi nazionali protagonisti o complici della "conquista silenziosa" da parte delle multinazionali del bene comune, sia che si tratti della sovranità nazionale, che della privatizzazione dello spazio pubblico, che della trasformazione dei parlamenti nazionali in rissosi supporter di questa o quell'impresa transnazionale. La conquista silenziosa è infatti un impietoso je accuse contro chi si è reso complice del primato dell'economia sulla politica, quest'ultima intesa come potere di indirizzo e controllo dell'economia stessa. A Noreena Hertz non interessa che il cosiddetto popolo di Seattle sfasci le vetrine, né che sia variegato e molteplice, come recita la vulgata giornalistica. Per lei è centrale la critica radicale che esercita nei confronti della multinazionali, cioè di quelle imprese che sospendono il diritto non solo al proprio interno, ma anche nelle società che le ospitano: ricattandole, o ci dai le migliori condizioni fiscali e di governo della forza-lavoro, o ce ne andiamo. Ma anche avvalendosi della rete produttiva costruita su scala planetaria che fa sì che una multinazionale non sia perseguibile in un paese se i reati - ad esempio la violazione della legislazione a difesa della forza-lavoro o il mancato rispetto di leggi a tutela dell'ambiente - sono commessi altrove. Tutto questo accade e può accadere perché la politica ha rinunciato a quel potere di indirizzo e controllo che il conflitto sociale, e di classe, ha consentito di esercitare dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla controrivoluzione reaganiana e thatcheriana. Per questo, Toni Blair, Gerard Schröder, Lionel Jospen e il centrosinistra italiano sono complici delle multinazionali: hanno semplicemente fatto propri le priorità e i vincoli stabiliti dalla globalizzazione economica, cioè dalle multinazionali. Per l'autrice, mai come nella globalizzazione l'espressione "mercato politico" sintetizza così bene l'avvenuta trasformazione dei parlamenti nazionali in strutture al servizio delle multinazionali. Questa implosione del sistema politico non avviene in maniera indolore. Crisi della rappresentanza, democrazia plebiscitaria, sussunzione della sfera pubblica al comando d'impresa, potrebbero suggerire un lettore o una lettrice attenti della crisi che attraversa la democrazia reale. Fenomenologie tutte corrette, ma comunque insufficienti nel cogliere alla radice questa "crisi della politica". Compito che esula dalla lettura e discussione di questo libro, ma che è sullo sfondo di una forma di lotta che l'autrice vede manifestarsi potentemente nelle società capitalistiche avanzate: cioè il boicottaggio. Il boicottaggio nasce dalla crisi della poltica, se ne nutre, cercando di occupare quella zona grigia che comunemente viene chiamata mediazione politica, cioè quell'insieme di istituzioni - quelle del welfare state, ad esempio - e di organizzazioni che hanno costituito la sfera pubblica come partiti e sindacati. Al loro posto ci sono associazioni no profit, organizzazioni non governative, gruppi di base, che stabiliscono un rapporto diretto - conflittuale alcune volte, da gruppo di pressione in altre occasioni - con le multinazionali. Si boicotta la Nestlè, la Shell, la Nike, la Microsoft, la Coca-Cola, la Monsanto, McDonald's, stabilendo un rapporto diretto con la controparte, senza aspettare che intervenga il "politico" a sanzionare comportamenti e strategie ostili al "bene comune". Ma è comunque in questa contraddittoria occupazione dello spazio lasciato libero dal ritirarsi della "politica" che risiede la radicalità del cosiddetto popolo di Seattle. E la sua irriducibilità a qualsiasi politica riformista, sia che vada sotto il nome di riconquista della sovranità nazionale che di governance della globalizzazione. La riflessione di Hertz merita di essere discussa, cambiata di segno, senza nessuna nostalgia per le forme della politica fin qui conosciute. Va quindi riconosciuto a questo libro l'aver posto il problema, cioè quale politica e quali forme del conflitto nella globalizzazione economica. E' indubbia la crisi dei grandi partiti di massa e dei sindacati, così come è innegabile la riconduzione della sfera pubblica statale ai dettami del comando d'impresa, perché la crisi irreversibile del welfare state e della democrazia rappresentativa è l'altro aspetto della globalizzazione capitalistica. Pensare di contrastarla facendo leva sul potere che può esercitare la figura del consumatore - questo in realtà è il boicottaggio - induce qualche ragionevole dubbio. Da una parte c'è la natura sociale della produzione di merci, che rende mobili fino allo scomparsa delle linee di confine tra produzione, consumo e circolazione se le si guarda dal punto di vista del lavoro vivo. Tutto è lavoro, si potrebbe dire, proprio quando la vecchia talpa ha scavato fin nelle fondamenta minandole alla base, quell'unità di misura del lavoro socialmente necessario in quanto effettivo governo della società. Ed è forse proprio da qui che bisogna ripartire. La democrazia rappresentativa va in crisi perché in crisi è quell'unità di misura della produzione di ricchezza. Spostare l'accento sul lato del consumo e della circolazione delle merci corre il rischio di rendere fragile la critica alla globalizzazione economica. E' infatti nella storia del "movimento dei movimenti" la consapevolezza che per essere efficaci nel boicottare le multinazionali e gli organismi sovranazionali bisogna fare leva sulle "zone rosse" della produzione sociali. In questo caso la politica e le forme dell'agire politico riprendono il vecchio adagio del mutamento dei rapporti di forza nella società. Cioè di come organizzare il conflitto.
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