felicita' e' un centro commerciale



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LE MONDE diplomatique - Ottobre 2001  
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 Paradiso americano di periferia 
La felicità è un centro commerciale 


Arrivata dall'America, la moda dei centri commerciali giganteschi sembra
invadere tutto il mondo. Tra poco il gruppo Time-Warner finirà di costruire
a Madrid un colossale centro commerciale, dove sarà persino possibile
sciare lontano dalle montagne e dalla neve naturale. In queste scenografie
fittizie, dove i passanti sono ridotti al rango di semplici consumatori, si
ricorre a tutte le astuzie del marketing per mettere in scena la commedia
dell'esotismo e dell'autenticità. Ma dietro il cemento, il commercio e
l'automobile negli Stati uniti comincia a intravedersi una certa stanchezza. 

dal nostro inviato speciale Tom Frank* 
All'inizio era il Country Club Plaza di Kansas City. Costruito negli anni
'20, parte di un vasto insieme di quartieri residenziali, il Plaza fu il
primo grande centro commerciale di periferia a essere interamente
organizzato in funzione dell'automobile. Era anche il punto di incontro di
un territorio fantasioso sul quale era cresciuto un habitat eterogeneo, che
andava dallo stile provenzale francese al castello scozzese passando per
una località balneare della Virginia, mentre il centro commerciale
propriamente detto sembrava una replica di Siviglia.
A nessuno sembrava strano che questo quartiere residenziale non avesse
marciapiedi. Ogni anno la gente celebrava l'inizio della stagione
commerciale di Natale recandosi in massa al Plaza per assistere
all'accensione della sua struttura luminosa, celebre in tutto il mondo. I
negozi più ordinari (alimentari e bowling) erano stati tolti per migliorare
l'immagine del quartiere.
Tutto ciò rappresentò uno dei primi tentativi di secessione dalla dura vita
di Kansas City: finalmente buone scuole, piscine, polizia privata e una
popolazione quasi esclusivamente bianca proveniente da classi superiori e i
cui beni non si sarebbero più svalutati.
Il metodo Country club si rivelò talmente efficace che il Plaza divenne un
richiamo turistico per tutto il Midwest.
A tal punto che il fenomeno si è diffuso a sud e a ovest, poche centinaia
di strade più lontano, laddove la periferia di Kansas City prende il posto
di quelli che un tempo erano terreni agricoli. Qui si trovano grandi zone
commerciali, palazzi di uffici dalle facciate scintillanti, quartieri
residenziali per «redditi alti» e tangenziali a sei corsie che cercano
disperatamente di aggirare la città. I «McResidence» invadono le colline
più lontane e incroci ancora sconosciuti solo un anno prima diventano
agenzie immobiliari, ristoranti di moda e negozi alimentari di lusso.
Con i suoi tredici ettari di negozi, Oak Park è il più grande complesso
commerciale dell'agglomerato urbano di Kansas City. Chi si inoltra
nell'atmosfera climatizzata dei grandi magazzini Nordstrom e dei suoi
negozi eleganti incontra commessi cordiali che danno il benvenuto nella
virile solidarietà di chi si profuma con l'acqua di colonia Polo e di chi
porta costosissimi occhiali da sole di marca. Il tutto sugli accordi
trascinanti di una ballata country-rock.
Via via che ci si avventura nel centro ci si rende conto che le grandi
compagnie internazionali regnano incontrastate. Ecco un negozio con
l'insegna della Warner Bros Studio, facciata commerciale di quel gigante
della «cultura» che è Aol-Time Warner. Qui non si cerca di vendere dei
prodotti ma di proporre ai clienti un numero infinito di interazioni con la
marca e le varie filiali del gruppo. Al piano terra del centro, nel
laboratorio «Build a Bear» (Costruisci un orso), un'hostess eccessivamente
premurosa invita il cliente a esprimere la sua personalità fabbricando il
proprio orso di peluche. Dopo aver scelto tra diversi modelli, imbottiture
e musichette, si è invitati a inserire questa deliziosa espressione della
propria creatività nel grande registro elettronico degli orsi di peluche.
Insomma, la prova definitiva che anche la nostra personalità esce dalle
catene di montaggio! Quello che esiste alla periferia di Kansas City non ha
nulla di eccezionale o di particolare. Il centro commerciale coperto e
chiuso fu inventato alla fine degli anni '50 da un imprenditore immobiliare
di Minneapolis, allo scopo di massimizzare le vendite ma anche di
migliorare il comfort durante i rigidi inverni del Nordamerica. Nel corso
dei successivi quarant'anni questa idea si è rapidamente diffusa da New
York a Los Angeles e poi al mondo intero, sempre con lo stesso schema di
base: una gigantesca struttura dalla forma più o meno cubica con parcheggi
abbastanza grandi da accogliere il maggior numero possibile di clienti;
almeno due grandi marche (tra cui un grande magazzino di dimensioni
nazionali) poste alle due estremità della struttura con uno spazio
intermedio pieno di piccoli negozi; un'area di ristorazione che offre ai
consumatori una larga scelta di fast food; un'assenza quasi totale di
attenzione estetica per la struttura esterna, mentre tutto il design
architettonico si concentra all'interno, negli spazi climatizzati.
Il Plaza era l'opera prometeica di un unico imprenditore. Il centro
commerciale dell'epoca contemporanea è invece il paesaggio probabilmente
più curato del mondo. Costruire e gestire centri commerciali è diventata
un'industria gigantesca, un consumatore entusiasta è fondamentale per la
prosperità americana quanto la benzina a buon mercato. Commercianti e
pubblicitari fanno quindi appello ad antropologi per osservarci mentre
acquistiamo (1). L'atmosfera musicale è scelta con cura per spingere al
tempo stesso ad andare in giro e ad affrettarsi. L'allestimento delle
vetrine e la decorazione interna dei negozi sono meticolosamente esaminati.
Dall'illuminazione delle piante dei vasi alla distribuzione dei negozi,
nulla è lasciato al caso. Nulla è lì solo per bellezza.
I centri commerciali e l'espansione dei loro dintorni rappresentano una
delle espressioni fisiche del capitalismo moderno. Tuttavia la letteratura
americana sulle periferie afferma che la formazione di queste periferie
attorno ai centri commerciali è l'espressione diretta della volontà
popolare. I megacentri commerciali con i loro giganteschi parcheggi e la
crescita quasi infinita delle periferie che ne deriva corrisponderebbero a
quello che vuole il popolo, quando gli si permette di viaggiare e di
scegliere liberamente: «Il centro commerciale, sono io».
Autenticità calibrata, ribellione su misura Questo argomento rientra nel
cosiddetto «populismo di mercato», per il quale il paesaggio costruito dal
nuovo capitalismo sarebbe il riflesso dell'individuo medio e virtuoso. Al
contrario, qualunque critica all'espansione delle periferie sarebbe
caratterizzata da uno sprezzante spirito d'élite. Da un lato le persone di
sinistra pretenziose ed egoiste, adoratrici della pianificazione e convinte
di sapere tutto meglio degli altri. Dall'altro la gente autentica, che
ovviamente vuole i centri commerciali. Questo modo di vedere è diventato
così naturale che un controverso costruttore di centri commerciali non ha
esitato a definirsi «l'architetto del popolo».
Ma la realtà è un po' diversa. Quando si chiede alla gente, invece di
presumere che la sua opinione sia la stessa degli imprenditori, cosa pensa
veramente dell'espansione delle periferie, ci si rende conto rapidamente
che detesta questo tipo di vita. Sono pochi coloro che credono ancora che
la soluzione alle difficoltà urbane sia andare a vivere un po' più lontano,
dove si costruirà un nuovo centro commerciale, dove si edificherà un
orribile agglomerato urbano, il tutto per passare la giornata nel proprio
fuoristrada a spostarsi in un paesaggio pieno di macchine, decorato con
alberi rinsecchiti. Ormai i giovani che ne hanno la possibilità ritornano
in massa nelle città abbandonate dai loro genitori. Cercano casa nei
cosiddetti quartieri «bohémiens» e fanno salire i prezzi degli immobili
urbani. A sua volta chi rimane in periferia non vuole che queste continuino
a crescere, aggravando ancora di più le condizioni del traffico nel proprio
quartiere.
Questo nuovo spirito «anti-periferia», questo desiderio di allontanarsene
lo si può osservare ovunque. Secondo la stampa professionale, i consumatori
sono stanchi e perfettamente consapevoli del tipo di vita che si fa in
periferia. Non vogliono più recarsi nell'ennesimo e anonimo centro
commerciale. Chiedono esperienze vere e non i soliti negozi e ristoranti.
Vogliono uscire da questi vicoli ciechi e dagli altri «luoghi di vita»
prefabbricati.
Ci vuole circa un'ora e mezza per recarsi a sud di Chicago, nel centro
commerciale di Woodfield, a Schaumburg (nell'Illinois). Costruito
all'inizio degli anni '70, Woodfield, con le sue cinque grandi marche e i
suoi venti ettari di negozi era fino a una decina di anni fa il più grande
centro commerciale del mondo (oggi è il terzo). Negozio dopo negozio,
ristorante dopo ristorante, quello che qui si vende è un'autenticità
calibrata e una ribellione su misura contro la vita di periferia. Perché si
può vivere in un quartiere con le abitazioni tutte perfettamente uguali,
passare come tutti il proprio tempo in un cubo e, prodigiosamente, grazie
ai numerosi negozi di questa area commerciale (o di una qualunque altra),
immaginarsi nei panni di un iconoclasta distruttore delle regole, di un
duro individualista, di un tipo raffinato, di un lupo solitario sperduto in
mezzo a un gregge di creature belanti! Dall'esterno «Schaumburg» ha forse
l'aspetto di un regno senza anima del conformismo e della merce a buon
mercato.
Ma Schaumburg prospera propri commerciando antidoti culturali alla
conformità, alla mancanza di vitalità e di autenticità.
A Woodfield si nota subito che ognuno interpreta un ruolo. Fred, il
venditore di uno dei supermercati, ha la testa rasata e porta una piccola
coda di cavallo. Nel suo negozio, un'esposizione di manichini aveva per
tema il coraggioso slogan: «Sono quello che sono». Gli adolescenti che
frequentano questi luoghi hanno tutti gli stessi tatuaggi, gli stessi
piercing e le stesse basette. L'elegante Lord and Taylor propone cravatte
decorate con simboli della «pace nel mondo». Anche da Lane Bryant, negozio
dedicato alle donne di taglia forte, si annuncia la «Rivoluzione dei
jeans». E le T-shirt portano un messaggio lapidario: «Ribelle».
Questo spirito di rivolta non avrebbe senso se non si tenesse sempre
presente la cultura superata, sciocca e preistorica contro cui si rivolge.
Probabilmente è per questo motivo che alcuni negozi di Woodfield offrono
illustrazioni viventi della fatuità dei nostri antenati delle periferie.
Così si ridicolizza il carattere goffo dell'arte pubblicitaria di moda
negli anni '50. Il negozio Fossil (sic) - che vende dio sa cosa - presenta
numerose parodie dei logo e dei manifesti dell'epoca: hostess dall'aria
idiota fanno segni gioiosi verso uomini allegri, che portano cappelli
flosci e sorridono a tutti.
Ah, ma certo, noi siamo alternativi, autentici, estremi! Da Vans, uno dei
due negozi dedicati agli skate-board, alcuni ragazzi salgono e scendono in
skate una rampa in compensato a forma di U. Solo qualche anno fa lo skate
rappresentava la ricerca assoluta di avventura.
Oggi lo si trova nei centri commerciali. Insieme a tutto il resto.
I ristoranti sono a tema e ogni tema rappresenta un audace allontanamento
dalla strada della convenzione. Mentre gli altri abitanti della periferia
mangiano un pane bianco e insipido, al «Bon pain» è possibile lasciarsi
alle spalle questo mondo conformista e sognare di immergersi nel delizioso
e croccante cibo europeo. Al «Rainforest Cafe» si pranza in un'Amazzonia
incontaminata, mentre a poca distanza sono presenti ristoranti di cucina
giapponese, cinese, italiana e californiana.
Ovunque, birre artigianali permettono di sfuggire all'insipida Budweiser -
che del resto, stanca di essere considerata come una bevanda senza sapore
di periferia, è passata al contrattacco con un nuovo slogan caratterizzato
da un solo aggettivo: «Vera». Al ristorante «Vie de France» ognuno può
provare il piacere e la felicità di sorseggiare a un tavolino, in un
ambiente falsamente parigino, un acido merlot.
E di osservare adolescenti dalle acconciature accuratamente studiate
aggirarsi nervosamente sotto neon cromati.
Ma altrove l'ultimo decennio ha significato per molti proprietari di centri
commerciali depressione, declino, cessazione di attività.
Via via che la pressione del mondo imprenditoriale andava aumentando, gli
americani hanno avuto sempre meno tempo per andare in giro lungo i viali
climatizzati dei centri commerciali. Hanno dovuto comprare più in fretta e
a prezzi più bassi. È per questo che sono «fioriti» un po' ovunque nel
paese giganteschi negozi-deposito. Il loro principio è semplice: ridurre al
minimo le spese generali, eliminando tutti gli elementi superflui come
decorazioni o vetrine artisticamente concepite. Qui i prodotti si vendono
alla rinfusa su mensole metalliche e alla luce cruda dei neon. Sono privi
di tutta la magia del marketing e sono raccolti in mucchi alti fino a dieci
metri come oggetti qualunque.
Questi negozi-deposito si trovano per lo più nelle zone economiche della
periferia urbana. Eppure il Costco di Kansas City è dentro la città, in un
luogo dove prima c'erano abitazioni e discoteche.
Qui si trovava ad esempio il Milton's, un bar leggendario, ultimo ritrovo
della scena jazz degli anni '30 con i suoi Count Basie e Charlie Parker. Ma
anche questo locale, rimasto a lungo fedele al suo angolo di strada e che
ha rappresentato una sfida allo spirito moderato e rispettoso dell'epoca,
ha dovuto fare spazio al progresso: al suo posto oggi c'è il parcheggio del
Costco! 


note:

*Autore di The Conquest of Cool, Chicago, The University of Chicago Press,
1997 e di One Market Under God: Extreme Capitalism, Market Populism and the
End of Economic Democracy, Doubleday, New York, 2000.

(1) Si legga Michel Raffoul, «A la reconquête du client perdu» e Franck
Mazoyer, «Consommateurs sous influence», Le Monde diplomatique,
rispettivamente di febbraio e dicembre 2000.
(Traduzione di A. D. R.)  aa    qq L'avversario 
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