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felicita' e' un centro commerciale
- Subject: felicita' e' un centro commerciale
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 15 Nov 2001 06:49:45 +0100
---------------------------------------------------------------------------- ---- LE MONDE diplomatique - Ottobre 2001 ---------------------------------------------------------------------------- ---- Paradiso americano di periferia La felicità è un centro commerciale Arrivata dall'America, la moda dei centri commerciali giganteschi sembra invadere tutto il mondo. Tra poco il gruppo Time-Warner finirà di costruire a Madrid un colossale centro commerciale, dove sarà persino possibile sciare lontano dalle montagne e dalla neve naturale. In queste scenografie fittizie, dove i passanti sono ridotti al rango di semplici consumatori, si ricorre a tutte le astuzie del marketing per mettere in scena la commedia dell'esotismo e dell'autenticità. Ma dietro il cemento, il commercio e l'automobile negli Stati uniti comincia a intravedersi una certa stanchezza. dal nostro inviato speciale Tom Frank* All'inizio era il Country Club Plaza di Kansas City. Costruito negli anni '20, parte di un vasto insieme di quartieri residenziali, il Plaza fu il primo grande centro commerciale di periferia a essere interamente organizzato in funzione dell'automobile. Era anche il punto di incontro di un territorio fantasioso sul quale era cresciuto un habitat eterogeneo, che andava dallo stile provenzale francese al castello scozzese passando per una località balneare della Virginia, mentre il centro commerciale propriamente detto sembrava una replica di Siviglia. A nessuno sembrava strano che questo quartiere residenziale non avesse marciapiedi. Ogni anno la gente celebrava l'inizio della stagione commerciale di Natale recandosi in massa al Plaza per assistere all'accensione della sua struttura luminosa, celebre in tutto il mondo. I negozi più ordinari (alimentari e bowling) erano stati tolti per migliorare l'immagine del quartiere. Tutto ciò rappresentò uno dei primi tentativi di secessione dalla dura vita di Kansas City: finalmente buone scuole, piscine, polizia privata e una popolazione quasi esclusivamente bianca proveniente da classi superiori e i cui beni non si sarebbero più svalutati. Il metodo Country club si rivelò talmente efficace che il Plaza divenne un richiamo turistico per tutto il Midwest. A tal punto che il fenomeno si è diffuso a sud e a ovest, poche centinaia di strade più lontano, laddove la periferia di Kansas City prende il posto di quelli che un tempo erano terreni agricoli. Qui si trovano grandi zone commerciali, palazzi di uffici dalle facciate scintillanti, quartieri residenziali per «redditi alti» e tangenziali a sei corsie che cercano disperatamente di aggirare la città. I «McResidence» invadono le colline più lontane e incroci ancora sconosciuti solo un anno prima diventano agenzie immobiliari, ristoranti di moda e negozi alimentari di lusso. Con i suoi tredici ettari di negozi, Oak Park è il più grande complesso commerciale dell'agglomerato urbano di Kansas City. Chi si inoltra nell'atmosfera climatizzata dei grandi magazzini Nordstrom e dei suoi negozi eleganti incontra commessi cordiali che danno il benvenuto nella virile solidarietà di chi si profuma con l'acqua di colonia Polo e di chi porta costosissimi occhiali da sole di marca. Il tutto sugli accordi trascinanti di una ballata country-rock. Via via che ci si avventura nel centro ci si rende conto che le grandi compagnie internazionali regnano incontrastate. Ecco un negozio con l'insegna della Warner Bros Studio, facciata commerciale di quel gigante della «cultura» che è Aol-Time Warner. Qui non si cerca di vendere dei prodotti ma di proporre ai clienti un numero infinito di interazioni con la marca e le varie filiali del gruppo. Al piano terra del centro, nel laboratorio «Build a Bear» (Costruisci un orso), un'hostess eccessivamente premurosa invita il cliente a esprimere la sua personalità fabbricando il proprio orso di peluche. Dopo aver scelto tra diversi modelli, imbottiture e musichette, si è invitati a inserire questa deliziosa espressione della propria creatività nel grande registro elettronico degli orsi di peluche. Insomma, la prova definitiva che anche la nostra personalità esce dalle catene di montaggio! Quello che esiste alla periferia di Kansas City non ha nulla di eccezionale o di particolare. Il centro commerciale coperto e chiuso fu inventato alla fine degli anni '50 da un imprenditore immobiliare di Minneapolis, allo scopo di massimizzare le vendite ma anche di migliorare il comfort durante i rigidi inverni del Nordamerica. Nel corso dei successivi quarant'anni questa idea si è rapidamente diffusa da New York a Los Angeles e poi al mondo intero, sempre con lo stesso schema di base: una gigantesca struttura dalla forma più o meno cubica con parcheggi abbastanza grandi da accogliere il maggior numero possibile di clienti; almeno due grandi marche (tra cui un grande magazzino di dimensioni nazionali) poste alle due estremità della struttura con uno spazio intermedio pieno di piccoli negozi; un'area di ristorazione che offre ai consumatori una larga scelta di fast food; un'assenza quasi totale di attenzione estetica per la struttura esterna, mentre tutto il design architettonico si concentra all'interno, negli spazi climatizzati. Il Plaza era l'opera prometeica di un unico imprenditore. Il centro commerciale dell'epoca contemporanea è invece il paesaggio probabilmente più curato del mondo. Costruire e gestire centri commerciali è diventata un'industria gigantesca, un consumatore entusiasta è fondamentale per la prosperità americana quanto la benzina a buon mercato. Commercianti e pubblicitari fanno quindi appello ad antropologi per osservarci mentre acquistiamo (1). L'atmosfera musicale è scelta con cura per spingere al tempo stesso ad andare in giro e ad affrettarsi. L'allestimento delle vetrine e la decorazione interna dei negozi sono meticolosamente esaminati. Dall'illuminazione delle piante dei vasi alla distribuzione dei negozi, nulla è lasciato al caso. Nulla è lì solo per bellezza. I centri commerciali e l'espansione dei loro dintorni rappresentano una delle espressioni fisiche del capitalismo moderno. Tuttavia la letteratura americana sulle periferie afferma che la formazione di queste periferie attorno ai centri commerciali è l'espressione diretta della volontà popolare. I megacentri commerciali con i loro giganteschi parcheggi e la crescita quasi infinita delle periferie che ne deriva corrisponderebbero a quello che vuole il popolo, quando gli si permette di viaggiare e di scegliere liberamente: «Il centro commerciale, sono io». Autenticità calibrata, ribellione su misura Questo argomento rientra nel cosiddetto «populismo di mercato», per il quale il paesaggio costruito dal nuovo capitalismo sarebbe il riflesso dell'individuo medio e virtuoso. Al contrario, qualunque critica all'espansione delle periferie sarebbe caratterizzata da uno sprezzante spirito d'élite. Da un lato le persone di sinistra pretenziose ed egoiste, adoratrici della pianificazione e convinte di sapere tutto meglio degli altri. Dall'altro la gente autentica, che ovviamente vuole i centri commerciali. Questo modo di vedere è diventato così naturale che un controverso costruttore di centri commerciali non ha esitato a definirsi «l'architetto del popolo». Ma la realtà è un po' diversa. Quando si chiede alla gente, invece di presumere che la sua opinione sia la stessa degli imprenditori, cosa pensa veramente dell'espansione delle periferie, ci si rende conto rapidamente che detesta questo tipo di vita. Sono pochi coloro che credono ancora che la soluzione alle difficoltà urbane sia andare a vivere un po' più lontano, dove si costruirà un nuovo centro commerciale, dove si edificherà un orribile agglomerato urbano, il tutto per passare la giornata nel proprio fuoristrada a spostarsi in un paesaggio pieno di macchine, decorato con alberi rinsecchiti. Ormai i giovani che ne hanno la possibilità ritornano in massa nelle città abbandonate dai loro genitori. Cercano casa nei cosiddetti quartieri «bohémiens» e fanno salire i prezzi degli immobili urbani. A sua volta chi rimane in periferia non vuole che queste continuino a crescere, aggravando ancora di più le condizioni del traffico nel proprio quartiere. Questo nuovo spirito «anti-periferia», questo desiderio di allontanarsene lo si può osservare ovunque. Secondo la stampa professionale, i consumatori sono stanchi e perfettamente consapevoli del tipo di vita che si fa in periferia. Non vogliono più recarsi nell'ennesimo e anonimo centro commerciale. Chiedono esperienze vere e non i soliti negozi e ristoranti. Vogliono uscire da questi vicoli ciechi e dagli altri «luoghi di vita» prefabbricati. Ci vuole circa un'ora e mezza per recarsi a sud di Chicago, nel centro commerciale di Woodfield, a Schaumburg (nell'Illinois). Costruito all'inizio degli anni '70, Woodfield, con le sue cinque grandi marche e i suoi venti ettari di negozi era fino a una decina di anni fa il più grande centro commerciale del mondo (oggi è il terzo). Negozio dopo negozio, ristorante dopo ristorante, quello che qui si vende è un'autenticità calibrata e una ribellione su misura contro la vita di periferia. Perché si può vivere in un quartiere con le abitazioni tutte perfettamente uguali, passare come tutti il proprio tempo in un cubo e, prodigiosamente, grazie ai numerosi negozi di questa area commerciale (o di una qualunque altra), immaginarsi nei panni di un iconoclasta distruttore delle regole, di un duro individualista, di un tipo raffinato, di un lupo solitario sperduto in mezzo a un gregge di creature belanti! Dall'esterno «Schaumburg» ha forse l'aspetto di un regno senza anima del conformismo e della merce a buon mercato. Ma Schaumburg prospera propri commerciando antidoti culturali alla conformità, alla mancanza di vitalità e di autenticità. A Woodfield si nota subito che ognuno interpreta un ruolo. Fred, il venditore di uno dei supermercati, ha la testa rasata e porta una piccola coda di cavallo. Nel suo negozio, un'esposizione di manichini aveva per tema il coraggioso slogan: «Sono quello che sono». Gli adolescenti che frequentano questi luoghi hanno tutti gli stessi tatuaggi, gli stessi piercing e le stesse basette. L'elegante Lord and Taylor propone cravatte decorate con simboli della «pace nel mondo». Anche da Lane Bryant, negozio dedicato alle donne di taglia forte, si annuncia la «Rivoluzione dei jeans». E le T-shirt portano un messaggio lapidario: «Ribelle». Questo spirito di rivolta non avrebbe senso se non si tenesse sempre presente la cultura superata, sciocca e preistorica contro cui si rivolge. Probabilmente è per questo motivo che alcuni negozi di Woodfield offrono illustrazioni viventi della fatuità dei nostri antenati delle periferie. Così si ridicolizza il carattere goffo dell'arte pubblicitaria di moda negli anni '50. Il negozio Fossil (sic) - che vende dio sa cosa - presenta numerose parodie dei logo e dei manifesti dell'epoca: hostess dall'aria idiota fanno segni gioiosi verso uomini allegri, che portano cappelli flosci e sorridono a tutti. Ah, ma certo, noi siamo alternativi, autentici, estremi! Da Vans, uno dei due negozi dedicati agli skate-board, alcuni ragazzi salgono e scendono in skate una rampa in compensato a forma di U. Solo qualche anno fa lo skate rappresentava la ricerca assoluta di avventura. Oggi lo si trova nei centri commerciali. Insieme a tutto il resto. I ristoranti sono a tema e ogni tema rappresenta un audace allontanamento dalla strada della convenzione. Mentre gli altri abitanti della periferia mangiano un pane bianco e insipido, al «Bon pain» è possibile lasciarsi alle spalle questo mondo conformista e sognare di immergersi nel delizioso e croccante cibo europeo. Al «Rainforest Cafe» si pranza in un'Amazzonia incontaminata, mentre a poca distanza sono presenti ristoranti di cucina giapponese, cinese, italiana e californiana. Ovunque, birre artigianali permettono di sfuggire all'insipida Budweiser - che del resto, stanca di essere considerata come una bevanda senza sapore di periferia, è passata al contrattacco con un nuovo slogan caratterizzato da un solo aggettivo: «Vera». Al ristorante «Vie de France» ognuno può provare il piacere e la felicità di sorseggiare a un tavolino, in un ambiente falsamente parigino, un acido merlot. E di osservare adolescenti dalle acconciature accuratamente studiate aggirarsi nervosamente sotto neon cromati. Ma altrove l'ultimo decennio ha significato per molti proprietari di centri commerciali depressione, declino, cessazione di attività. Via via che la pressione del mondo imprenditoriale andava aumentando, gli americani hanno avuto sempre meno tempo per andare in giro lungo i viali climatizzati dei centri commerciali. Hanno dovuto comprare più in fretta e a prezzi più bassi. È per questo che sono «fioriti» un po' ovunque nel paese giganteschi negozi-deposito. Il loro principio è semplice: ridurre al minimo le spese generali, eliminando tutti gli elementi superflui come decorazioni o vetrine artisticamente concepite. Qui i prodotti si vendono alla rinfusa su mensole metalliche e alla luce cruda dei neon. Sono privi di tutta la magia del marketing e sono raccolti in mucchi alti fino a dieci metri come oggetti qualunque. Questi negozi-deposito si trovano per lo più nelle zone economiche della periferia urbana. Eppure il Costco di Kansas City è dentro la città, in un luogo dove prima c'erano abitazioni e discoteche. Qui si trovava ad esempio il Milton's, un bar leggendario, ultimo ritrovo della scena jazz degli anni '30 con i suoi Count Basie e Charlie Parker. Ma anche questo locale, rimasto a lungo fedele al suo angolo di strada e che ha rappresentato una sfida allo spirito moderato e rispettoso dell'epoca, ha dovuto fare spazio al progresso: al suo posto oggi c'è il parcheggio del Costco! note: *Autore di The Conquest of Cool, Chicago, The University of Chicago Press, 1997 e di One Market Under God: Extreme Capitalism, Market Populism and the End of Economic Democracy, Doubleday, New York, 2000. (1) Si legga Michel Raffoul, «A la reconquête du client perdu» e Franck Mazoyer, «Consommateurs sous influence», Le Monde diplomatique, rispettivamente di febbraio e dicembre 2000. (Traduzione di A. D. R.) aa qq L'avversario di Ignacio Ramonet Stati uniti, eccesso di potenza di Steven C. Clemons* Siamo tutti americani di Serge Halimi Il futuro del passato di Christian de Brie* In nome dello «scontro di civiltà» di TARIQ ALI * Solidarietà M. L. Gli ambigui legami del Pakistan di Selig S. Harrison* Dall'islam all'islamismo D. V. 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