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la conoscenza in un mondo complesso



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Mauro Ceruti
La conoscenza in un mondo complesso
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22 gennaio 2002

Puntata realizzata con gli studenti del Liceo “Cartesio” di Giugliano

 

STUDENTE: Ringraziamo il prof. Mauro Ceruti per aver accettato il nostro
invito; ora introduciamo l’argomento con una scheda  filmata.

La scienza, secondo l'idea comune, è un processo lineare. Procede in
avanti, per accumulazione, avvicinandosi ad un modello di conoscenza
assoluta che forse non raggiungerà mai, ma che rimane il suo obiettivo
ideale. Nel compiere questo percorso essa brucia le scorie dei saperi e
delle ipotesi precedenti e corregge continuamente i propri errori, errori
dovuti soprattutto all'osservatore, all'intrusione dell'elemento soggettivo
in una conoscenza che invece dovrebbe essere il più possibile oggettiva. Le
scienze della natura del nostro secolo, dalla biologia molecolare alla
fisica delle particelle, hanno imposto però un nuovo modello di conoscenza.
Si affacciano nuovi termini, che la scienza precedente avrebbe considerato
inquietanti: caso, disordine, la possibilità. Il processo della scienza non
è affatto lineare, ma conosce ritorni indietro, coesistenze e recuperi. E
inoltre è stato osservato che ad un aumento della conoscenza corrisponde un
aumento dell'ignoranza. Nuove forme di conoscenza portano con sé forme
sempre nuove di ignoranza. Questo ha portato con sé la rivalutazione
dell'elemento soggettivo, visto non più come portatore di errore e di
impurità. L'osservatore non è più qualcosa che sta sopra o di fronte lo
svolgersi della natura e delle sue leggi. Al contrario, la natura risponde
solo alle domande che l'osservatore sa porre e costruire. La parola chiave
non è più, come per Cartesio, il metodo, ma contesto, un contesto che lega
insieme la natura e l'osservatore. Così le prospettive più recenti della
scienza possono incontrare le antiche domande dei filosofi sullo spazio e
il tempo, la vita. 

STUDENTESSA: Professore, dalla scheda sono emersi alcuni concetti che
sembrano nuovi per la scienza, quali il caso, il disordine, la possibilità.
Potrebbe spiegarci che cosa sono e quanto contano nell'ambito della scienza?

CERUTI: Questa è una domanda che ci porta nel cuore dell'avventura della
conoscenza contemporanea. È la domanda che si sono posti i grandi filosofi
e i grandi scienziati del secolo che si è appena concluso, che non
contraddice, ma che prolunga l'avventura della conoscenza iniziata da
Cartesio, a cui è dedicata questo liceo. Cartesio si poneva il problema di
come costruire un metodo che ci garantisse una conoscenza certa. Non
dobbiamo dimenticare che il secolo di Cartesio non è soltanto e non è tanto
il secolo della certezza, della verità luminosa, trasparente, della
ragione. Il Seicento è stato un secolo drammatico per la nostra Europa a
causa delle numerose guerre di religione e i grandi della scienza e della
filosofia moderna nascente si sono posti il problema e la responsabilità
culturale e morale di elaborare un metodo per uscire dal conflitto delle
ragioni e dei punti di vista che insanguinava l'Europa in quel momento.
Sulla base del metodo elaborato per la scienza e per la filosofia
scientifica da Cartesio, da Galileo e da altri grandi filosofi e scienziati
del Seicento e poi del Settecento, si sono sviluppate le grandi discipline
scientifiche che sono giunte fino a noi. Scienze che però hanno indagato
nell’organizzazione della natura, della materia intorno a noi, che è
raggiungibile direttamente con i nostri cinque sensi o con i loro
prolungamenti diretti, come il telescopio, il microscopio. Le scienze che
si sono sviluppate nel Novecento e che hanno sfondato le frontiere
dell'infinitamente piccolo e dell'indefinitamente grande ci hanno
proiettato di fronte ad oggetti di conoscenza non direttamente omogenei con
quelli rivelati dal metodo cartesiano. Ora se il modello emerso mediante
l'applicazione del metodo cartesiano, ovvero lo studio della natura
osservabile attraverso i cinque sensi, è stato quello di un meccanismo
perfetto, di un orologio inflessibile, l'immagine che è emersa attraverso
lo studio dell'infinitamente piccolo e dell'indefinitamente grande non è
stata più riducibile a questo ideale della conoscenza che espunge il
disordine, il caso e l'incerto. Anzi ha provocato la necessità di elaborare
una pluralità di metodi in grado di tenere conto di ciò che non è
direttamente prevedibile a partire dalla conoscenza di leggi certe. Ecco,
il caso, l'incerto, l'imprevedibile, il disordine sono i protagonisti della
conoscenza scientifica contemporanea e sono protagonisti che non mettono in
discussione la validità della storia della scienza precedente; sono
protagonisti che approfondiscono questa vicenda e ci dicono che
“l'universo” - già come diceva Shakespeare – “è fatto di cose che esistono
in cielo e in terra, molto più numerose di quelle che erano riconducibili
al pur straordinario metodo della certezza della scienza cartesiana”.

STUDENTESSA: Spesso crediamo che la scienza sia basata su postulati
assoluti. Oggi possiamo dire che la scienza continui a prescindere da
queste certezze di base?

CERUTI: Sì. La scienza si è costruita a partire dalla sua grande tradizione
che si radica in grandi uomini, come Galileo e Cartesio, attraverso un
metodo che è stato definito ipotetico-deduttivo. I postulati a cui Lei si
riferisce sono assoluti perché sono posti come ipotesi assolute da
verificare alla base di un'indagine scientifica, ma sono ipotesi. Sono
ipotesi che possono essere messe in discussione e che non sono svincolate
dalla storia dei tentativi ed errori attraverso i quali la comunità degli
scienziati cerca di falsificarli.

STUDENTE: In questo grande cambiamento, quanto è importante la capacità
della scienza di riuscire a prevedere? 

CERUTI: Quello della previsione è proprio il problema dei problemi. Se c'è
una parola chiave attraverso la quale noi possiamo riassumere il sogno
della scienza moderna e della filosofia della scienza moderna, ecco questa
è proprio la parola previsione e prevedibilità. Il criterio che è stato
identificato dagli scienziati e dai filosofi per definire scientifica una
teoria o un'ipotesi è racchiuso in questa domanda: “ci mette o non ci mette
in grado di fare delle previsioni certe sul comportamento futuro del
sistema o dell'insieme dei fenomeni che stiamo studiando?” L’ideale della
previsione è il vero ideale in cui si è tradotto anche nel senso comune il
compito, il sogno, l'obiettivo di una conoscenza scientifica razionale e
oggettiva e questo sogno è stato largamente realizzato dalla grande Fisica,
dalla Meccanica Razionale, dall'Astronomia del Settece e dell'Ottocento.
Però lo studio dei sistemi complessi, delle particelle elementari, gli
studi introdotti dai grandi sviluppi della biologia contemporanea e poi
anche dalle scienze umane, dalle scienze della mente, hanno messo in
evidenza che conoscere scientificamente qualcosa non significa
automaticamente potere prevedere il futuro degli oggetti conosciuti. I
sistemi che noi studiamo sono perfettamente determinati, cioè sono regolati
da relazioni, intricate magari, di causa ed effetto, ma conoscere la legge
che regola il comportamento di un sistema e quindi le relazioni causali che
organizzano il comportamento di un sistema, non significa poterne prevedere
il comportamento futuro. Determinismo e previsione, che sono stati la
coppia più stabile nella storia del pensiero moderno, oggi hanno consumato
un divorzio, un divorzio che però permette e promette di conoscere sempre
meglio il comportamento, la natura dei sistemi viventi, dei sistemi fatti
di materia inorganica, non vivente e dei sistemi umani sociali e mentali.

STUDENTESSA: Galileo ci insegna che Il libro della natura è scritto in
caratteri matematici da codificare. Oggi possiamo sostenere che sia ancora
così?

CERUTI: La metafora del libro, secondo le intenzioni di Galileo, rimanda a
tanti lettori, tanti possibili scienziati, tanti possibili uomini e donne
che vogliono conoscere in modo oggettivo la natura, una natura che è
scritta però uniformemente, oggettivamente, nello stesso modo per tutti.
Forse oggi potremmo sostituire opportunamente l'immagine galileiana del
libro con un'immagine evoluta che ci viene proposta dalle nostre tecnologie
dell'informazione, magari con un libro interattivo che non è soltanto
decifrato, ma che, nel momento in cui è decifrato dalla mente, dall'occhio
del lettore, è anche in qualche modo scritto dal lettore. Non è una verità
depositata oggettivamente nella natura quella che si rispecchia nella mente
del lettore.

STUDENTESSA: Professore, dal momento che sono venuti meno i criteri di
oggettività assoluta, come facciamo a stabilire se una teoria è veramente
valida?

CERUTI: Questa è la domanda attorno alla quale si è svolto tutto il
dibattito epistemologico, il dibattito scientifico e filosofico intorno
alla scienza del Novecento. La grande tradizione epistemologica, per prima
nel Novecento, ha cercato di affrontare in modo scientifico questo problem.
Ha individuato delle procedure per mettere in piedi una teoria riconosciuta
come scientifica, sperimentandola, poi, per stabilirne la verità una volta
per tutte. Ma già dal dibattito che è emerso con gli anni Cinquanta e
Sessanta del secolo appena passato i grandi filosofi della scienza hanno
messo in discussione l'idea stessa che si possa verificare una teoria una
volta per tutte. Karl Popper, uno dei grandi filosofi della scienza
novecentesca, ha sostituito all'idea di verificabilità di una teoria
scientifica l'idea della sua falsificabilità. Una teoria è scientifica se
noi riusciamo ad esplicitare le condizioni con cui possiamo stabilire che
essa è falsa. Sembra quasi un paradosso dire che una teoria è scientifica
quando si riesca a falsificarla piuttosto che a verificarla, tuttavia è
questa l'idea condivisa dagli scienziati e dai filosofi che rende la
scienza un'avventura straordinaria del pensiero critico per eccellenza.

STUDENTESSA: Professore, quali sono gli elementi esterni che fanno emergere
o sommergere determinate teorie scientifiche, ovvero qual è il ruolo che
gioca la storia sulla scienza?

CERUTI: L'idea che ci si fa della scienza è l'idea di un pensiero, di una
forma di conoscenza che noi possiamo isolare dalle condizioni di contesto
che l'hanno prodotta, perché, come sosteneva Galileo, quello che contano
nella scienza sarebbero le dimostrazioni della matematica e le sensate
esperienze, cioè le esperienze che possiamo fare non col buon senso, ma con
il controllo dei cinque sensi e dei loro prolungamenti, dispositivi
tecnologici che costruiamo in laboratorio. Oggi noi sappiamo che a questi
due assi cartesiani individuati da Galileo per definire la conoscenza
scientifica, dobbiamo aggiungerne un terzo, che è quello della dimensione
caratterizzata dalle preferenze estetiche, dalle convinzioni metafisiche,
dall'insieme di desideri e di orizzonti etici o immaginari, che delineano
la cultura di un tempo. Ma io credo che a tutto ciò si debba aggiungere una
quarta coordinata, costituita dalla dimensione socio-economica, all'interno
della quale oggi è possibile lo sviluppo del pensiero scientifico e della
ricerca scientifica. Per fare ricerca scientifica sono necessari ingenti
finanziamenti per ottenere i quali spesso la ricerca deve perdere la
propria obiettività, sottostando alle finalità etiche, politiche ed
economiche di uno Stato.

STUDENTESSA: Possono coesistere due ideali di scienza, ad esempio quella
galileiana e quella di cui stiamo parlando adesso?

CERUTI: Non sono due ideali di scienza; sono lo stesso ideale di scienza
che oggi si articola in un modo plurale. Ecco, potremmo dire che il metodo
di cui si nutre la ricerca scientifica oggi non è unico, come si poteva
ritenere possibile e auspicabile al tempo di Galileo, ma anche nel XIX° e
all’inizio del XX° secolo; oggi noi possiamo e dobbiamo parlare della
scienza come apportatrice di una pluralità di metodi. Ogni oggetto richiede
un metodo specifico. L’'illusione dei filosofi della scienza, ancora nel
secolo passato, era di pensare che si potesse trasportare lo stesso metodo,
che aveva dato buona prova di sé nello studio del movimento dei corpi alla
nostra portata o nello studio dei movimenti dei pianeti, allo studio di
qualsivoglia oggetto scientifico. Essi pensavano, addirittura, che lo
sviluppo e il progresso della scienza si sarebbe potuto ottenere applicando
lo stesso metodo a tutti campi della scienza. Poi però la realtà ha imposto
le sue ragioni, svelando l’esigenza di più metodi di quanti si potesse
pensare.

STUDENTESSA: La pratica quotidiana dello scienziato resta invariata ? E le
teorie sono più astratte o trovano comunque una loro specifica applicazione?

CERUTI: Si, senz'altro il rapporto tra scienza teorica e scienza applicata
e soprattutto fra scienza e tecnologia è mutato. La tecnologia segue
temporalmente la scoperta scientifica e certamente la scoperta scientifica
è stata possibile attraverso la costruzione di tecnologie adeguate, rese
possibili dall'esperienza scientifica precedente. In questi anni noi siamo
di fronte ad un fenomeno inedito, senz'altro provocatorio per il senso
comune: “oggi non è più la scienza che precede sistematicamente la
tecnologia, come è avvenuto anche con le grandi scoperte del XX° secolo,
piuttosto è la tecnologia a precedere la scienza. Esistono tecnologie
rispetto alle quali non abbiamo un pensiero scientifico, una teorizzazione
scientifica corrispondente. Pensiamo allo sviluppo delle tecnologie
dell'informazione, al dibattito aperto a Hollywood fra gli attori che si
sentono rosicchiare la scena da quelli virtuali, costruiti in laboratorio;
pensiamo anche allo sviluppo delle biotecnologie. Insomma per la prima
volta nella storia umana la tecnologia sopravanza le categorie non soltanto
etiche e culturali, ma anche scientifiche, attraverso le quali noi possiamo
dare senso alle azioni tecnologiche e agli effetti che queste possono
produrre nella natura e nella natura umana.

STUDENTESSA: Potrebbe chiarirci meglio in che modo il pensiero scientifico
si differenzia dal pensiero comune?

CERUTI: Io ho avuto la fortuna di essere allievo del maestro della
Psicologia Infantile Jean Piaget, che è stato anche e soprattutto un grande
epistemologo, filosofo della scienza. Egli sosteneva che il pensiero
scientifico non segue una direzione qualitativamente diversa o addirittura
inversa rispetto a quella del pensiero comune. Il pensiero scientifico è
una particolare formalizzazione che rende rigorosa una modalità peculiare
del pensiero comune. Del resto se osserviamo i bambini agli albori delle
loro prime esperienze, li scopriamo dei piccoli scienziati poiché ciò che
caratterizza il pensiero scientifico è la curiosità, l'esercizio della
curiosità, la formulazione dei problemi, la capacità di stupirci nei
confronti di un fatto nuovo, ma anche e soprattutto la capacità di stupirci
nuovamente di fronte ad un'esperienza che ci può apparire familiare. È
soltanto la curiosità che può nutrire l'esercizio o l'applicazione di un
esercizio, di un metodo rigoroso che rispetti il rigore delle deduzioni e
il vincolo che ci danno i fatti e che ci vincolano all'esperienza.

STUDENTESSA: Che cosa distingue le scienze umane da quelle fisico-naturali?

CERUTI: Noi siamo figli di una tradizione che ha separato la cultura
umanistica dalla cultura scientifica, o meglio, la tradizione recente ha
consumato questo divorzio. Ma non dobbiamo dimenticare che la scienza e lo
spirito scientifico sono stati formulati da menti che racchiudevano dentro
di loro il meglio della cultura umanistica, il meglio della cultura
scientifica del loro tempo. Voi, studiando il Manuale di Storia della
Filosofia, scoprite autori che sono stati i giganti della storia del
pensiero scientifico e studiando i Manuali poco ispirati da un impianto
storico di scienza, di fisica, di biologia, di scienze naturali, trovate
citati i nomi di coloro che sono stati alcuni fra i più grandi filosofi
della storia moderna europea. Qui ritorniamo al problema del metodo unico o
del metodo plurale; tanto era forte la convinzione, soprattutto alla fine
dell'Ottocento, che il metodo della scienza potesse e dovesse essere uno ed
unico, ossia quello che aveva dato prova di sé nello sviluppo della fisica
del Settecento e dell'Ottocento, che quando la comunità degli scienziati
cominciò a gettare uno sguardo scientifico sui fenomeni umani, sulle
società umane, sulle menti umane, essa cominciò a pensare che si dovesse
applicare lo stesso metodo quantitativo, ovvero spezzettando gli oggetti di
studio, per poi ricomporli in un insieme dopo averli studiati in ogni
singola parte. Si continuò a pensare che il tutto fosse uguale alla somma
delle parti, si continuò ad applicare un metodo ispirato all'ideale di
riduzione, ossia che la spiegazione dei fenomeni, così come appaiono,
potesse essere riducibile all'ideale della meccanica. Oggi noi siamo di
fronte ad un fenomeno che capovolge letteralmente questo atteggiamento,
poiché la comunità scientifica è ormai convinta che i metodi della scienza
devono essere plurali. Ogni oggetto, se vogliamo usare questo termine
tradizionale, esige un proprio metodo, ma, soprattutto, ci troviamo di
fronte ad un fenomeno per cui le scienze umane, le scienze storiche, stanno
dando un contributo importante alle scienze fisiche, alle scienze
biologiche. Se c'è una caratteristica che più di ogni altra segna la natura
dell'umano e che quindi deve essere oggetto di studio da parte delle
scienze umane è la dimensione temporale, è la storia, è il fatto che le
cose cambiano, si trasformano. Il tempo, la storia sono stati i grandi
esclusi delle scienze naturali, delle scienze fisiche, delle scienze
matematiche nella storia della scienza moderna. E anzi la possibilità di
escludere la storia, il tempo e il cambiamento dalle teorie scientifiche, è
stata riconosciuta come un criterio della bontà delle teorie scientifiche.
Bene oggi la storia, la biografia dei sistemi, viventi e non, diventa il
protagonista principale anche delle teorie fisiche, delle teorie
cosmologiche, delle teorie biologiche. Quindi si stabilisce sempre meglio e
sempre più, quello che un grande fisico, ma anche filosofo del XX° secolo,
Hilia Prigogine, ha definito “una nuova alleanza fra la natura e la natura
umana” e quindi una nuova alleanza fra le scienze dell'uomo e le scienze
della natura.

STUDENTESSA: Professore, l'epistemolgo sembra essere un osservatore
esterno. In realtà quali sono i suoi rapporti con la pratica scientifica?

CERUTI: L'epistemologia, cioè la ricerca di conoscenza sul modo in cui si
sviluppano le stesse conoscenze scientifiche è stata condotta direttamente
dai grandi scienziati. Per una stagione importante, nella prima metà del
secolo, senz'altro, è vero, l'epistemologia si è posta come un sapere
normativo, esterno, meta-scientifico che ha cercato di individuare in modo
astratto dai contesti concreti e dai modi concreti di fare conoscenza
scientifica, le norme, le regole, i criteri che fanno o farebbero la
scientificità delle nostre teorie. Però i grandi epistemologi del XX°
secolo - e cito fra tutti ancora una volta Jean Piaget - hanno rilevato che
la caratteristica del pensiero contemporaneo attraverso le sue grandi
rivoluzioni, come quella microfisica, relativistica, cosmologica,
biologico-evoluzionista, biologico-molecolare e cibernetica, è di avere la
dimensione epistemologica internamente alle teorie. Voglio dire che
conoscere una particella elementare o la natura del cosmo o i sistemi
artificiali, sono domande costitutive dello scienziato in quanto tale.
Conoscere e conoscere la conoscenza attraverso la quale si conosce
qualcosa, fa parte dello stesso movimento. Non possiamo conoscere nulla di
scientificamente profondo oggi senza cercare di conoscere come elaboriamo
la nostra conoscenza dell'oggetto che vogliamo conoscere.

STUDENTE: Professore, in questi ultimi tempi si parla molto di bioetica;
secondo Lei quali sono i rapporti tra la scienza e la morale?

CERUTI: Questo è il problema dei problemi, non soltanto per la scienza e
per l'etica contemporanea, ma per il futuro stesso della nostra civiltà. Un
grande filosofo, della seconda metà del Novecento, Hans Jonas, che ha molto
riflettuto sulla natura della morale, ma anche sulla natura della
tecnologia e della scienza del Novecento, ha fatto questa affermazione, che
chiarisce molto il problema che Lei mi pone: "A causa delle nuove
tecnologie rese possibili dalla scienza contemporanea è mutata la natura
dell'agire umano".Cosa vuole dire Jonas o più modestamente cosa voglio dire
io riprendendo questa citazione? Ancora nel Novecento l'etica, il discorso
morale si è potuto fondare su una chiara separazione fra il dominio della
verità dipendente dalla conoscenza scientifica e il dominio della
riflessione sul bene, che riguarda l'etica, la morale. Spesso il discorso
sul bene è stato subordinato al discorso sul vero e il riferimento alla
scienza è stato in qualche modo tradotto in una sorta di
de-responsabilizzazione rispetto al compito della morale. Si è detto: “la
tecnica, la tecnologia è neutra rispetto alla natura e rispetto alla natura
umana”. Oggi con ogni evidenza abbiamo a disposizione ricerche scientifiche
e soprattutto tecnologie che non possono più essere considerate neutrali,
né rispetto alla natura, né rispetto alla natura umana, perché nei
laboratori di ricerca, attraverso la tecnologia, esse vengono trasformate
così radicalmente che necessariamente impongono una presa di
responsabilità. Le domande della bioetica sono sintomi del turbamento
introdotto nelle nostre coscienze da tecnologie che in sé non sono buone o
cattive, ma che richiedono la nostra responsabilità. Un esempio è dato
dalla riflessione sulla clonazione di embrioni umani a scopo terapeutico.

Puntata registrata l'11 dicembre 2001