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lettera di un chimico al padrone dell'Ilva




Dott. Roberto Giua
CHIMICO
Corso Umberto, 79 - 74100  TARANTO



Gent. Ing. Riva,

ho ricevuto, al pari di molti miei concittadini, la Sua del 17 ottobre u.s. 
e mi sembra doveroso risponderLe, data la rilevanza dei problemi da Lei 
sollevati.
Non mi sembra che Lei si mostri consapevole, nelle parole che mi indirizza, 
della portata dell'impatto ambientale degli impianti siderurgici, di cui parla.
Tali impianti che, come sa, costituiscono il centro di produzione di 
acciaio a ciclo integrale più grande d'Europa, contano dozzine e dozzine di 
camini che emettono in aria decine di migliaia di tonnellate l'anno di 
polveri, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, ossido di carbonio.
I parchi minerali, estesi come rioni, sono costellati di  cumuli di 
minerali di ferro e carbone che producono emissioni diffuse di polveri 
interessando un quartiere, i Tamburi, posto a poche centinaia di metri di 
distanza e separato soltanto da scarne colline "ecologiche"costituite, come 
il molo polisettoriale e vari riempimenti a mare, con un prodotto di scarto 
del ciclo siderurgico, la loppa d'altoforno.
Le cokerie, anch'esse nella parte di stabilimento vicina alla città, 
producono coke e catrame diffondendo nell'aria idrocarburi policiclici 
aromatici, sostanze riconosciute come cancerogene e che hanno causato, e 
continuano a causare, un elevato rischio per tumori tra i lavoratori 
addetti, tanto da meritare il continuo promuovere di studi, perizie, 
accertamenti e da configurare questi addetti come una coorte di soggetti 
"da esperimento".
L'area tarantina presenta un'incidenza di tumori, in specie quelli 
polmonari, superiore alla media regionale e nazionale, in correlazione alla 
massiccia presenza industriale, tanto da essere giudicata dalla stessa 
normativa nazionale "ad elevato rischio di crisi ambientale".
La stessa area è, anche, a rischio di incidenti rilevanti, quel genere di 
accadimenti che, come a Seveso, sembra non preoccupi più di tanto la 
collettività fino a quando si verifica il peggio, e si contano i morti ed i 
feriti.
Grave è quindi il carico di responsabilità che Lei si addossa, Ingegnere, 
giudicando opportuno e produttivo il funzionamento degli impianti ILVA, 
senza considerare quale decremento di salute e, addirittura, di vite umane, 
corrisponda ad un apporto di produzione e di occupazione.
Lo stabilimento ILVA appare, comunque, in stato di crescita, non di 
contrazione; nuovi impianti sono autorizzati e vengono costruiti, nuovi 
cicli si aggiungono a quelli già esistenti, come il recente capannone di 
zincatura.
Anche l'impianto di cokefazione, durante la Sua proprietà, è stato 
arricchito di un'ulteriore batteria di forni, la dodicesima, che si è 
aggiunta a quelle già funzionanti.
Vi è già stato, cioè, un incremento produttivo e delle emissioni nocive 
dello stabilimento tarantino; di ciò, Lei non fa cenno paventando, 
soltanto, le ripercussioni di una possibile chiusura di alcune batterie di 
forni delle cokerie; chiusura che potrebbe invece, se a fermarsi fossero le 
batterie più vetuste, compensare l'aumentato impatto ambientale dell'impianto.
Lei celebra la Sua fabbrica come una "efficiente ed affidabile fonte di 
reddito per chi ci lavora"; reddito che passa, peraltro, attraverso una 
rilevantissima incidenza infortunistica che provoca, addirittura, diversi 
morti l'anno; comportando il lavoro in ILVA, per i giovani che vi accedono, 
diminuite garanzie occupazionali ed un regime organizzativo pressante e 
insopportabile, con relazioni sindacali sempre più inesistenti.
Lei dice che notevoli investimenti sono stati pianificati, nei prossimi 
anni, a tutela dell'ambiente.
Questi investimenti sono, quasi tutti, destinati all'adeguamento degli 
impianti a normative già da tempo in vigore, quali il Decreto 203 del 1988, 
sul controllo delle emissioni industriali; adeguamenti obbligatori per 
legge, quali l'aspirazione allo sfornamento nelle cokerie, mancante ancora 
per diverse batterie di forni (proprio quelli della cui chiusura si discute).
Gentile Ingegnere, questa è una terra in cui Lei, da Milano ed io, da 
Firenze, siamo ospiti ed oriundi; terra abituata a subire, suo malgrado, 
scelte fatte da altri ed imposte dall'alto; terra abituata a sogguardare 
con scetticismo e con rassegnazione chi afferma di essere portatore di 
benefici economici e di miglioramenti della qualità della vita.
Lei, ingegnere, non è altro che uno di quelli che, credendo (vorrei 
pensarlo) di agire per il meglio, opera come in passato con prepotenza, 
superficialità e distacco dalle esigenze reali del territorio.
Non dubiti che farò quanto posso perché questo non abbia ad accadere, 
almeno, in modo inconsapevole.

Distinti saluti.


Taranto, 30 novembre 2001

Dott. Roberto Giua