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l'11 settembre vale anche per l'ambiente



da boiler it di domenica 28 ottobre 2001

 
“Ma l’11 settembre vale anche per l’ambiente”

intervista con Lester Brown
di Andrea Pinchera  


 PER ANNI, chiunque fosse stato interessato a conoscere i destini
ambientali della Terra aveva un porto sicuro: Lester Brown e il Worldwatch
Institute. Brown è in Italia, per una serie di conferenze organizzate dal
Wwf. A Roma, in particolare, ha tenuto la “Aurelio Peccei Lecture” 2001, in
onore del fondatore e animatore del Club di Roma, che con i suoi rapporti
ha animato le discussioni a proposito del futuro energetico e ambientale
dell’umanità, anticipando molti dei temi della globalizzazione. Lo abbiamo
intervistato, per sapere del prossimo libro, Eco-economy (che uscirà negli
Stati Uniti ai primi di novembre e in Italia tra qualche mese); e della sua
nuova creatura, l’Earth Policy Institute, per la quale ha abbandonato
l’incarico di presidente del Worldwatch Institute.

Che cos’è l’Earth Policy Institute? Valeva la pena lasciare la sua prima
creatura, il Worldwatch Institute, per creare un nuovo organismo?

Innanzitutto io sto ancora nel direttivo del Worlwatch Institute, anzi lo
presiedo. In tale carica, ovviamente, non ho molte responsabilità
quotidiane, così ho più tempo per pensare e scrivere. E quello che io penso
è che il mondo abbia bisogno di una visione di cosa sarà una economia
sostenibile da un punto di vista ambientale, della nuova “eco-economia”.
Perché se non abbiamo una visione, un’idea di dove vogliamo andare sarà
molto difficile arrivarci.

Quindi il suo nuovo istituto si concentrerà sulle cose da fare?

Sì, perché il movimento ambientalista globale sta diventando molto forte,
ma tende a lavorare “contro” delle cose, piuttosto che “a favore” di altre.
All’inizio, probabilmente, doveva essere così. Ma ora un tale atteggiamento
non è più sufficiente ed è per questo che voglio tracciare una visione.
Spero che un giorno sia condivisa da molti e che ognuno possa lavorare per
creare una nuova economia, che sosterrà il progresso economico senza però
distruggere i sistemi naturali sui quali si fonda.

In Eco-economy lei sostiene appunto che bisogna ribaltare il rapporto tra
ecologia ed economia…

Ci sono due modi di guardare al mondo. All’inizio del mio libro, ricordo
che nel 1543 l’astronomo polacco Niccolò Copernico pubblicò un testo, Della
rivoluzione delle sfere celesti, nel quale sfidava l’idea tradizionale che
il Sole orbitava attorno alla Terra, affermando al contrario che era il
nostro pianeta a girare attorno al Sole. Questa sua visione alternativa a
quella tolemaica portò a una rivoluzione del pensiero, a una nuova visione
del mondo. Oggi, abbiamo bisogno di una simile mutazione di prospettiva a
proposito delle relazioni tra natura ed economia. Di solito, gli economisti
tendono a pensare che l’economia sia un sistema operativo generale, del
quale l’ambiente non è altro che un sottoinsieme. Nella mente di molti
industriali ed economisti l’ambiente è solo la parte inquinata
dell’economia: qualcosa da ripulire e tutto torna a posto. Si tratta invece
di una cosa molto più fondamentale. Gli ecosistemi terrestri tendono a
sopravvivere abbastanza bene senza l’economia, ma l’economia non può vivere
senza di essi. Ma se, come affermano gli scienziati dell’ambiente,
l’economia è parte degli ecosistemi naturali, ne consegue che l’economia
deve essere disegnata, strutturata in modo da essere compatibile con gli
ecosistemi…

Così non è, invece…

Esatto. Il nostro problema è che l’economia non è sincronizzata con gli
ecosistemi che la sostengono. E ne vediamo le conseguenze. Man mano che
l’economia cresce, infatti, si moltiplicano i sintomi di stress: aree di
pesca al collasso, foreste che si riducono, deserti che si espandono,
risorse idriche insufficienti, oceani che salgono, temperature in crescita,
tempeste distruttive più frequenti, ondate di caldo, ghiacci che si
sciolgono, specie animali e vegetali che scompaiono. Non è un rapporto
sostenibile: gradualmente, man mano che gli ecosistemi naturali si
deteriorano, anche l’economia entrerà in crisi.

Ci dia allora un’immagine di come apparirà la eco-economia…

Ne vediamo già alcuni esempi: nelle fattorie del vento in Danimarca, nei
tetti solari in Giappone, nella riforestazione in Corea, nelle reti
ciclabili in Olanda, negli impianti di riciclaggio dell’acciaio negli Stati
Uniti, in quelli di carta in Germania, nelle celle a combustibile che
alimentano le prime automobili. Uno dei più sensazionali sviluppi degli
ultimi anni è l’enorme crescita dell’energia eolica. Ma ancora più
interessante è il potenziale di questa fonte energetica. Secondo il
Dipartimento per l’energia Usa, tre stati come Nord Dakota, Texas e Kansas
potrebbero produrre sufficiente energia dal vento per soddisfare la
richiesta nazionale di elettricità. Inoltre, una volta abbassati i costi
dell’elettricità, diventa conveniente l’elettrolisi dell’acqua per produrre
idrogeno: e l’idrogeno sarà la vera alternativa al petrolio. L’idrogeno può
essere utilizzato nelle turbine, ma anche nelle celle a combustibile,
questo dispositivo simile alla pila che può produrre energia o muovere
un’automobile senza creare inquinamento. Così, negli Usa possiamo guardare
a un futuro nel quale contadini e allevatori, con le turbine a vento
installate nelle loro aziende, produrranno non solo gran parte
dell’elettricità nazionale, ma anche una buona parte del combustibile che
alimenterà le automobili americane. È una prospettiva molto eccitante, che
credo si realizzerà velocemente. Solo quest’anno, d’altra parte, l’energia
eolica “made in Usa” crescerà di più del 60 per cento.

Quello di cui lei parla fa pensare a un libro di Paul Hawken e dei coniugi
Lovins, Capitalismo naturale…

Sì, il loro libro è pieno di esempi di come far andare meglio le cose, di
come migliorare la produttività e inquinare di meno. Quello che io faccio
con Ecoeconomy è fornire le strutture, gli elementi di connessione tra
tutte le soluzioni proposte da Hawken e dai Lovins.

Lei si dichiara ottimista a proposito del futuro. Ma quali sono le
condizioni perché si instauri una economia sostenibile da un punto di vista
ambientale?

La prima sfida è costringere il mercato a dire la verità, la verità
ecologica. Ora, se andiamo alla pompa di benzina a rifornire la macchina,
paghiamo i costi di estrazione e raffinazione del greggio, il trasporto
fino alla pompa, ma non paghiamo per l’inquinamento atmosferico, i
mutamenti climatici, le piogge acide e tutti gli altri impatti ambientali
causati dal ciclo dei combustibili fossili. Il mercato deve essere più
onesto a proposito dei costi reali delle tecnologie disponibili. Ma quello
che è più importante è che ci troviamo di fronte alla necessità di
ristrutturare l’economia in modo da permettere che il progresso non si
arresti. E questa ristrutturazione rappresenta la maggiore opportunità
d’investimento della storia. Non abbiamo affrontato niente di questa scala
finora: ristrutturare l’economia energetica, riforestare, investire
nell’efficienza idrica, rimpiazzare l’industria mineraria con quella del
riciclaggio rappresentano altrettante opportunità di sviluppo. E le
industrie che se ne renderanno conto per prime saranno vincenti, mentre
quelle che cercheranno di proteggere lo status quo saranno perdenti.

Intanto, però, fatichiamo a ratificare anche un accordo minimo come il
Protocollo di Kyoto. Che pensa delle posizioni del presidente George Bush?
I cittadini americani la pensano come lui?

Tutti i sondaggi d’opinione indicano di no: i cittadini americani sono più
avanti rispetto al loro presidente. Se ripensiamo ai primi mesi di
presidenza, notiamo che Bush non prestava molta attenzione al resto del
mondo, a quello che faceva e pensava la comunità internazionale. Ma poi è
arrivato l’11 settembre, e all’improvviso l’amministrazione ha compreso che
ha bisogno di cooperare con il resto del mondo contro il terrorismo. E io
penso che Bush abbia imparato la lezione e non potrà più fare da solo,
anche in campo ambientale. Stiamo entrando all’interno di una nuova
dinamica, le cose sono cambiate, anche se in un modo che ancora non sappiamo.