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STOP INDIANO AL COTONE MODIFICATO
DAL MANIFESTO DI VENERDI 6 LUGLIO 2001
Stop indiano al cotone modificato
TERRATERRA di FRANCO CARLINI -
L'India aveva fatto una certa apertura alle sementi geneticamente
modificate, ma il mese scorso, a sorpresa, le porte si sono chiuse. Il
ministero dell'ambiente infatti ha negato la commercializzazione di una
varietà di cotone sviluppato dalla Monsanto e dalla sua sussidiaria locale
Mahyco (Maharashtra hybrid seed company). La decisione è stata presa perché
non appaiono chiari benefici economici e restano delle incertezze rispetto
alla sicurezza. Due mesi fa invece i ricercatori indiani del Dipartimento
di biotecnologie lo avevano validato, suggerendone anzi la diffusione su
larga scala.
Il cotone Monsanto contiene due elementi di manipolazione: il primo, più
importante e potenzialmente benefico, è la presenza dei geni tipici di un
batterio, l'ormai famoso Bacillus thurigiensis, che conferisce alle piante
in cui si sviluppa una buona resistenza a un insetto che le attacca. Il 40
per cento dei pesticidi usati nel paese sono dedicati a combattere tale
peste. Il cotone modificato dovrebbe consentire di usare meno pesticidi
chimici e di alzare la produzione di questa materia prima così importante
per l'India (detiene il 15 per cento del mercato mondiale).
Le prime sperimentazioni in 52 appezzamenti sotto controllo della
Monsanto-Mahyco cominciarono già nel 1998, sempre in accordo con il
Dipartimento delle biotecnologie, e avendo avuto successo, almeno secondo i
proponenti, si trattava ora di passare alla commercializzazione: ma proprio
qui è arrivato lo stop, con la richiesta di ulteriori verifiche
scientifiche. Il ministero dell'ambiente infatti sostiene che i primi test
così positivi sono stati fatti fuori stagione, quando gli insetti nocivi
sono naturalmente in numero minore. Dunque l'efficacia del cotone genetico
dovrà essere meglio verificata su terreni più estesi e questa volta con la
supervisione del Consiglio per le ricerche agricole (Icar).
Il secondo elemento di manipolazione del cotone è l'inserimento di un gene
resistente alla streptomicina come marcatore. In questo come in altri casi
si tratta infatti di riconoscere in quali piante la manipolazione ha avuto
successo e un modo per farlo è di trattarle con antibiotici: quelle che
resistono hanno passato l'esame. Ma proprio l'uso di geni che provocano
resistenza agli antibiotici viene criticato perché si teme che essi possano
propagarsi alla popolazione, rendendo inefficaci i farmaci.
Per ora la Monsanto ha fatto buon viso alle nuove richieste, anche se ha
già investito nel progetto 8 milioni di dollari negli ultimi sei anni.
Applaude invece con convinzione La Fondazione per la Scienza, la Tecnologia
e l'Ecologia: "Il via libera avrebbe aperto le dighe a un'alluvione di
altre sementi geneticamente modificate in una situazione in cui l'India non
ha le appropriate infrastrutture tecnico-scientifiche per gestire il
rischio dell'ingegneria genetica". Va ricordato che diversi paesi in via di
sviluppo non hanno un'opposizione pregiudiziale agli organismi Gm, ma che
la loro critica si rivolge soprattutto al fatto che esse risulterebbero
fuori controllo e non appropriate. Questa per esempio è la posizione
espressa da Tewolde Berhan Egziabher, a capo dell'autorità etiope per
l'ambiente. Se molti paesi africani stanno rifiutando la facile
importazione di sementi Gm è soprattutto per merito del suo ruolo guida,
che lo ha reso assai inviso agli occidentali. Eppure Egziabher fa dei
ragionamenti di assoluto buon senso: "Molto spesso gli occidentali arrivano
con delle ricette semplificate che provocano più problemi che soluzioni. Io
credo che dovrebbero smetterla di prescrivere soluzioni. Se ci vogliono
aiutare dovrebbero instaurare delle collaborazioni basate su un dialogo
genuino. Io non sono favorevole né contrario ad alcuna tecnologia. Ognuna è
buona a seconda della combinazione tra le nostre esigenze e le sue
promesse. L'ingegneria genetica è appunto solo una delle possibili
tecnologie".
E poi c'è la questione dei brevetti, sui quali ancora Egziabher ha le idee
chiare: "per come stanno oggi le cose un'azienda americana può detenere i
diritti per una pianta che è nata in Etiopia e chiedere le royalty agli
etiopi che la usano. Se succedesse sarebbe tragico".