[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]
emergenza energetica: cambia il mercato
dal sole24ore di giovedi 16 maggio 2001
Emergenza energetica, cambia il mercato
di Roberto Capezzuoli
Alcoa, numero uno tra i produttori mondiali di alluminio, ieri ha sospeso
la produzione nel suo impianto di Ferndale, nello Stato di Washington, e
rivenderà l’energia risparmiata alla Bonneville Power Administration, la
principale società di distribuzione dell’energia elettrica della Costa
nordoccidentale degli Stati Uniti. La fonderia chiusa probabilmente non
riprenderà l’attività fino all’autunno 2003.
La notizia in sé non è clamorosa. Ma è soltanto l’ultima di una lunga serie
che denuncia uno dei più gravi recenti malesseri dell’industria in genere,
non solo dell’alluminio e non solo degli Usa.
L’energia è da due anni la mina vagante dell’economia mondiale, per almeno
due motivi. Il primo è il prezzo, che in moltissimi Paesi è legato a doppio
filo con quello del petrolio. È sufficiente considerare il mutamento
radicale accusato dallo scenario in tempi relativamente brevi: il Brent
dated, punto di riferimento per il mercato fisico europeo, lungo tutto il
1998 non ha mai superato quota 16,30 dollari al barile, finendo anzi in più
occasioni sotto i 10 dollari. Durante l’estate scorsa la stessa quotazione
ha toccato punte superiori a 36 dollari e oscilla oggi intorno a 28
dollari. Quanto sia costato ai Paesi importatori è noto.
Il secondo motivo è la carenza di offerta. La fame di energia mostra di
rallentare poco, anche nelle fasi di minor crescita dell’economia. La
disponibilità di greggio e altri combustibili (in particolare carbone) in
realtà non manca, purché se ne paghi il prezzo. Ma l’offerta di energia
elettrica non è altrettanto ampia, soprattutto perché è soggetta a molte
variabili (come la siccità, il grande nemico dell’energia idroelettrica) e
si trova nell’impossibilità pratica di costituire scorte con cui
fronteggiare i periodi più critici.
Il caso della Costa nordoccidentale degli Stati Uniti è esemplare e la
chiusura dell’impianto Alcoa è solo l’ultimo effetto di una crisi di vaste
proporzioni. I consumi industriali, familiari (fortemente appesantiti dagli
impianti di condizionamento) e agricoli hanno portato al tracollo l’intera
rete che rifornisce gli Stati di Washington, Oregon e California. Il
risultato non è di poco conto. E non solo per i frequenti black out che
devono sopportare gli abitanti della California, il Paese che in base ai
parametri occidentali è il più progredito del mondo. Esistono reazioni a
catena di vario tipo. Tra queste, le misure che le industrie della Silicon
Valley adottano per combattere un nemico subdolo, l’interruzione di
corrente, capace in pochi secondi di mandare in tilt le reti di comunicazione.
Anche le strategie messe forzatamente in campo da molte imprese energivore
danno effetti che si allargano come onde in uno stagno. Il caso più
evidente è proprio l’alluminio: il 44% dell’intera capacità produttiva Usa
è collocato nella Costa nord-ovest e ha dovuto sospendere l’attività. Prima
tagliandola, per evitare l’acquisto di energia sempre più costosa; poi
riducendola ai minimi termini, per rivendere vantaggiosamente l’energia che
era stata contrattata in precedenza a prezzi più bassi; infine bloccandola
completamente, per rispettare l’invito delle stesse società di distribuzione.
Oggi la situazione è grave. L’energia elettrica costa quasi 300 dollari per
megawattora, contro i 20-25 di due anni fa. Molte centrali idroelettriche
soffrono gli effetti della siccità. Il principale ente erogante della zona,
la Bonneville Power Administration, è in grado di produrre solo 8mila
megawatt, invece degli 11mila che deve distribuire. E quindi paga a caro
prezzo l’energia che ottiene da altre centrali, anche estere, tanto che ha
dovuto chiedere alle fonderie di alluminio di interrompere la produzione, e
non per poche settimane ma per almeno due anni. Un invito difficile da
respingere al mittente.
A risultarne alterato è il panorama del settore alluminio: la produzione
Usa è calata di 1,6 milioni di tonnellate/anno: quasi l’8% del totale
mondiale. Per il momento le aziende coinvolte si ritrovano in condizioni
più floride del previsto, grazie all’accennata rivendita dell’energia
elettrica, di cui dispongono per contratto fino al settembre prossimo; ma
il loro futuro presenta parecchie incognite, perché la crisi rischia di
prolungarsi e le quote di mercato saranno occupate da altri. Nel frattempo
i prezzi internazionali dell’alluminio ottengono un sostegno insperato, che
nasconde una situazione di mercato non del tutto favorevole.
Ancora più curioso è quanto sta avvenendo nel Regno Unito: il prezzo del
gas naturale è raddoppiato in 18 mesi e alcune centrali a metano hanno
deciso di chiudere i battenti per rivenderlo sul mercato. Il fenomeno
alluminio, sia pure in misura meno rilevante, si è esteso ad altre
produzioni primarie, come quelle di zinco, rame e oro, e minaccia anche
l’agricoltura. Inoltre si è allargato ad altri Paesi: la canadese Cominco,
che ha importanti fonderie di zinco e le alimenta con proprie centrali
idroelettriche, ha rallentato la produzione di metallo, perché ottiene
margini più vantaggiosi vendendo l’energia elettrica oltre frontiera.
Una distorsione momentanea? Secondo Davide Tabarelli di Rie (Ricerche
industriali energetiche) non è detto che sia così: «Le centrali elettriche
sono ad alta intensità di capitali e servono tempi lunghi per il recupero
dell’investimento. Oggi però il mercato naviga nell’incertezza e non offre
le necessarie garanzie».
Giovedì 17 Maggio 2001