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fast food scientifico: sotto la scoperta niente



dal messaggero di venerdi 13 aprile 2001

  

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Il fast food della scienza/Ricerche in corso annunciate dai media come
clamorosi risultati, complici non sempre inconsapevoli professori e
luminari. Dall’eclatante
caso Folkman sulla ”certezza” di vincere il cancro ai ”trucchi” per farsi
pubblicità. 
Viaggio nel malcostume che promette e illude E, nel laboratorio,sotto la
scoperta niente 
di CARLA MASSI 

COME un hot dog, un cheeseburger o un bocconcino di pollo fritto. Come un
pranzo fast food, un fazzoletto di carta, un bicchiere di plastica. Anche
la scienza è arrivata al traguardo dell’usa e getta. Come si conquista il
primo risultato di una ricerca, scatta la corsa per mandarlo in pasto a
giornali, tv, Internet, agenzie di stampa. In un baleno, dal laboratorio di
un’università arriva sulle prime pagine dei quotidiani. E in quel momento,
puntuali, gli scienziati fanno partire gli attacchi: criticano i titoli,
accusano i giornali di stravolgere l’anima dei lavori, di illudere la
gente. Ma perché, allora, le grandi riviste scientifiche ogni mese
anticipano alle agenzie di stampa internazionali i lavori più "appetibili"?
Mettendo insieme le autostrade della scienza con i lavori in corso. Le
opere d’arte finite e le bozze d’autore. Rischiando spesso di generare
dolorose speranze. 
Uno degli ultimi casi di clamore internazionale è targato Usa. Domenica 3
maggio 1998: sulla prima pagina del New York Times, con grossa evidenza,
sono annunciati i risultati di una ricerca condotta dal professor Judah
Folkman. Lo scienziato aveva scoperto, lavorando sui topi, che certe
proteine possono sopprimere un tumore impedendo ai vasi sanguigni di
portargli nutrimento. Di punto in bianco il professore di chirurgia alla
Harvard Medical School e al Children’s Hospital di Boston venne catapultato
nel gran circo delle dichiarazioni. Lui schivo, lui che per oltre 30 anni
aveva lavorato nel suo laboratorio (265 pubblicazioni scientifiche)
affidando sempre ogni decisione alle autorità sanitarie. Fino all’uscita
dell’articolo sul giornale Folkman era un professore che aveva chiesto
(spesso invano) finanziamenti per la sua ricerca. Uno scienziato senza
lustrini e senza piume che, con i colleghi, si divertiva anche a
minimizzare il suo lavoro. In prima pagina il professore è arrivato con un
progetto di comunicazione ben studiato. A tessere per primo le sue lodi è
stato uno dei padri della scienza moderna, James Watson, vincitore del
premio Nobel con Francis Crick per aver scoperto la struttura del Dna.
Queste le sue parole nell’articolo: «Judah curerà il cancro in due anni,
sarà ricordato fra i grandi scienziati come Charles Darwin». In America,
subito dopo l’uscita dell’articolo, partì una campagna stampa che mise in
discussione anche la portata della ricerca. Si scatenarono tutti: dagli
scienziati agli operatori di borsa che rivelarono i retroscena del boom a
Wall Street dei titoli delle case farmaceutiche produttrici delle sostanze
utilizzate da Folkman. Sul banco degli imputati venne fatta sedere
l’autrice dell’articolo, Gina Kolata (la più nota delle giornaliste mediche
statunitensi) già pronta, a pochi giorni dalla pubblicazione sul giornale,
a scrivere un libro sul professore. Con Folkman che, da vero animale di
laboratorio, continuava a ripetere: «Passare dal topo all’uomo è un grosso
salto, che spesso fallisce». Un amico malato di cancro gli chiese di
provare la terapia su di lui ormai allo stadio terminale. Lo scienziato
rispose no. La sperimentazione è partita all’inizio del Duemila e si sta
ancora lavorando. 
Ecco come si confeziona il fast food della ricerca. Ecco come si ingenera
la sete di novità che fa lievitare titoli, servizi televisivi, fa diventare
"scoop" anche un lavoro che, magari per gli addetti ai lavori, non è poi
così rivoluzionario. Proprio sulle pubblicazioni scientifiche sta
cominciando a calare una pioggia di critiche. Arrivano dall’interno dei
laboratori. L’ultima ad alzare la voce, come ha riportato un giornale
italiano specializzato, il Farmacista, è la rivista francese Eureka. Gli
autori dell’articolo avrebbero individuato una decina di "trucchi" che si
nascondono nella foresta delle ricerche: dalla pubblicazione multipla dello
stesso lavoro, magari cambiando un solo dettaglio, alla citazione nello
studio del nome di chi non ha partecipato, fino all’astuzia del lancio nel
mondo dell’informazione di massa. Importante è farsi "pubblicità". Perché
questa, ormai, vale più di una pubblicazione di settore, più di un encomio
accademico. Tanto che, negli ultimi anni, molti istituti di ricerca,
università comprese, si sono dotati di uffici con il compito di diffondere
l’attività scientifica. 
Paolo Di Fiore, ordinario di Patologia generale all’università di Milano e
Direttore di divisione all’Istituto europeo oncologico, affronta la ricerca
con foga partenopea e pragmatismo made in Usa, dove ha lavorato per oltre
10 anni: «Guadagnare visibilità può portare anche un vantaggio economico,
diciamolo. Ma è difficile quantizzare. E’, invece, molto facile prevedere
gli effetti che aspettative esagerate possono provocare. Capisco, però, che
da noi la "pubblicità" è quasi obbligatoria. Per colpa dell’attitudine
ascientifica che pervade da sempre il nostro paese. Solo da pochi anni si
sostiene davvero la ricerca. Spesso, quella della pubblicità, è l’unica
strada per farsi sentire. Attenzione, però, alla smania di protagonismo».
Tra i ricercatori c’è chi propone una carta di autoregolamentazione, una
sorta di neocodice da far rispettare in ogni parte del mondo. 
Il conto dei lavori che vengono pubblicati ogni anno sulle riviste top,
come Cell, Nature, Science e New England Journal of Medicine, sfiora i
duemila. Se per tutti, da qui a qualche anno, si usasse lo stesso
trattamento, avvertono gli scienziati, il mondo dell’informazione sarebbe
invaso ogni giorno solo dalle "voci" dei laboratori. 
«Certe volte mi sembra che la ricerca subisca lo stesso pessimo trattamento
di alcuni prodotti alimentari - scherza Antonio G. Rebuzzi, cardiologo
co-editor della rivista Italian heart journal -. Vi è mai capitato che
qualcuno tenti di spacciare le uova di lompo per caviale? I gourmet dicono
che, ai meno esperti, può accadere. In alcune occasioni, mi sembra che la
scienza del nuovo Millennio, strizzando l’occhio più allo stupore barocco
che alla sostanza, non ci serva il "piatto" promesso. Grandi annunci poi,
quando l’esperto "assaggia", scopre che il sapore è un altro. Peccato». 


Che trappola, le attese messianiche 
di ALBERTO OLIVERIO

IN DIVERSI casi all’annuncio di una scoperta nel campo biomedico non fa
seguito una reale disponibilità di quel farmaco o trattamento innovativo
che ha acceso tante speranze nelle persone malate e nelle loro famiglie. Ci
sono troppe scoperte annunciate o troppi annunci intempestivi? Gli
scienziati sono alla ricerca di una visibilità eccessiva? E’ indubbio che
le ’’regole del gioco’’ sono oggi ben diverse rispetto a qualche decennio
fa, quando gli scienziati erano più ’’arroccati’’ nei loro laboratori e la
diffusione delle notizie seguiva canali più lenti ed istituzionali. Faccio
un esempio concreto riferitomi da Daniel Bovet, premio Nobel per la
medicina e autore di diverse scoperte di grande importanza. Negli anni
Trenta il gruppo di Bovet stava compiendo ricerche sui sulfamidici, farmaci
che salvarono centinaia di migliaia di vite prima della scoperta degli
antibiotici. Una sera di novembre del 1935 i farmacologi iniettarono un
gruppo di topini coi batteri della polmonite e un gruppo di topini con gli
stessi batteri associati alla molecola del primo sulfamidico: quando la
mattina dopo controllarono le gabbie notarono che tutti i topolini non
iniettati col sulfamidico erano morti, quelli curati col farmaco erano
invece vivi. Nel giro di pochi giorni, il farmaco venne somministrato a un
ragazzo con la difterite che guarì rapidamente: malgrado ciò, quella
scoperta clamorosa non finì sui media e ci vollero mesi e mesi perché la
notizia si facesse strada. Potreste immaginare qualcosa di simile al giorno
d’oggi? 
Adesso i rapporti tra scienze e media vanno in senso opposto rispetto al
passato e spesso le notizie vengono comunicate ai mass media prima di
essere pubblicate su riviste scientifiche: i motivi sono diversi, non
ultima l’elevata competizione tra i gruppi di ricerca che spinge gli
scienziati ad essere visibili, anche per procacciarsi finanziamenti. Direi
però che le regole del gioco tra scienza e media sono cambiate anche a
causa della nostra fiducia nella scienza, di un’attesa quasi messianica di
nuovi farmaci e rimedi: siamo insomma più propensi a credere che ogni
malattia verrà debellata. Resta però un problema etico, la necessità di non
suscitare aspettative infondate nelle persone la cui vita è appesa a un
filo sottile, lasciando intendere che ciò che è probabile sia già possibile. 


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