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citta' messe in crisi dai trasporti



dal sole24ore di mercoledi 29 novembre 2000
                  Città-gioiello messe in crisi dai
                  trasporti 

                  Qual è il male oscuro delle città italiane? Di quei
gioielli che
                  celebrano come totem i loro centri storici gotici o
                  rinascimentali, ma poi trascurano tutto il resto,
cominciando
                  con le periferie e finendo con quello che è il problema dei
                  problemi: la mobilità?

                  Invischiati in un traffico che negli ultimi dieci anni ha
avvolto
                  centri storici e periferie in una ragnatela mefitica,
cittadini e
                  amministratori sembrano impotenti. Le metropolitane sono
                  lussi che solo le grandi città possono permettersi.
Esistono i
                  tram: puliti, silenziosi, a costi ragionevoli,
sperimentati con
                  successo in molte città europee. In Italia, no. Tranne pochi
                  esempi, l’adozione di un linea tramviaria si è
trasformata in
                  una lotta feroce tra maggioranza e opposizione. Il caso di
                  Padova, che neppure dopo un referendum è riuscita a
                  trovare una soluzione, mette in luce quanto intricati siano
                  diventati i problemi che assillano le città.

                  Roberto Camagni, che insegna Economia urbana al
                  Politecnico di Milano, indica la direzione di marcia per
uscire
                  dal guado: «Le città sono come le imprese: devono sapere
                  dove vanno». Un’affermazione che assomiglia a una
                  provocazione: quante sono le città, medie o grandi non
                  importa, che si sono prese la briga di redigere un piano
                  strategico, quella sorta di business plan che Barcellona e
                  Lione sperimentano dall’inizio degli anni 80 (ormai sono al
                  terzo piano strategico)? Solo Torino ha un piano degno di
                  questo nome, mentre Vicenza, La Spezia e Reggio Emilia
                  proprio in questi mesi hanno deciso di imitare il capoluogo
                  piemontese.

                  I piani non sono certo la panacea. Ma, correttamente
                  articolati, possono aiutare a elaborare una visione
condivisa
                  della città. Ci riusciranno? Alla domanda tenterà di
                  rispondere un viaggio inchiesta del Sole-24 Ore attraverso
                  alcune città medie del Belpaese. Tenendo a mente una
                  provocazione dell’architetto Renzo Piano, dal sapore quasi
                  marinettiano: «Dov’è scritto che la città, per essere vera,
                  dev’essere triste?». Una domanda cui, prima o dopo,
                  qualcuno dovrà pur prendersi la briga di dare una risposta.

                  M.Mau.

                  
                  Vicenza alla disfida del «piano» 

                  (DAL NOSTRO INVIATO)

                  VICENZAIl divino Andrea Palladio, l’architetto che disegnò a
                  sua immagine e somiglianza uno dei chilometri quadrati più
                  affascinanti del pianeta, continua a essere venerato e
                  celebrato in quel medesimo chilometro quadrato, che per
                  fortuna è rimasto uguale a se stesso, anzi recuperato e
                  rinfrescato dove il peso dei secoli cominciava a farsi
sentire.
                  Ma basta uscire dal fortino palladiano per sentirsi come il
                  generale Custer a Little Big Horn: assediati da lamiere di
                  automobili che come un’alluvione tracimano ovunque ci sia
                  un vuoto, uno spazio da riempire, un angolo strappato a
                  qualcosa. Ogni giorno migliaia di Volkswagen, Bmw e Audi
                  s’incolonnano, illudendosi di recuperare in un rettifilo
                  sgombro quelle ore perse in ingorghi interminabili.

                  Città strana, Vicenza, con i suoi 110mila abitanti che,
in dieci
                  minuti di bicicletta, potrebbero rifugiarsi nel verde quasi
                  tropicale dei monti Berici; 110mila abitanti con un reddito
                  procapite tra i più alti del Paese (quasi 20 milioni in
più della
                  media europea), che fanno la coda nelle agenzie di viaggio
                  per prenotare viaggi dove il paesaggio sia molto di più che
                  quasi tropicale; 110mila abitanti che hanno contribuito a
                  scrivere una delle pagine fondamentali della prima
                  industrializzazione italiana ed europea. «Eppure è
                  impossibile trovare dieci persone che si mettano d’accordo
                  su una cosa» dice Claudio Benetti, vicentino doc e
                  segretario provinciale della Cisl.

                  Litigiosi e rancorosi: la storia dei consigli comunali degli
                  ultimi trent’anni si potrebbe scrivere con questi due
aggettivi.
                  E il volto della città, l’impianto urbanistico, le
funzioni stesse
                  del capoluogo non potevano che risentirne.

                  Il vecchio piano regolatore del ’79 delegava a una serie di
                  piani particolareggiati (12) la sua applicazione. Dopo
                  vent’anni, di piani completati non ce ne sono più di due.
Molti
                  sono morti strada facendo. Qualcuno, come il Pp1 (così lo
                  chiamano gli architetti), quello delle fornaci di Via
Zanardelli,
                  è stato approvato qualche settimana fa.

                  Questi micropiani, come tutti i regolamenti urbanistici,
                  risentono del peso dell’età: vent’anni fa l’urbanistica era
                  impregnata da una parola — monofunzione — che poi è
                  stata sconfessata. Che senso ha creare una città a
                  compartimenti stagni, con il quartiere dormitorio, quello
degli
                  uffici o delle scuole? Molto meglio sommare funzioni. Ecco
                  perché le giunte che seguirono quella che aveva approvato il
                  piano regolatore chiesero a fior di urbanisti italiani, da
                  Bernardo Secchi e Gino Valle, di riscrivere alcuni
interventi.

                  Ebbene, i progetti di Secchi non furono neppure approvati
                  dal consiglio comunale, mentre quelli di Valle furono
                  approvati, ma mai attuati. Era lo stillicidio dei veti
incrociati
                  delle stesse maggioranze a decretare la morte prematura
                  dei progetti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti:
una città
                  rinchiusa su se stessa, che non comunica con i grandi
                  comuni a nord, Schio, Valdagno, Thiene, quelli che in realtà
                  hanno fatto la storia economica di questa provincia.

                  Una chiusura che certo non la mette al riparo da vecchie e
                  nuove contraddizioni. In pieno centro storico ci sono aree
                  bombardate durante la Seconda guerra mondiale che sono
                  ancora come le videro i sopravvissuti alla guerra: Santa
                  Corona, la chiesa che è come Santa Croce per i fiorentini, è
                  un monumento alla paralisi. Caso, disgraziamente, non
                  isolato. Qui la telenovela su dove costruire il nuovo teatro
                  cittadino (nuovo si fa per dire, quelli vecchi furono
distrutti dai
                  bombardamenti) va avanti senza costrutto da quando si
                  sciolsero i Cnl, i Comitati di liberazione nazionale.
Mentre ai
                  confini del centro storico, alle spalle della stazione
                  ferroviaria, un’intera zona (via Milano, via Torino) è
diventata
                  terreno di conquista degli extracomunitari, che in mancanza
                  di alternative l’hanno colonizzata un pezzo alla volta.

                  Per tentare di capire, come nel gioco dell’oca, si deve
                  tornare alla prima casella, dove ha sede il Palazzo
                  secentesco in cui si riunisce il Consiglio comunale, dove
due
                  anni fa la guerra suicida all’interno della maggioranza di
                  Centro-sinistra portò alle elezioni anticipate e alla
vittoria del
                  Polo delle libertà, guidato da Enrico Hüllweck.

                  Il sindaco è un personaggio che meriterebbe un racconto a
                  parte: per nulla ecumenico, ossessionato dalla sua
                  immagine pubblica, diffidente fino alla paranoia, iscrive
nella
                  lista dei cattivi chiunque si sia macchiato di una
critica nei
                  suoi confronti. Finché se la prende con i giornalisti,
nulla di
                  male. Ma Hüllweck è andato molto più in là, cancellando dai
                  buoni persino gli industriali di Vicenza, una vera
istituzione
                  per la città, che in tempi di rigurgiti separatisti e di
montante
                  secolarizzazione hanno conquistato un’autorevolezza — lo
                  dicono i sondaggi di Ilvo Diamanti — superiore a quella
della
                  Chiesa e, manco a dirlo, del Governo centrale.

                  Idiosincrasie che fanno il paio con sfuriate molto spesso
fuori
                  luogo. La più significativa risale ai tempi della campagna
                  elettorale del novembre ’98, quando l’aspirante sindaco
se la
                  prese con il direttore del Giornale di Vicenza (di proprietà
                  degli industriali), perché aveva osato pubblicare una
foto in
                  cui Silvio Berlusconi alzava il braccio destro di
Hüllweck in
                  segno di vittoria: «Avete voluto dimostrare che se vincerò
                  sarà merito di Berlusconi» sbraitò al direttore del
quotidiano.

                  Il passato politico del sindaco, ex presidente
dell’Ordine dei
                  medici, non è un esempio di coerenza: è stato iscritto
all’Msi,
                  alla Lega Nord e ora in Forza Italia. Ma lui va avanti
per la
                  sua strada, moltiplicando gli assessorati (sono passati da
                  nove a dodici) e cercando di giocare al meglio la partita
del
                  piano urbanistico: la sua partita, visto che il sindaco, fin
                  dall’elezione, ha tenuto per sé la delega all’Urbanistica.

                  Un terreno minato, una specie di battaglia navale,
                  considerata l’aria che tira in Consiglio. Ma questa volta
                  Hüllweck si è mosso con tutte le cautele, anche
                  metodologiche, del caso. In marzo ha invitato i più
attrezzati
                  studi di urbanistica d’Italia, da Secchi a Gregotti, a
                  partecipare a una gara da cui sarebbe saltato fuori il piano
                  strategico della città. A vincere è stato l’urbanista
bolognese
                  Giovanni Crocioni (si veda l’intervista a fianco) che
entro il
                  marzo del 2001 dovrà presentare quello che in linguaggio
                  tecnico si chiama «documento preliminare».

                  Dopo l’approvazione di questo documento, toccherà al piano
                  regolatore vero e proprio, che, fatta l’analisi dei tempi,
                  rischiava di approdare in Consiglio proprio alla scadenza
                  della legislatura. Un rischio che né il sindaco né i
politici
                  vicentini si sentono di correre. Soluzione: concentrarsi su
                  quello che Crocioni insiste giustamente a chiamare «piano
                  strategico». E non si tratta di dispute lessicali. Ai
politici il
                  piano sembra lontano anni luce dalle miserie e dalla guerra
                  di interessi che normalmente solleva un piano regolatore.
                  Errore. Il piano strategico, un po’ come è successo a
Torino,
                  la prima città italiana a adottarne uno, chiama la
comunità a
                  confrontarsi su tutti gli argomenti chiave: il turismo,
la cultura,
                  l’industria, il lavoro, la scuola e soprattutto, problema
dei
                  problemi, la mobilità.

                  Insomma, una rivoluzione copernicana, che farà saltare la
                  crosta dei risentimenti sotto la quale si è nascosta
Vicenza.
                  «L’idea di fondo è connettere la città con Schio, Valdagno e
                  Thiene, con quel retroterra che è la sua stessa storia» dice
                  Giovanni Fontana, lo storico dell’economia che fa parte del
                  gruppo di lavoro guidato da Crocioni.

                  Ma la viabilità, anche questa vecchia di cinquant’anni,
finora
                  ha creato soltanto uno sgradevolissimo — per le
                  interminabili code di tir e automobili — effetto cesoia
tra il
                  capoluogo e i comuni pedemontani. Adesso, finalmente, si
                  tenta di correre ai ripari. Un’equazione, anche a essere
                  ottimisti, a molte incognite. Riuscirà Hüllweck a gettare
alle
                  ortiche il suo libro nero, a rappresentare tutti i
cittadini,
                  immigrati compresi, a mettere d’accordo uno dei Consigli
                  comunali più litigiosi d’Italia e a cambiare faccia alla sua
                  città?

                  Mariano Maugeri















  




              

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                  Mercoledì 29 Novembre 2000 commenti e inchieste
                  L’urbanista: navette e metrò leggero 

                  (DAL NOSTRO INVIATO)

                  VICENZA«Tremenda»: l’urbanista Giovanni Crocioni non
                  cerca giochi di parole per descrivere la situazione
vicentina.
                  Lui, da buon emiliano, dice pane al pane. E racconta la sua
                  impressione della città, perché di altro, soprattutto del
piano
                  strategico, non vuol parlare: «Le ripeterei quello che ho
                  scritto nella relazione con cui abbiamo vinto il concorso.
                  Quella è l’idea che ho della città. E non è detto che
arriverà
                  alla fine così come l’ho descritta».

                  Il chiodo fisso di Crocioni è connettere Vicenza agli undici
                  comuni della cintura, che hanno quasi il doppio dei 110mila
                  abitanti dell’area urbana. Ma qual è la differenza tra
Vicenza
                  e le città emiliane e romagnole, che l’urbanista bolognese
                  conosce come le sue tasche? «Tranne che a Bologna, da
                  noi c’è una situazione più controllata. Qui è tutto più
                  improvvisato. Un piano strategico, però, funziona
soltanto se
                  i politici lo assecondano. A Ravenna, per esempio, mi sono
                  venuti sempre dietro. E non dipende dal Centro-destra o dal
                  Centro-sinistra. Sono sempre stato di sinistra, ma da due
                  anni appoggio la lista del sindaco Guazzaloca a Bologna.
                  Dove il Polo è alla guida c’è un lobbismo più esplicito e
                  trasparente. Il sindaco di Vicenza? Lo conosco poco, posso
                  solo dire che ha una personalità singolare».

                  È sufficientemente chiaro, e Crocioni l’ha scritto nel suo
                  studio, che il problema di Vicenza è quello della
mobilità: «Il
                  Comune sarebbe orientato all’Alta velocità tutta in
galleria:
                  un progetto, a mio parere, inutilmente costoso. Io vorrei
                  spendere meno e concentrare le risorse sulle metropolitane
                  leggere e le navette, che dovrebbero collegare la cintura
con
                  la città».

                  L’urbanista, che insegna alla facoltà di Ingegneria
                  dell’Università di Bologna, non nasconde le difficoltà della
                  sua impresa: «Condurre in porto il piano strategico e il
piano
                  regolatore è sempre una battaglia. Io, però, l’ho sempre
                  spuntata. Solo una volta mi sono dovuto arrendere: a Gela,
                  alla fine degli anni 70, quando mi consigliarono di
                  andarmene di corsa, per sfuggire al clima di intimidazione.
                  Tutti gli altri piani li ho portati a termine. Magari
litigando, o
                  anche rompendo con gli amministratori, che poi, dopo
                  qualche mese, sono sempre tornati sui loro passi».

                  Insomma, se Vicenza non approverà il piano strategico e
                  relativo piano regolatore, sprofonderà al livello di un
Comune
                  isolano, lontano anni luce da quello veneto. Crocioni non lo
                  dice: ma l’evidenza non ha bisogno di commenti.

                  M.Mau.