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agrochimica terzomondista?
dal manifesto di sabato 4 novembre 2000
L'agrochimica terzomondista?
FULVIO GIANETTO
Una nuova e inaspettata vena "terzo mondista" muove gli interessi
delle aziende agroalimentari biotech - giganti che, non dimentichiamolo,
controllano il 37% del mercato mondiale delle sementi e l'81% del
mercato agrochimico. Già, terzomondista: l'argomento più usato ormai è
quello dei mirabolanti aumenti di produttività che potranno sconfiggere
la fame nel mondo...
Eppure, dopo gli insuccessi dell'agrochimico in termini di diminuita
produttività, aumento di popolazioni di insetti e batteri immuni ai
pesticidi e incremento della dipendenza economica di intere popolazioni
contadine verso le multinazionali, abbiamo visto la Fao (organizzazione
dell'Onu per l'agricoltura e l'alimentazione) riconoscere "che ci sono
rischi potenziali per la salute umana e per l'ambiente" (H. de Haen). I
rischi degli organismi geneticamente modificati (Ogm) comprendono
l'alterazione degli ecosistemi, la perdita di biodiversità varietale,
incremento della contaminazione agrochimica nell'ambiente, creazione
di nuovi ceppi di patogeni e di erbacee più resistenti. Non solo: è chiaro
che le colture Ogm sono finalizzate a una monocultura intensiva di tipo
industriale, basata su pacchetti tecnologici (sementi più pesticidi) che
devastano i modelli agricoli legati al territorio della maggior parte dei
paesi in via di sviluppo ai quali sarebbero destinati.
E dire che le prove dell'insuccesso agronomico delle piante Ogm non
mancano. Prendiamo ad esempio lo stato semi desertico del Tamaulipas
(Messico), dove si coltivano 70.000 ettari di cotone Bt: il principale
parassita del cotone, un insetto curculionide, non è sensibile alla
tossina Bt. E poiché la varietà transgenica non è immune neanche dalle
altre tre principali piaghe del cotone, gli agricoltori del Tamaulipas
devono ricorrere a trattamenti misti con controllo biologico e lotta
integrata con insetti e trappole a ferormoni: il transgenico rappresenta
un costoso trattamento supplementare che non dura più di un anno e
mezzo.
Lo stesso accade con le varietà di pomodori transgenici Mac Gregor
(della Calgene-Monsanto), che furono coltivati su 400 ettari a Sinaloa
(nord del Messico). In seguito agli insucessi produttivi, nel 1997 furono
sostituite con la nuova varietà Divine Ripe che, si diceva, avrebbe
sconfitto i concorrenti della Florida. Tre anni dopo, i produttori
messicani aspettano ancora il promesso aumento della produzione. Ci
sono poi i 2.000 ettari di mais Bt coltivati sempre a Sinaloa, distrutti
quest'anno da un forte attacco del coleottero Spodoptera - a cui la
varietà Bt doveva essere resistente. La spiegazione ufficiale è che
l'attacco dell'insetto è stato troppo intenso e con ondate maggiori di
quelle previste.
Che dire poi della produzione di sostanze allergeniche causata da
alcune modifiche genetiche. Come le piante di tabacco transgeniche in
Florida, modificate per produrre acido gamma-glicolico per l'industria
farmaceutica: invece hanno prodotto una sostanza tossica, l'acido
octadecatraenico, sconosciuto nel tabacco.
Il Messico è un paese ricco in biodiversità, dove si coltivano numerose
specie, tradizionali e non, associate direttamente alla conoscenza e
all'uso di tale biodiversità. Qui si parla ufficiosamente di 90.000 ettari
coltivati con 15 specie orticole, in un paese dove la brevettazione di
Ogn illegale: e i rischi dell'introduzione di specie transgeniche sono
tanto maggiori perché quelle varietà geneticamente modificate,
sperimentate nei loro paesi d'origine, potrebbero rivelare un
comportamento fisiologico diverso una volta trapiantate negli
ecosistemi messicani.
All'opposto, è ampiamente dimostrato che le coltivazioni biologiche e le
pratiche agroforestali "tradizionali" non solo aumentano produttività e
qualità organolettiche delle piante, ma migliorano anche la resistenza
delle stesse contro diversi parassiti immuni - rafforzate magari da
tecnologie biotech ecocompatibili: quali la produzione di funghi
entomopatogeni (Beauveria, Phacellomyces, Trichogramma) e di
bioinsetticidi vegetali. A dimostrare che per combattere la fame non
abbiamo bisogno di una "rivoluzione verde biotech".