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la perduta cultura dell'acqua



dal masnifesto del 19 ottobre 2000

 La perduta cultura dell'acqua 
 Non basta la prevenzione a costruire una smarrita civiltà dell'acqua.
 Bisognerebbe accantonare l'imperio della tecnica, imparare dalle poche
comunità
 che ancora vivono in osmosi con fiumi e terra 
 RENZO FRANZIN 


 Il bilancio dell'alluvione è provvisorio e lo sarà per un pezzo. Forse, alla
 fine, solo il numero dei morti sarà sicuro, ora anch'esso è incerto perché
 una decina di persone mancano all'appello. L'unica certezza è che niente
 sarà come prima perché l'acqua muove la terra, modifica i profili,
 ridisegna le geografie, anche dentro le città che siamo abituati a
 considerare fortezze inespugnabili.
 L'espressione "danni incalcolabili" è, al tempo, vera e mendace: falsa
 per chi ha la casa distrutta, il campo arato dai massi, la strada crollata,
 il ponte divelto, insomma per chi è in grado di misurare - e lo fa (come
 ha fatto altre volte) - la fatica, le possibilità e gli anni necessari alla
 ricostruzione, perché ha memoria del costruito. Vera, invece, se alzi lo
 sguardo dalla catastrofe e puoi solo immaginare cosa e come muore, o
 sta morendo, sotto la coltre di fango, dentro i limi esondati, a ridosso
 delle macerie, nello sfascio del paesaggio: tutto il mondo minuscolo,
 invisibile che presiede agli equilibri secolari che consentono quello che
 maldestramente chiamiamo sviluppo, le tessiture di relazione fra i
 viventi, gli spazi che accolgono il respiro e la luce, la consistenza della
 terra e la sua morbidezza, i bordi dei continenti interni, le differenze nei
 colori, il pulviscolo delle stagioni. Ogni cosa, visibile e invisibile,
 cancellata.
 Per questo i "danni incalcolabili" non sono solo la proiezione
 dell'impotenza matematica dei contabili delle catastrofi - basteranno
 mille miliardi per il Piemonte? - quanto la confessione contorta del fatto
 che, pur avendone tutte le ragionevoli certezze prima, non siamo riusciti
 a metabolizzare nelle azioni con cui modifichiamo l'ambiente che ci
 circonda, i rischi idraulico e idrogeologico come rischi totali che senza le
 cure necessarie diventano, essì sì!, incalcolabili. Incalcolabili, senza
 appello e in assoluta verità da qualsiasi parte li si guardi, soprattutto
 se lo sguardo era abituato a vedere la delicatissima orditura del
 preesistente.
 Chi s'aggrappa al clima e ai suoi mutamenti per fornire una spiegazione
 plausibile può solo alla fine confermarci statisticamente che, com'è
 capitato decine di volte nella storia più recente dell'umanità, si sono
 alternati periodi siccitosi a periodi piovosi eccezionali e che, caso mai,
 le conseguenze dell'ozono sbrindellato non sono così evidenti, semplici
 e misurabili in qualche decina di millimetri di pioggia in più, ma assai
 più insidiose e latenti, impegnate ad alimentare l'esercito di mutanti
 che ormai ci rode la terra sotto i piedi, ci inquina l'aria e, appunto, fa
 impazzire l'acqua. Perché dopo i secoli industriali, con un'accelerazione
 fortissima in quest'ultimo secolo, le alluvioni che pure ci sono sempre
 state, sono diventate catastrofi tragiche. Perché tragiche lo sono, in
 particolare, in paesi come il nostro dove, nella prima metà del '900, lo
 sviluppo ha avuto carattere tumultuoso, per certi versi persino coloniale
 e infine inarrestabile, assumendo sempre più una sua natura totemica
 idolatrata in nome della modernità e ritmata sull'abbrivio, che pareva
 eterno, del predominio assoluto della tecnica su tutto e in sostituzione
 d'ogni cosa, fino a spingere nel labirinto del rifiuto chiunque osasse
 pensare il contrario.
 La più fragile e nervosa struttura che presiede il ritmo di territorio sono
 i fiumi che hanno alimentato l'antico mito della circolazione in perpetua
 corrispondenza a quella che nel corpo permette la vita. Come ogni punto
 di equilibrio essi racchiudono una complessità che è, insieme,
 sedimento naturale e impianto del gesto umano, a sua volta custodito
 nella memoria. Da ciò, tutte le grandi civiltà hanno immaginato la
 coesistenza con il fiume e l'acqua; mai, se non in questa ultima parte
 della storia dell'umanità, un governo imperioso che lo piegasse ad altre
 logiche che non fossero quelle del fluire, dell'andare.
 Il richiamo più inflazionato in questi giorni, sussurrato o dichiarato, è
 sulla necessità di una cultura dell'acqua; che non è acquisibile con
 qualche nozione di idrodinamica e qualche comandamento sulla
 prevenzione al rischio. Ancora una volta l'acqua esige di più:
 innanzitutto, la pratica quotidiana di piccoli gesti, pazientemente
 reiterati, che spaziano dal risparmio del bene alla pulizia del fossato
 dietro la casa, una serie di scelte coraggiose, dalla definizione nei piani
 territoriali delle aree di esondazione naturale per impedirne l'ulteriore
 cementificazione, sino all'abbattimento di qualche inutile diga. E anche
 investimenti che abbiano la saggezza di ridare al fiume spazio e
 dimensione per esistere senza distruggere.
 Sanno bene le poche comunità che ancora vivono in rapporto osmotico
 con l'acqua che essa, oltre un limite stabilito dalla natura e non
 dall'uomo, non può essere governata ma in qualche misura solo accolta.
 Quindi più che i proclami varrebbe il diritto di sopravvivere di queste
 microeconomie anfibie, anche loro cancellate catastroficamente in nome
 del mercato o di qualche altro dio artificiale, perché talmente cariche
 d'esperienza che il loro vivere il bordo, nel confine tra acqua e terra, le
 fa uniche e insostituibili anche per la più alta delle montagne.
 Diversamente non c'è futuro, perché tutto quello che era possibile fare,
 in potenza e quantità, si è fatto; perché si è andati ben oltre ogni
 ragionevole progetto asfaltando mezzo mondo, interrando gli scoli
 naturali, seppellendo sotto un mare di cemento il reticolo arterioso delle
 acque di superficie; perché si è ingordamente accumulata l'acqua per
 sfruttarla e farne mercato senza pensare che ciò significava rompere i
 delicati equilibri fra montagna e pianura. Perché l'acqua che esce ogni
 mattina da rubinetto la guardiamo senza vederla.