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noi e il demone della genetica



dal manifesto 25 Giugno 2000 
  Noi e il demone della genetica 
 Alcuni nodi del pensiero critico tipico del movimento situazionista. Sul
fronte del
 progresso scientifico, questa è l'era in cui il dominio capitalistico si
impone
 direttamente sui corpi e sulla nuda vita biologica sottoposta a
esperimenti di
 manipolazione radicale. Sul fronte della quotidianità metropolitana, il sogno
 situazionista prevede uno spazio dionisiaco, destinato all'incontro di
singolarità liberate  da ogni ossessivo principio unificante 
 MARIO PEZZELLA 


 Da diversi anni, le edizioni della Encyclopédie des nuisances
 costituiscono uno dei più ostinati rifugi del pensiero critico radicale,
 ispirato dal situazionismo francese: pochi, selezionatissimi libri vengono
 pubblicati ogni anno, su una carta rara, preziosa, utilizzando la vecchia
 tecnica della stampa a piombo. Non è facile mettersi in contatto con gli
 autori e gli editori: essi disprezzano l'uso del fax, del computer e hanno
 una pervicace diffidenza per il telefono. Qualcuno di questi libri comincia
 ora ad essere tradotto in italiano. L'anno scorso una casa editrice
 militante (Colibrì, di Milano) ha pubblicato L'abisso si ripopola di Jaime
 Semprun. Ora Boringhieri propone le Osservazioni sull'agricoltura
 geneticamente modificata e sulla degradazione delle specie, pubblicato
 anonimo ad opera di un collettivo di ricerca, nella più pura tradizione
 situazionista. Non ci si lasci ingannare dal titolo, che fa pensare a un
 ponderoso trattato: si tratta in realtà di un pamphlet, nello stile
 violento e appassionato della migliore tradizione moralistica francese.

 La produzione di prodotti agricoli geneticamente modificati è il sintomo
 di una manipolazione radicale della vita, che la scienza attuale sta
 realizzando senza alcun freno. Se prima il dominio capitalistico si
 attuava attraverso la mediazione delle ideologie, dei rapporti sociali,
 della politica, ora si impone direttamente sui corpi e sulla loro nuda vita
 biologica. Nella scienza dell'800, sopravviveva un "principio di
 precauzione". La sperimentazione avveniva in un ambito astratto,
 separato, riproducibile; prima che i suoi effetti si traducessero in
 conseguenze pratiche sul mondo della vita, c'era almeno la possibilità di
 una distanza riflessiva, di una comunicazione preliminare tra esperti.
 L'ingegneria genetica distrugge ogni "insularità" della sperimentazione.
 L'esperimento è già un'incisione irreversibile sul corpo vivo del mondo e
 lo modifica senza appello. Preoccupazioni etiche e umanitarie si
 pongono comunque dopo che l'esperimento ha introdotto una mutazione
 nella natura: "Infatti il filamento di Dna che è stato artificialmente
 isolato per essere modificato e moltiplicato vive solo come parte di una
 totalità organica, e quindi può essere conosciuto, con le sue nuove
 qualità, solo una volta restituito prima a un organismo vivente e poi al
 vasto mondo in cui precisamente esso è vivo...O le prove sono limitate,
 e non sono delle prove, oppure non sono limitate e non sono più delle
 prove, ma delle azioni sul mondo, senza possibilità di ritorno".
 Se poi, come è spesso avvenuto, i contraccolpi negativi superano gli
 effetti positivi, si risponderà ad essi con quella che Derrida ha chiamato
 una volta la logica del "supplemento": una nuova modifica, un nuovo
 incremento nel dominio del mondo, porrà riparo alla distruttività
 "imprevista" con cui la natura ha risposto alla precedente operazione. In
 questo modo i monopoli del potere medico e farmaceutico trovano la
 propria continua autolegittimazione. Se un numero notevole di morti e
 di malati dipende direttamente dall'inquinamento chimico e industriale
 degli ultimi trent'anni, quale migliore giustificazione delle "terapie
 geniche", che dovrebbero porre riparo a questi effetti indesiderati?
 Queste stesse però introducono delle mutazioni a lunga scadenza, i cui
 effetti sono per noi del tutto incontrollabili. L'idea che in alcuni casi
 l'interesse per la vita richiederebbe quanto meno di rallentare la
 manipolazione tecnica, invece di incrementarla, non viene neppure presa
 in considerazione. Questa logica ha però poco di scientifico: è il profitto
 delle multinazionali dell'alimentazione e della salute che deve
 accrescersi rapidamente e la nuova sperimentazione lo segue,
 freneticamente, a ruota: "Ai proprietari e gestori della potenza tecnica
 poco importano questi fallimenti a ripetizione, questi crolli
 imprevisti...Infatti i danni sono solo per gli uomini e per la natura: per
 l'economia essi significano l'opportuna apertura di nuovi mercati".

 Gli effetti politici ed etici di un simile "progresso", sono del resto non
 meno importanti di quelli strettamente economici. L'idea che la vita
 possa essere interamente sottomessa alla manipolazione tecnica è
 implicitamente totalitaria. Nell'immagine della natura, per quanto
 romanticamente banalizzata, sopravviveva la percezione di una
 estraneità e di una differenza, che poneva un limite al sogno di
 onnipotenza del soggetto. Il messianismo forte e intollerante dei nuovi
 tecnici della vita mira alla completa cancellazione di questa dimensione:
 l'artificialismo vuole creare una totalità integralmente controllabile, "da
 cui gli uomini non possano più nemmeno pensare di uscire, un mondo
 senza fuori". Se la mia singolarità è completamente annullata e
 subordinata alla mappa genetica modificabile che mi costituisce, non c'è
 più alcuna ragione che io rispetti la singolarità degli altri come qualcosa
 di unico e irripetibile. Entrambi abbiamo valore solo come varianti di una
 sequenza genetica. Possiamo solo identificarci al programma che deve
 opportunamente migliorarla e attenuarne le incongruenze: "Entriamo
 così senza troppo stupore nell'era della nostra riproducibilità tecnica".
 Su questa base prospera l'industria delle nascite, dall'inseminazione
 artificiale fino ai più recenti progetti di manipolazione genetica del feto.
 In una delle pagine più impressionanti del libro, ci viene riproposto un
 editoriale di Le Monde che si interroga sulla sorte "delle decine di
 migliaia di embrioni detti 'soprannumerari'", che vengono congelati e
 conservati: scarti e resti infelici della pratica delle procreazioni
 assistite. Sarebbe possibile - si chiede l'editoriale - utilizzarli per la
 ricerca? O addirittura crearne di nuovi appositamente destinati a questo
 scopo? Questo genere di domande è assolutamente simile - secondo gli
 autori - a quello che i medici nazisti si ponevano nei campi a proposito
 del corpo degli ebrei.

 Perché tutto questo sia digeribile, ed ogni resistenza superata, occorre
 una sorta di mobilitazione permanente, di stato d'emergenza
 generalizzato. L'incubo delle nuove malattie, il propagarsi della nocività,
 l'alterazione dell'equilibrio della terra, dovrebbero giustificare la ricerca
 esasperata di contravveleni terapeutici e di una sperimentazione
 illimitata (gli autori ricordano quel biologo inglese che ha proposto la
 creazione di feti senza testa, per fornire organi all'industria dei
 trapianti): "La società organizzata su scala mondiale vive ormai in un
 clima di stato d'emergenza che certamente riflette il suo stato reale,
 ma che è anche l'atmosfera di catastrofe in cui essa ci deve far vivere
 per imporci le sue novità tecniche".
 D'altra parte l'ossessione di generare artificialmente convive con la
 sensazione che neanche la più debole traccia di noi resterà viva dopo la
 morte: giacchè nulla abbiamo di irripetibile e dunque degno di essere
 tramandato a una vita ulteriore. Per questo, più che in altre epoche, "gli
 uomini non si rassegnano più a morire"; per questo cercano di
 trasmettere ai propri figli almeno i loro geni depurati e ottimizzati, dato
 che non possiedono più "né conoscenze, né esperienze, né ricordi",
 nessuna eredità. Già Marx aveva notato come l'importanza del lavoro
 vivo diventi sempre più trascurabile di fronte all'attività delle macchine
 industriali. In modo simile, il corpo vivente diviene superfluo nel
 processo della generazione e può essere "perfezionato" artificialmente.
 Dopo questa violenta analisi critica, la conclusione del libro lascia
 sconcertati. Come opporsi a questo stato di cose? Praticando un'"ascesi"
 verso la cultura di massa o andando a "coltivare il proprio orto, lontano
 dal baccano e dall'affaccendamento isterico delle megalopoli". Ma tutto
 il libro non è forse la coerente dimostrazione che questi orti non
 esistono più e costituiscono un'illusione funzionale alle esigenze del
 dominio? Al contrario, è proprio nelle forme di vita delle megalopoli che
 il dominio sulla nuda vita non può propagarsi senza conflitto, senza
 produrre una separazione radicale di spazi e di ambiti di vita: il terzo
 Reich genetico appare destinato a un'élite che ha i mezzi e il potere per
 affermare la propria riproducibilità tecnica. Agli altri, agli esclusi,
rimane
 la singolarità di un corpo minacciato fino alle sue più intime fibre: la
 percezione di questa minaccia contiene il germe di un'opposizione
 ancora senza forma.

 Forse non ha torto Gianfranco Marelli, quando rimpiange l'ispirazione
 originaria del situazionismo, attenta alla critica delle forme di vita nella
 grande città (in L'ultima Internazionale, Boringhieri, 2000, che
 ricostruisce in modo attento e partecipe le vicende di questo
 movimento). I situazionisti criticarono radicalmente il modernismo di
 "Le Corbusier-Sing-Sing" (così chiamarono il famoso architetto),
 immaginando progetti utopici di riforma dello spazio urbano, che non
 hanno nulla da invidiare alle fantasie di un Fourier. Come esempio si
 può ricordare il Projet d'embellissement rationnel de la ville de Paris,
 dove ogni quartiere avrebbe dovuto corrispondere ai diversi sentimenti
 "che si incontrano per caso nella vita corrente": Quartiere Felice (per
 l'abitazione), Quartiere nobile e tragico (per i bambini saggi), Quartiere
 Storico (musei, scuole), ma anche Quartiere Sinistro. Non meno
 significativo il progetto mai realizzato di esposizione allo Stedelijk
 Museum di Amsterdam, dove "due sale espositive avrebbero dovuto
 essere trasformate in un ambiente labirintico", coinvolgendo i visitatori
 in "variazioni termiche, luminose e sonore (pioggia, vento, nebbia
 artificiali, rumore e parole registrati".
 L'Urbanistica Unitaria dei situazionisti si opponeva radicalmente
 all'architettura razionalista moderna - bollata di volgare utilitarismo -
 proponendo una visione barocca, eccessiva, sensuale della città:
 "L'estetica situazionista non era moderna bensì barocca, e in quanto
 tale sfuggente, ingannevole, sconfinata, provvisoria: un mutarsi
 dell'essere statico, rigido, in un divenire armonico e plastico".

 La rivoluzione della vita quotidiana presuppone quella degli spazi urbani
 in cui essa si svolge e la distruzione del concetto borghese di felicità,
 fondato sull'autoconservazione e sulla volontà di potere. Ad essa, i
 situazionisti opponevano uno spazio dionisiaco, destinato all'incrocio e
 alla moltiplicazione dei possibili, all'incontro di singolarità liberate da
 qualsiasi ossessivo principio unificante. Contro la fantasmagoria
 borghese dello spettacolo, si sarebbe dovuto procedere a una vera e
 propria liberazione territoriale, alla costruzione di basi situazioniste nel
 tessuto urbano, "proiettate alla realizzazione di una prassi sperimentale
 in grado di rovesciare radicalmente i concetti spazio-temporali
 dell'esistenza umana". Da questo punto di vista, Marelli critica
 l'evoluzione ultima del situazionismo e dello stesso Debord, che
 avrebbero abbandonato questo movimento di metamorfosi della vita
 urbana per irrigidirlo in forme dure di avanguardia politica. La riscoperta
 delle teorie estetiche e urbanistiche del situazionismo è certo la parte
 più intensa ed originale del libro.

 Meno convincente appare la critica alla nozione di spettacolo. Debord
 avrebbe sottovalutato l'importanza del momento produttivo, spostando
 al centro della sua critica le nuove forme di alienazione derivanti dalla
 proliferazione del consumo e del "tempo libero". Ma nella sua opera
 maggiore, Debord supera a pié pari questa distinzione ed è questo il
 suo maggiore contributo al pensiero critico. Da un lato, nel momento
 così detto "produttivo" entrano in maniera sempre più determinante
 elementi estetici e spettacolari. Il modello della moda e dell'industria
 dello spettacolo si estende sempre di più ad ambiti che ne apparivano
 originariamente lontani. Ogni merce si distingue da quella dell'anno
 precedente, viene "personalizzata" su richiesta del committente, o
 esposta come "novità", grazie alla sua piega stilistica e alla
 comunicazione simbolica che propone. Questo effetto non è secondario,
 derivato o "sovrastrutturale": ma ormai appartiene alla forma stessa di
 merce, come presupposto della sua vendibilità e della sua produzione.
 Lo spettacolare entra dunque dentro il processo produttivo, non è solo
 la sua esteriore fantasmagoria: è ciò che, nei termini di Benjamin,
 permette di presentare il "sempre uguale" (dal punto di vista della
 qualità e dell'uso) come novità vendibile e desiderabile.
 D'altra parte, il tempo libero è tale solo fino a un certo punto. Lo
 spettacolo che vi domina serve a imprimere nei soggetti le nuove
 capacità simboliche, psichiche e comunicative, richieste da un lavoro
 labile e virtuale, oltre che asservirli alle necessità elastiche del nuovo
 sistema di dominio. Il tempo libero è già esso stesso produzione di
 forme simboliche, necessarie alla gestione e al controllo del capitalismo
 attuale: ma anche indispensabili allo stesso lavoro industriale, per
 come ora si svolge. Debord ha perciò intuito che la produzione e lo
 spettacolo erano ormai due facce dello stesso sistema integrato: ed è
 giunto a questo rivalutando la riflessione di Marx sul feticismo delle
 merci, che è uno degli aspetti più trascurati del suo pensiero. Debord,
 come Benjamin prima di lui, è riuscito invece a trarne le conseguenze
 più radicali.