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bologna/seattle e globalizzazione



Ciao, in relazione al vertice Ocse di Bologna e alle conseguenti
proteste alleghiamo un commento di Pietro Frigato, tratto dal nostro
sito www.nonluoghi.it, sul tema della globalizzazione, delle imprese di
mercato e del movimento antagonista. L'articolo, che in qualche
passaggio potrà apparire anche provocatorio, vuole essere un invito al
dibattito concreto sulle alternative praticabili da contrapporre al
sistema del neoliberismo globale, contro ogni forma di inerzia sociale.
Il gruppo Nonluoghi

                           di PIETRO FRIGATO*

premessa

Dotarsi di un'alternativa realizzabile alla globalizzazione selvaggia
neoliberista non è predisporre facili slogan. Propongo uno spunto di
analisi allarmata sulla attuale debolezza di una alternativa anche solo
teoricamente possibile. Un'analisi che, tra l'altro, prescinde dagli
ulteriori vincoli che una adeguata considerazione delle dimensioni del
potere imporrebbe (e da altri problemi maligni: trend demografici,
conflitti sugli standard minimi fra lavoratori dei paesi ricchi e dei
paesi poveri, accesso negato ai grandi canali di informazione, induzione
massmediatica al cretinismo eccetera eccetera). E' tempo di lavorare
sodo alla dimostrazione della possibilità concreta di un'umanizzazione
(ecologizzazione) del contesto economico e sociale nel quale, nostro
malgrado, siamo costretti a vivere.


Sicuramente il vertice di Bologna sulla globalizzazione osservata con le
lenti delle piccole e medie imprese potrebbe rappresentare un momento di
riflessione importante per l’insieme di quel movimento disarticolato di
protesta che ha preso le proprie mosse a Seattle. Dico disarticolato in
modo improprio, perché, a ben guardare, ci si trova di fronte a
pressioni profondamente contraddittorie, difficilmente coniugabili. Per
non citarne che una particolarmente evidente, si può fare riferimento
alla drammatica frattura che corre lungo la classica linea di
separazione che storicamente ha ostacolato la comunicazione tra “rossi”
(portatori di istanza sindacali e redistributive in genere, dunque anche
tradizioni socialdemocratiche) e “verdi” (differenti sensibilità per
l’ambiente, accomunate da socialmente insidiosissime richieste di
riduzione dei consumi, dunque della domanda aggregata e
dell’occupazione). Per quel che mi è dato di sapere, questa fondamentale
crepa non risulta ancora superata teoricamente da quanti si adoperano
dall’interno del mondo accademico e scientifico per la predisposizione
di un quadro concettuale eco-sociale in qualche modo coerente. Il
movimentismo non può che soffrirne ma fa male a se stesso a sorvolarvi.

   Tornando al tema che qui interessa vorrei attirare l’attenzione su di
un altro scivolosissimo piano: il riduzionismo in base al quale solo le
grandi imprese multinazionali, i mercati finanziari e le trame ordite
nei palazzi dai lobbisti di turno meritano un’attenzione critica.
Infatti, concentrare l’attenzione esclusivamente sulle mostruosità
indotte dalle imprese multinazionali fa perdere di vista la possibilità
di offrire una valutazione realistica dell’intero sistema di attività
economiche private. In fondo, risulta praticamente impossibile che la
Fiat assuma lavoratori a nero nei suoi stabilimenti industriali
localizzati sul nostro territorio nazionale (anche se poi può tentare di
farlo altrove), mentre chiunque conosca le miserie che si legano ai
lavori stagionali e non in piccole imprese sa bene come il nero e una
grande quantità di soprusi di altra natura siano la regola. Inoltre, può
non essere male per un turista che si rechi a Bombay trovare un Mc
Donald all’uscita dell’aeroporto, piuttosto che acquistare una qualche
cibaria dagli effetti collaterali sconosciuti in un qualche bar del
posto. Qualcuno potrà provare un profondo fastidio per quanto appena
detto e, tuttavia, dovrà concedere che le cose stanno, più o meno, nel
modo seguente: vi è una lettura spesso oltremodo superficiale del mondo
dell’impresa di mercato nella sua realtà concreta. In breve manca
un’idea chiara dell’inerente distruttività ecologica e sociale di unità
produttive orientate alla massimizzazione dei ricavi monetari, a
prescindere dalla loro dimensione relativa.

   La realtà concreta ci parla di costi ecologici e sociali indotti
sistematicamente e, di norma impunemente, dalle piccole, dalle medie e
dalle grandi imprese capitalistiche. Questi costi mutano in funzione del
ciclo economico e descrivono costellazioni di perdita di valore
ecologico e sociale diverse nelle situazioni di concorrenza più o meno
atomistica, di oligopolio e di monopolio.
  Un maggiore realismo potrebbe portarci a chiedere al sistema politico
di monitorare sistematicamente una grande quantità di perdite
reversibili e non (e a monetizzarle e renderle visibili nel Pil!), che
particolari individui, classi sociali, gruppi di popolazione e la
collettività più ampia sono costretti a sopportare come conseguenza di
un’iniziativa privata deregolamentata (de jure e/o de facto). Non farlo
significa far fuori interi pezzi di realtà e consentire, ad esempio, che
la rugiada prodotta nella letteratura sui fantastici distretti
industriali della terza Italia non venga mai posta nel giusto rapporto,
ad esempio, con il fenomeno inquietante delle morti bianche nei nostri
ambienti di lavoro.

  Quel che dico non è nessuna novità: per non citare che un esempio,
“La grande trasformazione” di Karl Polanyi è anche e soprattutto una
grande teoria dei costi sociali dell’iniziativa privata (dunque non solo
delle multinazionali!).

* Pietro Frigato ha svolto attività di ricerca presso l'IUED di Ginevra,
seguito dal Prof. R. Steppacher (assistente di K. William Kapp dal 1972
al 1976 - anno della morte di Kapp), attualmente svolge un dottorato di
ricerca in "Storia e sociologia della modernità" presso l'Università
degli studi di Pisa e lavora ad una integrazione della teoria dei costi
sociali dell'iniziativa privata nella versione fornita da Kapp con i
risultati conseguiti
dalla corrente materialistico-strutturale nell'ambito dell'epidemiologia
sociale.