[Ecologia] Il futuro degli idrocarburi in Italia. Con e senza trivelle | M. Galeotti e A. Lanza



Il futuro degli idrocarburi in Italia. Con e senza trivelle (tratto dal sito www.lavoce.info)

Ultimo di una serie di tre articoli sul referendum no-triv. Nel confronto pubblico si sovrappongono diversi argomenti, spesso estranei al quesito. Ma se di futuro energetico e ambientale dobbiamo parlare, bene rifarci agli impegni di Cop21 e a quelli con l’Ue.

Questo è l’ultimo di una serie di tre articoli (1 e 2) sul referendum no-triv.

Idrocarburi made in Italy

Quanto è importante la produzione di idrocarburi a rischio con il referendum dal punto di vista dell’economia nazionale?
Il referendum, secondo chi è contrario, metterebbe in crisi o a rischio l’intero business nazionale degli idrocarburi dal punto di vista del valore aggiunto prodotto, dell’occupazione e delle entrate fiscali di cui lo Stato gode. Il presidente del Consiglio ha parlato di 11mila posti di lavoro in ballo, il ministro dell’Ambiente Galletti di 10mila, Assomineraria di 13mila occupati nell’estrazione – a terra e a mare, dentro e fuori le 12 miglia – e di 5mila a rischio diretto con il referendum, i chimici della Cgil di 10mila posti a rischio solo a Ravenna e in Sicilia.
Secondo Isfol gli occupati nel settore estrattivo sono 9mila. È difficile trovare dati ufficiali accessibili a chiunque, ma di certo si possono dire tre cose: a) se gli occupati nel settore sono 9mila, i posti a rischio con il referendum sono sicuramente molti di meno; b) risulta difficile pensare a licenziamenti associati al referendum: sembra verosimile che aziende come l’Eni riutilizzerebbero i dipendenti per altre funzioni o collocazioni al proprio interno; c) nel breve periodo il rischio di perdere il lavoro è praticamente nullo. Si tratta poi di un’industria che è per sua natura a bassa intensità di lavoro, dove la manodopera è utilizzata soprattutto nella fase di costruzione delle piattaforme, mentre successivamente gran parte dei siti produttivi si controllano con poche persone, in molti casi da postazioni remote.
Invece il rischio occupazionale relativo all’indotto è concreto, sempre nel medio periodo, ma per avere un’idea precisa della sua dimensione quantitativa bisognerebbe come minimo disporre di tavole intersettoriali dell’economia italiana aggiornate con dettaglio regionale. E non è dato sapere se chi parla di numeri dispone di questo strumento e ha fatto i relativi calcoli.
Stesso discorso vale – e stesso strumento è necessario per parlarne con cognizione di causa – per il minore giro d’affari che il referendum innescherebbe o per gli investimenti delle aziende interessate, già tagliati o che verranno cancellati se vincerà il “sì”. Nella discussione pare essere sempre presente un elemento di confusione introdotto per colpa o per dolo: si discute delle sorti in prospettiva di un’intera industria parlando di un referendum che riguarda un piccolo segmento nell’immediato.
A noi pare che più importanti siano due elementi, uno internazionale e uno domestico: a) i prezzi di greggio e gas sono crollati per l’effetto combinato di una bassa domanda e di un’abbondante offerta: questa dinamica durerà ancora per alcuni anni ed è la maggiore determinante della redditività attesa degli investimenti di produzione e anche di ricerca di idrocarburi, b) il rischio regolatorio è una costante della politica italiana che non riguarda esclusivamente il petrolio e il gas: il modo principale per ridurlo è avere una chiara strategia nazionale in campo energetico e ambientale e gli strumenti normativi necessari per metterla in pratica.
Vi è poi il discorso delle royalties pagate dalle compagnie che estraggono. Nel 2014 hanno generato 402 milioni di euro (tabella 1). Secondo il quotidiano della Confindustria il loro livello colloca il nostro paese nella fascia medio-alta del confronto internazionale. Secondo gli ambientalisti è vero esattamente l’opposto. L’ambiguità pare giocarsi sulla distinzione tra royalties e tassazione dei proventi delle attività di estrazione. Sta di fatto che la nostra normativa prevede rilevanti quote di esenzione (tabella 1), mentre sembra che solo un terzo delle piattaforme interessate dal referendum paghino royalties. Le altre sono esenti, a testimonianza del fatto che sono piccoli giacimenti il cui contributo alla produzione totale è assai ridotto.

Le questioni ambientali

Qual è il rischio ambientale evitato con il referendum? A una concessione corrispondono più piattaforme e a ciascuna più pozzi e la risposta breve alla domanda è che il rischio è minimo, non nullo.
In questo caso, sono le organizzazioni ambientaliste che tendono di più a confondere i piani tra referendum e prospettiva generale. Da un lato, si fa notare che le fuoriuscite sono sempre possibili e che ne abbiamo avuto esperienza anche molto recente: dal caso della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico (ma quella era in “acque profonde”, tutt’altra storia) al disastro al largo della costa tunisina nell’isola di Kerkennah. Un aspetto che ci pare non trascurabile del rischio ambientale associato a queste eventualità è che i mari italiani sono mari “chiusi”, dove le conseguenze per gli ecosistemi sarebbero potenzialmente assai più gravi. L’Alto Adriatico in particolare è interessato dal fenomeno della subsidenza che avrebbe tra le sue cause – ancorché non l’unica – l’estrazione di gas sotto costa.
Meno forte ci sembra l’argomentazione relativa ai rischi per il turismo – che è comunque una delle maggiori industrie nazionali, di gran lunga più importante di quella petrolifera – e per le attività ittiche, agroalimentari e connesse al patrimonio culturale.
Le accese polemiche circa l’uso dell’airgun come tecnica esplorativa sono invece del tutto estranee al referendum, in quanto la consultazione non verte sulle attività di ricerca di idrocarburi: è un’altra argomentazione inserita in modo improprio nel dibattito sul voto.
Poco rilevante infine ci sembra l’osservazione secondo cui con il successo del “sì” aumenterebbe il traffico di navi petroliere e gasiere nel nostro mare, con relativi rischi. Da una parte, il grosso del gas viaggia ancora via tubo, dall’altra la piccola quota di produzione interessata dal referendum dovrebbe corrispondere al carico di non più di tre navi petroliere.

Impegni già presi

In conclusione, dispiace che il quesito referendario sia divenuto una “arma impropria” da una parte nella contrapposizione istituzionale tra prerogative dello Stato e delle regioni e dall’altra nella contrapposizione politica tra maggioranza e minoranza del principale partito di governo.
Ha ragione Matteo Renzi a dichiarare che le fonti fossili saranno necessarie ancora per parecchio tempo. Ma se quello sul referendum deve diventare un dibattito sulla visione del futuro energetico e ambientale dell’Italia, allora non si può non enfatizzare che la direzione necessaria è quella di una transizione basata sull’abbandono progressivo delle fonti fossili e di una loro sostituzione con energie alternative, accompagnata da una progressiva riduzione dei consumi energetici complessivi. Questo processo è condizionato dal ritmo dell’innovazione tecnologica, deve rispondere a criteri di economicità per i cittadini, è foriero di nuova attività economica e di occupazione e a favorirlo devono essere anzitutto le scelte politiche.
Il processo corrisponde peraltro agli impegni presi volontariamente dall’Italia lo scorso novembre a Parigi per Cop21 e a quelli vincolanti condivisi in seno all’Unione Europea. Di questi aspetti non vi è traccia nelle dichiarazioni ufficiali intorno al referendum.