La retorica delle grandi opere
- Subject: La retorica delle grandi opere
- From: tiziano cardosi <tiziano.cardosi at gmail.com>
- Date: Sun, 02 Sep 2012 09:54:52 +0200
articolo molto importante in poche parole denuncia quanto i notav dicono da anni Ponti è un tecnico molto serio e affidabile; secondo me la sua è una critica dal di dentro, ma gli manca la prospettiva politica che gli faccia fare chiedere perché siamo arrivati ad un sistema che sta autodistruggendosi e non si accorge che dobbiamo progettare un nuovo sistema economico e di convivenza. In questo credo ci possano aiutare molto le riflessioni che va facendo Ivan Cicconi sulla "grande opera" come necessario strumento della grande impresa postfordista globalizzata. Sono felice di una analisi che conferma quanto denunciamo da tempo A noi sta elaborare un altro sistema economico... ***** La retorica delle grandi opere di Marco Ponti*, "Il Fatto Quotidiano", 2 set. 2012
La retorica che va per la maggiore attualmente in Italia e in Europa, è che per uscire dalla crisi lo Stato deve investire, soprattutto in grandi infrastrutture, e in particolare in quelle di trasporto (vedi linea Torino-Lione, ma di opere simili ce ne sono sul tavolo una quantità, ognuna con i propri sponsor politici e industriali). Ora il prof. Prud’homme dell’Università di Lione ha fatto un’analisi del tutto indiziaria, su un numero limitato di paesi europei (8) e per un numero limitato di anni (5, dal 2000 al 2004 compresi). Sono anni abbastanza lontani da consentirci di vedere oggi gli impatti di quella politica, ma non così lontani da collocarsi in un contesto economico troppo remoto. Ha rapportato le spesa in investimenti in infrastrutture di trasporto (strade e ferrovie) con il Pil medio di quei 5 anni considerati. Cioè ha analizzato quanta parte della loro ricchezza hanno dedicato proprio ai grandi investimenti. La limitatezza dei dati e del campione non consente ovviamente altro che di avanzare dei dubbi, cioè di rendere assai meno solido il luogo comune che recita “più grandi investimenti in trasporti = più crescita economica”. Chi vince, nell’ordine? Primo viene il Portogallo, poi la Grecia, poi la Spagna, poi l’Italia. Buona quinta la Francia, mentre Germania, Regno Unito e Svezia sono i fanalini di coda. Non occorre ricordare come sono andate le economie di questi Paesi, in particolare Spagna e Grecia, sia in termini di crescita economica che di debito pubblico. Ma c’è stato anche un celebre precedente in Giappone: negli anni Novanta quel paese spese un’enorme quantità di denari pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita economica, con risultati trascurabili, se non quello di una spettacolare crescita del debito (e, sembra, di livelli di corruzione altrettanto spettacolari). La retorica delle Grandi Opere si richiama a sproposito a Keynes, grande economista inglese, che però parlava di stimolare la crescita, in periodi di crisi, con spesa pubblica che aumentasse rapidamente i consumi e l’occupazione (“impiegare i disoccupati anche a scavar buche e riempirle” era il suo noto paradosso). Le Grandi Opere sono certo spesa pubblica (soprattutto quelle ferroviarie, che, al contrario di quelle autostradali, gli utenti non pagano), ma mancano clamorosamente delle altre due caratteristiche: cioè creano poca occupazione, e non la creano rapidamente. Invece, è certamente vero che molte di queste abbiano la stessa utilità di scavar buche e riempirle (si è già citata la Torino-Lione, ma altre non scherzano). Creano poca occupazione, per ciascun euro pubblico speso, perché oggi nelle opere civili si fa quasi tutto a macchina (si pensi per esempio alle “talpe” per scavare tunnel). Il costo diretto del lavoro non supera il 25% dei costi totali. Non la creano rapidamente perché i cantieri durano 10 anni, e il “picco” di addetti necessari è spostato in là, quando si arriva ai lavori di finitura e messa in opera. Questo approccio al rilancio economico mediante Grandi Opere, care al governo Berlusconi, sembrava molto indebolito, soprattutto per la scarsità delle risorse pubbliche. Tuttavia oggi nuove nubi si affacciano all’orizzonte, e questa volta arrivano dall’Europa, e sono fortemente caldeggiate dallo stesso governo Monti, e ovviamente da banche e grandi costruttori. Si tratta dei Project Bond e della cosiddetta “golden rule”. I primi sono di fatto garanzie europee sui prestiti (bond) che i privati possono fare per realizzare progetti. Ma ovviamente varranno per progetti europei, pensati prima della crisi, quindi di importo molto elevato e con orizzonti temporali molto lunghi. Cioè proprio Grandi Opere, e si ricorda che le Grandi Opere europee non sono altro che la sommatoria di quelle indicate dai diversi paesi, cioè per l’Italia quelle care al governo Berlusconi. Le garanzie europee sui prestiti dei privati, salvo un improbabile irrigidimento della Commissione europea, significano che se poi l’opera si rivela scarsamente utile e avrà poco traffico, l’Europa, cioè ancora le casse pubbliche, pagheranno. Un ulteriore debito pubblico, mascherato e rimandato nel tempo. La “golden rule” significa che le spese per investimenti pubblici in infrastrutture non sarebbero più conteggiate nel debito nazionale. E il risultato sarebbe del tutto analogo a quello degli Project Bond: un forte incentivo a spendere in Grandi Opere di dubbia utilità. L’opposizione tedesca (e inglese) all’introduzione di questi strumenti, si badi, era proprio finalizzata a scoraggiare spese pubbliche clientelari e improduttive, che avrebbero pesato sui deficit per molti anni. Angela Merkel ha fatto e continua a fare molti errori economici, ma in questo caso sembra difficile non solidarizzare, almeno un po’, con la sua visione rigorista, che appare certo più difendibile dell’allegro Keynesianismo di molti altri governi europei, supportati da interessi che con la crescita non hanno davvero nulla a che vedere.
*professore di Economia dei trasposti al Politecnico di Milano |
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