Nicola
Cipolla
Mentre l’Italia era ancora impegnata in un lungo e faticoso iter
elettorale/costituzionale, Flavio Conti, che ha sostituito da poco più di
un anno Scaroni alla direzione dell’Enel, ha pensato bene di concludere,
nel mese di aprile, gli accordi con la Slovacchia e con l’Edf francese che
riportano l’ex ente monopolista di stato, ma tuttora a maggioranza
pubblica, negli affari nucleari d’Europa.
Questa mossa è grave e pericolosa per diversi ordini di motivi. In
primo luogo perché correttezza gestionale avrebbe consigliato un
amministratore nominato dal precedente governo ad attendere il placet del
nuovo esecutivo.
In secondo luogo la firma è avvenuta nel momento in cui tutta
l’umanità, e in particolare l’Europa, commemoravano l’anniversario del
terribile disastro di Chernobyl, avvenuto in un impianto che adopera la
stessa tecnologia di quelli esistenti in Slovacchia.
In terzo luogo perché, proprio in seguito a Chernobyl, il fronte
ambientalista italiano (con l’appoggio della sinistra del Pci) aveva
ottenuto la vittoria del referendum popolare (la richiesta di referendum
era stata presentata ben prima dell’incidente) che metteva fuorilegge
l’energia atomica e bloccava così l’affannoso tentativo dell’Enel di
Viezzoli (che poi finì in galera per questo) di arrivare, comunque, alla
costruzione della centrale di Montalto di Castro.
Ma tutto questo per un Ceo (Chef Executive Officer) come Flavio Conti,
che un giorno sì e un giorno no afferma che il suo scopo principale è
quello di creare “valore” cioè profitti per l’Enel, poteva non avere
nessun significato.
Ma anche dal punto di vista economico la scelta nucleare, in linea
generale e nella fattispecie per i due affari slovacco e francese, apre
prospettive disastrose. “Il mercato energetico fatto di sola concorrenza è
un nemico spietato della tecnologia nucleare”. Oggi come oggi il Kw/ora
più economico è quello delle centrali a metano a ciclo combinato, seguito
dall’eolico, dal carbone, dal nucleare e in ultimo dai derivati del
petrolio.
Queste affermazioni sono ricorrenti in tutta la stampa economica e
tecnica. Negli Stati Uniti, a partire dall’incidente di Three Miles Island
precedente a quello di Chernobyl, da oltre venti anni non si costruiscono
più centrali atomiche per l’introduzione di norme restrittive che
riguardano la sicurezza. Ma anche prima di questo incidente la produzione
di energia elettrica atomica era fortemente sovvenzionata, di fatto, dalla
spesa per l’uso militare dell’atomo che poneva a carico della collettività
sia gli investimenti per la ricerca sia gran parte del costo del
ritrattamento dell’uranio utilizzato nelle centrali elettriche. Paesi come
la Germania e la Svezia stanno uscendo dal nucleare man mano che le
centrali, costruite prima degli incidenti, si chiudono e si contano sulle
dita di una mano le iniziative di completamento di impianti in
costruzione; tra questi l’impianto di Mochovce che l’Enel ha fatto proprio
con l’acquisto del 66% delle azioni della Slovenske Elektrarne
privatizzata.
Per il controllo di questa società (che ha 900 milioni di euro di
debito verso le banche) l’Enel ha già sborsato 840 milioni di euro e si è
impegnata ad un investimento di un miliardo di euro per il completamento
di due reattori ancora in costruzione. Ma nel processo di privatizzazione
slovacco l’Enel arriva dopo che l’Edf francese e la Rowe tedesca hanno
acquisito il controllo della rete di distribuzione slovacca, e potranno
anche non acquistare o imporre prezzi bassi per l’energia che l’Enel
produrrà con gli impianti slovacchi.
Né meno incerto, dal punto di vista economico, è l’investimento
francese dove l’Enel si è impegnato ad apportare il 12,50% della spesa
(circa tre miliardi di euro) anche qui in cambio del 12,50% dell’energia
prodotta da vendere, tra parecchi anni, a chi avrà il dominio delle reti
di distribuzione senza le quali l’energia prodotta non avrà praticamente
valore. Ma a questo riguardo il governo francese ha già provveduto ad
impedire che l’Enel potesse entrare nel settore della distribuzione in
Francia (come il governo spagnolo per la sua industria) mentre l’Edf in
Italia, in accordo con la ex municipalizzata lombarda Aem, ha acquisito il
controllo dell’Edison cioè del più ricco mercato italiano di consumo
dell’energia elettrica che è quello padano. Un bilancio sconsolante.
Da dove prende i soldi l’Enel da investire all’estero in avventure così
spericolate? Li prende dalle tasche dei consumatori e dalle imprese
italiane che pagano l’energia elettrica il 25% in più rispetto agli altri
paesi europei, malgrado che nel bilancio elettrico italiano influisca, per
il 18%, la produzione idroelettrica derivante da impianti già totalmente
ammortizzati e prodotta da una materia prima, l’acqua, che viene dal cielo
e che non è sottoposta agli sbalzi delle quotazioni del petrolio. Non
sarebbe meglio che l’Enel, invece di accumulare utili, sviluppasse una
politica di concorrenza sul prezzo dell’energia con le multinazionali,
francesi e spagnole in particolare, che vengono in Italia solo per
sfruttare, da oligopolisti, gli alti prezzi che l’ex monopolio pubblico
impone ai consumatori italiani?
Recentemente sia la Commissione parlamentare sulle attività produttive,
presieduta dall’Udc Tabacci, con una relazione approvata quasi
all’unanimità sia con l’intervento della Commissione dell’Unione europea è
stato sottolineato il carattere monopolistico della gestione delle reti
energetiche in Italia: per il gas con la Snam Retegas e per l’Enel con la
società Terna che, vedi caso, era presieduta dal dottor Flavio Conti prima
della sua ascesa alla massima direzione dell’Enel a cura del governo
Berlusconi.
Uno dei compiti del governo, e del Parlamento uscito dal voto del 9 e
10 aprile, sarà quello di riprendere questo discorso. Anche perché l’Enel
oltre al nucleare avanza la proposta della trasformazione a carbone di
alcune centrali. Queste centrali sono non solo meno redditizie delle
centrali a turbo gas, tanto è vero che nessun imprenditore privato ha
avanzato proposte di centrali a carbone, ma sono fortemente inquinanti e
vanno contro gli accordi di Kyoto perché responsabili di maggiori
emissioni rispetto al gas e soprattutto alle fonti rinnovabili che
trovano, invece, spinte favorevoli da parte delle popolazioni.
Queste fonti nei programmi di Flavio Conti hanno solo un ruolo
marginale perché sottraggono quote di mercato alle centrali tradizionali
dell’Enel (e degli altri grandi produttori) e perché richiedono una
ristrutturazione della rete di distribuzione finora basata esclusivamente
sull’apporto di grandi centrali, concentrate in alcuni siti del paese,
mentre con l’avvento delle rinnovabili entrano in gioco centinaia o
migliaia e decine di migliaia di piccoli produttori che, anche in base
alle direttive comunitarie ed agli accordi di Kyoto, hanno diritto a
immettere in rete la loro produzione.
La scelta atomica e del carbone e il bavaglio alle energie alternative,
in particolare a quella eolica, faceva parte del programma del governo
Berlusconi, ma non fa parte del programma approvato dall’Unione che
vorrebbe fare recuperare all’Italia un ritardo nelle energie rinnovabili
rispetto agli altri paesi europei.
Nel 2005 l’Europa ha raggiunto con 40.500 Mw eolici installati (una
produzione annua di 24 milioni di tep) il primato in tutto il mondo e va
sottolineato che questi valori hanno consentito di superare con cinque
anni di anticipo l’obiettivo di 40.000 Mw fissato nel libro bianco dell’Ue
per il 2010.
In testa alla classifica ci sono la Germania con 18.428 Mw e la Spagna
che ha superato il 10.000 Mw e stanno entrando in questa produzione paesi
come il Portogallo che ha superato i 1.000 Mw, l’Olanda, la Gran Bretagna
e naturalmente la Danimarca che aveva la più alta percentuale di
produzione eolica dell’Europa.
Nel 2005 l’Italia ha avuto quasi una battuta d’arresto dovuta, non
tanto, io ritengo, alle forze ambientaliste che protestavano contro casi
isolati di impianti in zone paesaggisticamente rilevanti, quanto alla
netta opposizione, come ad esempio è avvenuto in Sicilia, da parte
dell’Enel e della sua filiale Terna che hanno espressamente sollecitato il
governo Cuffaro a imporre limiti non paesaggistici ma quantitativi
rifiutandosi di immettere nella rete l’energia eolica che una serie di
imprese volevano produrre in Sicilia per 5.000 Mw.
Uno dei primi compiti del governo dell’Unione dovrebbe essere quello di
rielaborare finalmente un piano energetico nazionale rispettoso delle
indicazioni dell’Ue e di Kyoto. In questo senso si muove,
nell’elaborazione del suo Piano Energetico Regionale, la Regione Puglia
che ha raccolto suggestioni ed esperienze che vengono dalle altre regioni
di centro-sinistra d’Italia e dalle esperienze più avanzate dell’Europa.
La lettura dei documenti pubblicati nel sito della Regione Puglia dà
un’indicazione del grande lavoro in corso, degli orientamenti generali e,
a mio avviso, soprattutto della partecipazione richiesta e organizzata da
parte di istituzioni come Comuni, Province, associazioni culturali e
ambientaliste, sindacati, associazioni di produttori industriali ed
agricoli (circa 1.200). Da questi documenti e dalle notizie di stampa
emergono orientamenti che si possono così riassumere: - è una regione
caratterizzata da un lato dalla presenza massiccia di mostri industriali
ad altissimo tasso di inquinamento e produce quasi il doppio di energia
elettrica consumata (la sola centrale a carbone di Cerano, vicino
Brindisi, produce il 6% di tutte le emissioni ammesse in Italia da oltre
1.600 imprese responsabili di inquinamento da anidride carbonica e il 12%
di quelle elettriche) e dall’altro è una delle regioni più indiziate per
la produzione di energia eolica, solare e biomasse in collegamento con la
riduzione di colture agricole tradizionali non più garantite dai
contributi comunitari. La scelta quindi di fondo è quella di una drastica
riduzione dell’uso del carbone e del petrolio e dello sviluppo delle
energie alternative e in particolare dell’eolico (già oggi la Puglia è al
primo posto i Italia per potenza eolica installata, per domande accolte e
per domande in corso di espletamento per circa 3. 000 Mw).
- sviluppo non più affidato soltanto a imprenditori che scelgono di
concentrare gli impianti eolici in siti paesaggisticamente rilevanti, ma
diffuso nel territorio con nuovi protagonisti come le imprese
municipalizzate e i produttori agricoli come avviene in Germania.
Naturalmente ciò presuppone un completo rinnovamento della rete e
soprattutto dei metodi di gestione della stessa con l’affermazione del
principio che ogni produttore di energia ha il diritto di immettere nella
rete, bene comune, la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili.
Questo complesso processo democratico di consultazione dovrebbe portare
nel prossimo mese di giugno all’approvazione del Piano che può costituire
un esempio e un punto di riferimento per il movimento in tutta Italia. Un
solo esempio: la lotta popolare di Civitavecchia contro la centrale
elettrica a carbone viene rafforzata dalla decisione del Piano energetico
pugliese di ridurre fino ad annullare, come richiesto da molti interventi
di Enti locali tra cui il Comune di Brindisi (di centro destra) e le
associazioni ambientaliste per la trasformazione della centrale di Cerano
da metano a ciclo combinato.
La situazione della Puglia non è diversa da quella di altre regioni
meridionali che sono tutte interessate alla riduzione dell’inquinamento
dei grandi impianti petrolchimici ed energetici che furono sostenuti dalla
Cassa del Mezzogiorno e, per converso, dalla utilizzazione massiccia delle
energie alternative che nel Mezzogiorno più che nella Valle Padana
rappresentano una fonte preziosa e pulita.
Il governo Prodi deve però fare una scelta tra la politica dell’Enel
che è stata sostenuta dal governo Berlusconi e che è in contrasto,
ripetiamo, con gli orientamenti di Kyoto e dell’Ue, e una nuova politica
energetica che può costituire in primo luogo per il Mezzogiorno non solo
una grande risorsa dal punto di vista ambientale ma anche per quanto
riguarda lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione, e il trasferimento
attraverso il meccanismo dei Certificati Verdi di miliardi di euro dalle
industrie inquinanti ai Comuni ed ai piccoli produttori di
energia. |