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kyoto:usa dopo l'11 settembre
- Subject: kyoto:usa dopo l'11 settembre
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 01 Nov 2001 10:08:05 +0100
da boiler.it di domenica 28 ottobre 2001 Usa: dopo Osama, nubi sul futuro di Claudia Giammatteo AI NEGOZIATI DI MARRAKESH ci saranno. Ma una cosa è sicura: non faranno come gli altri. Si sono rincorse nelle ultime due settimane le voci di una “consistente delegazione americana” a Marrakesh, sufficienti a fare nascere le speranze di vedere tornare Bush al tavolo dei negoziati per il protocollo di Kyoto. Ad alimentarle è stato perfino un piccolo giallo numerico: mentre fonti ufficiose prevedevano una presenza di “massimo dieci persone”, al Mansour Dahbi Hotel, vicino al Palazzo dei Congressi di Marrakesh, risultavano 120 stanze riservate a nome del Dipartimento di Stato americano. A moltiplicare le speranze è stato il ministro dell’Ambiente marocchino Mohamed Elyzghi, che presiederà i negoziati di Marrakesh. «Ci auguriamo», ha dichiarato qualche giorno fa, «che una volta chiariti gli ultimi dettagli del trattato gli Stati Uniti possano decidere di ritornare sul tavolo delle trattative». Il premier inglese Tony Blair si è addirittura spinto oltre: «Speriamo che in questa nuova atmosfera diplomatica creata dagli attacchi agli Stati Uniti, il presidente Bush abbracci trattati internazionali come gli accordi di Kyoto». A spegnere ogni più flebile speranza, è stato il portavoce della delegazione americana a Marrakesh, Harlan Watson: «Gli Stati Uniti non hanno intenzione di ratificare il Trattato di Kyoto», ha spiegato ai giornalisti, «ma non intendono bloccare i paesi che vogliono andare avanti nei negoziati. Siamo presenti come paesi firmatari della Convenzione mondiale sul clima del 1992. Ratificare o meno il protocollo è una decisione che ogni paese dovrà prendere singolarmente». Alternativa “casalinga” degli Usa? Da escludere Una novità, anche se negativa, c’è. A meno di sorprese dell’ultima ora sembra scontata la mancanza di un’”alternativa casalinga” al protocollo di Kyoto, sbandierata al mondo da Bush dallo scorso inverno, al G8 di Trieste. Un’assenza spiegata ufficialmente dalla drammatica crisi internazionale, e dall’improvviso e inaspettato riordino delle priorità nazionali seguito agli attacchi dell’11 settembre. Ma le cose, in realtà, starebbero diversamente. Già a giugno un sondaggio pubblico del Washington Post bocciava la politica ambientale di Bush e l'abbandono dai negoziati sul clima, appoggiati invece entusiasticamente dall'industria. Il Senato invitava quindi Bush a tornare al tavolo dei negoziati multilaterali di Marrakesh, portando una proposta tale da «assicurare la partecipazione degli Stati Uniti a una versione riveduta e corretta del trattato di Kyoto o a futuri negoziati sul clima». Già in tempi non sospetti la task force – guidata dal Vicepresidente Cheney – incaricata dello sviluppo di una politica alternativa al trattato di Kyoto veniva accusata da entrambi i rami del Congresso di “eccessiva lentezza” per probabili “disaccordi interni”. Un’importante segnale della sostanziale “anarchia” degli Stati Uniti in tema di clima emerge da un fattore inquietante: dodici Stati americani hanno intrapreso volontariamente una politica di riduzione delle emissioni che ricalca il trattato di Kyoto. Dal Vermont, alla California, la parola d’ordine è “il riscaldamento globale esiste e va combattuto”. Ad aprire la strada è lo Stato della California, in cui il 12 per cento dell’energia elettrica proviene da fonti rinnovabili. Sei stati del New England e cinque province canadesi hanno firmato un accordo per tornare ai livelli delle emissioni del 1990, da ridurre di un ulteriore 10 per cento entro il 2020. A firmare l’accordo, i governatori di Massachussets, Connecticut, Rhode Island, New Hamphsire, Vermont e Maine, di provenienza politica opposta: tre repubblicani, due democratici, un indipendente. Il Congresso è spaccato Una conferma della spaccatura tra Casa Bianca e Congresso sulla politica americana riguardante il cambiamento climatico viene dalla mancata approvazione di un progetto di legge presentato dal partito repubblicano al Senato prima dell’11 settembre come “la risposta degli Stati Uniti al trattato di Kyoto”. Tre i punti salienti del disegno di legge: lo stanziamento decennale di due miliardi di dollari in nuove tecnologie per ridurre le emissioni di gas serra, un miliardo di dollari per trasferimenti di tecnologie a paesi in via di sviluppo – Cina e India in testa – e un registro nazionale delle industrie a favore di una riduzione volontaria delle proprie emissioni di “gas serra”. Firmatari del disegno di legge tre consiglieri di Bush: Chuck Hagel, senatore del Nebraska e capo della Commissione Affari Esteri, Frank Murkowsky, senatore dell'Alaska e capo della Commissione Energia e Commercio, e Larry Craig, senatore dell'Idaho. «I risultati del disegno di legge», aveva dichiarato Craig in un incontro con la stampa, «porteranno guadagni sull'impatto globale dei gas serra maggiori di quelli ottenuti seguendo il trattato di Kyoto». Il testo del disegno di legge si allontana esplicitamente dal testo del trattato di Kyoto, e in particolare dai punti più controversi all'origine del ritiro di Bush del marzo scorso. Nessun riferimento, in particolare, a tagli obbligatori delle emissioni di anidride carbonica a carico dell'industria – ritenuti troppo onerosi per l'economia americana – mentre, al contrario, è sottolineata l'importanza del coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo nella riduzione – escluso dai negoziati di Kyoto –, ritenendolo “indispensabile per trovare una soluzione globale alla questione dei gas serra”. Chiara, netta, la presa di posizione a favore del nucleare: «Il difetto principale degli accordi di Kyoto è non avere colto l'importanza strategica dell'energia nucleare, che non ha impatto sul riscaldamento globale», ha sottolineato uno dei firmatari del disegno di legge, Frank Murkowski, che preannunciava l’apertura di nuove centrali nucleari entro i prossimi tre anni. Sarebbero le prima dopo l’incidente alla centrale di Three Mile Island, in Pennsylvania, nel 1979.
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