il biotech entra in guerra



da boiler.it di lunedi 24 settembre 2001

 
Il biotech entra in guerra

di Sabina Morandi
  


 COME SPESSO accade, la prima arma biotecnologica è stata scoperta per
caso. Ron Jackson del Pest Animal Control Cooperative Research Center di
Camberra, e Ian Ramshaw, dell’Australian National University, stavano
lavorando a un contraccettivo virale per debellare l’invasione di topi, un
grande problema in Australia. I due oscuri ricercatori ottennero notorietà
internazionale quando inavvertitamente dalla manipolazione dei geni virali
venne fuori un ceppo insolitamente virulento. Gli scienziati realizzarono
che, se la stessa manipolazione fosse applicata al vaiolo, questo violento
patogeno potrebbe diventare ancora più letale di quanto non sia mai stato.
L’incidente non ha fatto che accrescere le preoccupazioni della comunità
scientifica mondiale sul possibile utilizzo dell’ingegneria genetica per
creare armi biologiche ancora più distruttive dei normali patogeni. E il
fatto che oggi l’intero genoma di alcuni agenti infettivi sia stato
decodificato e sia, in sostanza, accessibile a tutti, così come lo sono le
tecniche di manipolazione dei geni, rende realistica un’ipotesi che, dopo
il martedì nero, non è più solo un incubo fantascientifico.

Le tecniche

Probabilmente il modo più semplice per accrescere il potenziale distruttivo
di un batterio è utilizzare la stessa strategia che l’organismo impiega
contro le difese umane, ovvero renderlo più resistente agli antibiotici. La
velocità con cui alcuni batteri, come lo Staphylococcus aureus o la
Pseudomonas aeruginosa, sviluppano la resistenza ai farmaci è già
preoccupante al loro stato naturale, come ha sottolineato più volte
l’Organizzazione mondiale della sanità. Fra le varie ipotesi sulla
diffusione della farmaco-resistenza la più accreditata è quella che si
concentra sul ruolo dei plasmidi. Molti dei geni responsabili della
resistenza agli antibiotici sono infatti contenuti nei plasmidi, agenti
infettivi degli stessi batteri, che contribuiscono al riarrangiamento del
genoma passando continuamente da un batterio all’altro per diffondere
l’infezione. Questo rimescolamento genico, naturalmente, aumenta il tasso
casuale delle mutazioni, finora considerato l’unico fattore che potesse
causare l’insorgere dei fenomeni di resistenza, velocizzando l’intero
processo.

Ma la velocità delle mutazioni può essere ancora più accresciuta – magari
in una precisa direzione – dai genetisti molecolari, che da anni sono
abituati a utilizzare i plasmidi per clonare il Dna e fabbricare batteri
transgenici. Inserire dei nuovi geni per la resistenza ai farmaci non è
solo tecnologicamente possibile ma fa praticamente parte del lavoro di
routine, secondo gli standard della maggior parte dei laboratori più
avanzati. I risultati di una manipolazione genica così semplice sono però
disastrosi. L’antrace, per esempio, viene normalmente trattato con derivati
dalla penicillina che, attraverso procedure abbastanza semplici, potrebbero
essere resi inefficaci mediante l’introduzione del gene per l’espressione
di un particolare enzima.

Di fatto le tecniche di ricombinazione genica, che consentono di mescolare,
riarrangiare e reincollare frammenti di genoma – il famoso taglia e cuci
enzimatico che è alla base dell’ingegneria genetica – possono mettere in
grado di operare su patogeni come colera, tubercolosi e antrace anche
laboratori di piccole dimensioni. I genetisti sono anche in grado di
trasformare agenti infettivi relativamente innocui come Escherichia coli,
in patogeni letali, con tecniche poco costose, utilizzando le diffuse
informazioni sul microrganismo più studiato del mondo. Anche senza voler
considerare tecniche più sofisticate ma meno realistiche, come l’impiego
dei vaccini ricombinanti ibridizzati, la terapia genica o le armi
etnicamente selettive, sono tutti scenari da incubo che, non a caso,
avevano portato i primi ingegneri genetici a proporre, nel 1982, una
moratoria sulla manipolazione dei microrganismi patogeni.

Controllo e mercato

Con il boom delle aziende biotech produrre armi biologiche è diventato
sempre più facile ed economico, e la loro diffusione incontrollabile. In
alcuni paesi, come gli Stati Uniti, finora è stato sufficiente fornire il
numero di una carta di credito per farsi spedire il ceppo di qualche
malattia con la scusa di voler testarne la presenza nel sangue di un
malato. Una volta questo tipo di esami potevano venire eseguiti solo nelle
strutture sanitarie pubbliche autorizzate ma, ora che i test sono alla
portata di qualsiasi piccolo laboratorio privato, comprare un vibrione per
telefono è uno scherzo. Secondo molti osservatori è esattamente questo il
canale attraverso cui Saddam ha acquisito i prodotti di base utilizzati nel
suo arsenale di armi biologiche.

Di fatto ogni tentativo di limitare, o almeno di controllare, ciò che
avviene nelle provette e nelle piastre di coltura, si è arenato di fronte
alle esigenze dei produttori. La Pharmaceutical Research and Manufacturers
of America (PhRma) che rappresenta le aziende farmaceutiche e
biotecnologiche statunitensi che si sono schierate contro la produzione
bellica, continua però a opporsi strenuamente alle ispezioni che
“esporrebbero l’industria al rischio di perdere i suoi legittimi segreti
industriali, necessari alla competitività delle aziende”. Dopo il martedì
nero le cose sono ovviamente cambiate e molte delle esigenze del mercato –
dal rapido fluire dei capitali alla segretezza industriale – dovranno
piegarsi alle esigenze della sicurezza nazionale. Sempre che non sia troppo
tardi.