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il biotech entra in guerra
- Subject: il biotech entra in guerra
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 01 Oct 2001 19:39:55 +0200
da boiler.it di lunedi 24 settembre 2001 Il biotech entra in guerra di Sabina Morandi COME SPESSO accade, la prima arma biotecnologica è stata scoperta per caso. Ron Jackson del Pest Animal Control Cooperative Research Center di Camberra, e Ian Ramshaw, dell’Australian National University, stavano lavorando a un contraccettivo virale per debellare l’invasione di topi, un grande problema in Australia. I due oscuri ricercatori ottennero notorietà internazionale quando inavvertitamente dalla manipolazione dei geni virali venne fuori un ceppo insolitamente virulento. Gli scienziati realizzarono che, se la stessa manipolazione fosse applicata al vaiolo, questo violento patogeno potrebbe diventare ancora più letale di quanto non sia mai stato. L’incidente non ha fatto che accrescere le preoccupazioni della comunità scientifica mondiale sul possibile utilizzo dell’ingegneria genetica per creare armi biologiche ancora più distruttive dei normali patogeni. E il fatto che oggi l’intero genoma di alcuni agenti infettivi sia stato decodificato e sia, in sostanza, accessibile a tutti, così come lo sono le tecniche di manipolazione dei geni, rende realistica un’ipotesi che, dopo il martedì nero, non è più solo un incubo fantascientifico. Le tecniche Probabilmente il modo più semplice per accrescere il potenziale distruttivo di un batterio è utilizzare la stessa strategia che l’organismo impiega contro le difese umane, ovvero renderlo più resistente agli antibiotici. La velocità con cui alcuni batteri, come lo Staphylococcus aureus o la Pseudomonas aeruginosa, sviluppano la resistenza ai farmaci è già preoccupante al loro stato naturale, come ha sottolineato più volte l’Organizzazione mondiale della sanità. Fra le varie ipotesi sulla diffusione della farmaco-resistenza la più accreditata è quella che si concentra sul ruolo dei plasmidi. Molti dei geni responsabili della resistenza agli antibiotici sono infatti contenuti nei plasmidi, agenti infettivi degli stessi batteri, che contribuiscono al riarrangiamento del genoma passando continuamente da un batterio all’altro per diffondere l’infezione. Questo rimescolamento genico, naturalmente, aumenta il tasso casuale delle mutazioni, finora considerato l’unico fattore che potesse causare l’insorgere dei fenomeni di resistenza, velocizzando l’intero processo. Ma la velocità delle mutazioni può essere ancora più accresciuta – magari in una precisa direzione – dai genetisti molecolari, che da anni sono abituati a utilizzare i plasmidi per clonare il Dna e fabbricare batteri transgenici. Inserire dei nuovi geni per la resistenza ai farmaci non è solo tecnologicamente possibile ma fa praticamente parte del lavoro di routine, secondo gli standard della maggior parte dei laboratori più avanzati. I risultati di una manipolazione genica così semplice sono però disastrosi. L’antrace, per esempio, viene normalmente trattato con derivati dalla penicillina che, attraverso procedure abbastanza semplici, potrebbero essere resi inefficaci mediante l’introduzione del gene per l’espressione di un particolare enzima. Di fatto le tecniche di ricombinazione genica, che consentono di mescolare, riarrangiare e reincollare frammenti di genoma – il famoso taglia e cuci enzimatico che è alla base dell’ingegneria genetica – possono mettere in grado di operare su patogeni come colera, tubercolosi e antrace anche laboratori di piccole dimensioni. I genetisti sono anche in grado di trasformare agenti infettivi relativamente innocui come Escherichia coli, in patogeni letali, con tecniche poco costose, utilizzando le diffuse informazioni sul microrganismo più studiato del mondo. Anche senza voler considerare tecniche più sofisticate ma meno realistiche, come l’impiego dei vaccini ricombinanti ibridizzati, la terapia genica o le armi etnicamente selettive, sono tutti scenari da incubo che, non a caso, avevano portato i primi ingegneri genetici a proporre, nel 1982, una moratoria sulla manipolazione dei microrganismi patogeni. Controllo e mercato Con il boom delle aziende biotech produrre armi biologiche è diventato sempre più facile ed economico, e la loro diffusione incontrollabile. In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, finora è stato sufficiente fornire il numero di una carta di credito per farsi spedire il ceppo di qualche malattia con la scusa di voler testarne la presenza nel sangue di un malato. Una volta questo tipo di esami potevano venire eseguiti solo nelle strutture sanitarie pubbliche autorizzate ma, ora che i test sono alla portata di qualsiasi piccolo laboratorio privato, comprare un vibrione per telefono è uno scherzo. Secondo molti osservatori è esattamente questo il canale attraverso cui Saddam ha acquisito i prodotti di base utilizzati nel suo arsenale di armi biologiche. Di fatto ogni tentativo di limitare, o almeno di controllare, ciò che avviene nelle provette e nelle piastre di coltura, si è arenato di fronte alle esigenze dei produttori. La Pharmaceutical Research and Manufacturers of America (PhRma) che rappresenta le aziende farmaceutiche e biotecnologiche statunitensi che si sono schierate contro la produzione bellica, continua però a opporsi strenuamente alle ispezioni che “esporrebbero l’industria al rischio di perdere i suoi legittimi segreti industriali, necessari alla competitività delle aziende”. Dopo il martedì nero le cose sono ovviamente cambiate e molte delle esigenze del mercato – dal rapido fluire dei capitali alla segretezza industriale – dovranno piegarsi alle esigenze della sicurezza nazionale. Sempre che non sia troppo tardi.
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