la piramide rovesciata della solidarieta'



dal manifesto di martedi 17 luglio 2001

La piramide rovesciata della solidarietà 
"Come farsi un movimento globale. La costruzione della democrazia dal
basso", edito da DeriveApprodi l'ultimo lavoro di Jeremy Brecher, Tim
Costello e Brendan Smith. Un tentativo di distillare dal dopo-Seattle gli
elementi per un programma d'azione il più possibile condiviso, un manuale
per il militante globale 
BRUNO CARTOSIO - 

Aveva ragione, negli anni scorsi, il Monde diplomatique ad agitare lo
spauracchio del pensiero unico e, fortunatamente, avevano ragione anche
quelli che avvertivano che l'incombere stesso del predominio del pensiero e
della prassi neoliberiste stava producendo risposte in ogni parte del
mondo. La globalizzazione capitalista deve fare paura, e gli esempi di
risposta che sempre più il mondo ci è venuto offrendo devono essere
raccolti, analizzati, metabolizzati e fatti diventare patrimonio fondante
di nuove politiche d'opposizione, al di là di ogni confine nazionale e
barriera di genere, casta e classe. Se è vero che ogni movimento sociale
"sviluppa nel suo divenire una propria consapevolezza" di sé e dei propri
obiettivi, ogni contributo alla crescita di tale consapevolezza può essere
importante.

Un contributo di questo tipo lo danno Jeremy Brecher, Tim Costello e
Brendan Smith, in quest'ultimo libro tradotto da poco: Come farsi un
movimento globale. La costruzione della democrazia dal basso
(DeriveApprodi, pp. 226, L. . 22.000). Il titolo italiano è forse un po'
troppo "fai da te". L'originale, Globalization from Below: The Power of
Solidarity, mi sembra più esplicito, e include due richiami forti, anche se
di segno diverso, che nell'italiano si perdono: il primo al concetto di
"globalizzazione dal basso", che ricorre poi nel testo, essendo uno dei
cardini del discorso, e il secondo alla solidarietà e alla forza che essa è
in grado di generare.
In questo uso del concetto di solidarietà si esplica una caratteristica per
me molto importante del discorso di Brecher e dei suoi compagni: non è
necessario recidere le proprie radici - personali, culturali, politiche -
che affondano nella storia del composito movimento operaio e sindacale
statunitense per comprendere e aderire ai nuovi movimenti, per scrivere di
Seattle e del dopo Seattle. Anzi, con numerosi richiami alla realtà attuale
delle organizzazioni operaie, quelle radici vengono fatte diventare tronco,
indispensabile a sostenere la ricca chioma di movimenti diversi che
globalmente stanno occupando la scena. E vengono sottolineati i rapporti e
qualche volta i legami che in questi ultimi anni hanno fatto intrecciare la
vicenda operaia con quella del "popolo di Seattle". Il nuovo
internazionalismo solidale del sindacato statunitense, che era presente in
massa a Seattle nel novembre 1999, viene fatto entrare a pieno titolo nel
discorso sul presente e sul futuro del movimento per una "globalizzazione
dal basso". Nelle prospettive del dopo-Seattle, tanto le novità pure e
semplici, quanto le svolte all'interno di lunghe continuità come quelle
sindacali vanno valorizzate con cura. Per quanto ci riguarda, mi sembra
indispensabile sottolineare la necessità del coinvolgimento strategico di
tutto il sindacalismo italiano (e non solo della Fiom) nel movimento
anti-globalizzazione, a partire da Genova e in costante ricerca di
collegamenti con le organizzazione operaie di altri paesi.
Il concetto di "globalizzazione dal basso", e quello speculare di
"globalizzazione dall'alto", suonano invece generici; sono come sfocati.
Credo che Brecher & C. li abbiano adottati come concetti d'uso generale, in
nome di una specie di compromesso politico. Cercherò di spiegare e
spiegarmi. Non è che gli autori non siano chiari. Le prime righe del libro
sono: "Le imprese, i mercati, gli investitori e le classi dirigenti stanno
diventando globali. La globalizzazione, così come viene spesso celebrata da
economisti, esperti, capi d'azienda e dai leader delle nazioni ricche, è
attualmente una 'globalizzazione dall'alto', cioè una realtà creata a loro
immagine e somiglianza". Questa è la globalizzazione capitalistica, cioè
l'affermazione dell'egemonia mondiale capitalistica; un'egemonia che si
articola, a seconda dei luoghi e delle necessità, lungo tutto il ventaglio
che va dal dominio alla cooptazione, sia nei rapporti tra stati e tra
classi dominanti, sia nei confronti delle classi e dei gruppi subalterni e
dominati.
L'iniziativa "dal basso" nei confronti di tale dominio capitalistico non
può che essere anticapitalistica. Ma i termini, oggi, vanno usati con molta
cautela: questa è l'implicazione decisiva nel discorso di Brecher. Non solo
perché "basso" non vuol più dire soltanto classe operaia. Il movimento
attuale è un movimento estremamente composito, in gran parte di classe
media; molte delle componenti attive al suo interno non provengono dai
movimenti di protesta degli anni Sessanta o dai partiti della sinistra, o
dai movimenti sindacali. L'arcipelago dell'ambientalismo, il mondo del
volontariato e delle Organizzazioni non governative, spesso legati ad
ancore confessionali, sono stati e sono parti integranti del movimento
contro la globalizzazione, e tuttavia non hanno quasi mai patrimoni teorici
"classisti" alle spalle. I concetti di solidarietà cui fanno riferimento
non è quello delle tradizioni operaie e sindacali.
Da qui le cautele terminologiche e il taglio non adamantino con cui le
"cose" vengono chiamate nel libro. Inoltre, sembra essere la natura stessa
del volume ad imporlo. Infatti, diversamente da Contro il capitale globale
(pubblicato nel 1996 da Feltrinelli, con un titolo italiano più diretto
dell'inglese, Global Village or Global Pillage), che era un'analisi della
globalizzazione capitalistica, delle sue strutture e istituzioni e delle
strategie di resistenza possibili, il libro attuale è soprattutto un
tentativo di distillare dal dopo-Seattle gli elementi per un programma
d'azione il più condiviso possibile. Quello di Brecher, Costello e Smith è
quasi un manuale per il militante globale, oltre che un contributo
generoso: non molti, finora, si sono sentiti di fare proposte
programmatiche complessive, prendendo di petto la "moltitudine di conflitti
nazionali, etnici, religiosi, politici ed economici" che preesistevano a
questo movimento e che sono entrati in esso. Eppure, se è vero che il
livello delle contraddizioni presenti al suo interno è altissimo, è anche
vero che da queste bisogna partire per costruire un qualcosa di comune. E
la necessità di contrapporre un movimento antagonistico globale al capitale
globale è impellente.
Riescono, Brecher & C., nel loro intento? Se si ammette la possibilità di
adottare una "strategia lillipuziana" (la definizione era già presente nel
Capitale globale) anche sul piano programmatico, sì. Se si ammette che
l'eterogeneità del movimento possa imporre una certa ecumenicità dello
sguardo, sì. Non potrà essere sempre così: dal movimento stesso, dalle
analisi politiche e dai tentativi di elaborazione programmatica verranno
fuori altre proposte; qualcosa cadrà e qualcosa d'altro emergerà; la
dialettica stessa con l'antagonista globale distillerà nuove consapevolezze
e nuovi obiettivi... speriamo. Per ora, questo libro si pone come una guida
necessaria alla lettura della fase attuale della globalizzazione
capitalistica in funzione di un pensare e un agire politico-organizzativo
di cui si era quasi persa traccia negli ultimi due decenni. Non è poco.