Come uscire dallo stallo dell'Aja



Come uscire dallo stallo dell'Aja
Il protocollo di Kyoto è come un formaggio svizzero: non si sa se siano più
grossi i buchi o il formaggio. Una proposta per l'Europa
WOLFGANG SACHS
IL MANIFESTO

Di rado l'Unione europea ha intrapreso tanti sforzi per isolare
diplomaticamente gli Usa. Il tentativo più recente ha visto una delegazione,
guidata dal commissario europeo all'ambiente Wallström e dal ministro
dell'ambiente belga (il cui paese presiede in questo semestre l'Europa)
tentare di convincere l'Australia e il Giappone a ratificare il protocollo
di Kyoto anche in assenza degli Usa. Dal 16 al 27 luglio Bonn ospita il
seguito dei lavori della fallita conferenza sul clima dell'Aja. In questa
occasione, l'Europa spera ancora di salvare Kyoto. Ma nessuno sa
precisamente cosa potrà essere davvero salvato. Perché il Protocollo è come
un formaggio svizzero: nessuno può dire se sono più grossi i buchi o il
formaggio. Certo, nel 1997 le nazioni industrializzate si sono obbligate a
ridurre almeno del 5% rispetto al '90 le proprie emissioni inquinanti. Ma
allo stesso tempo questa concertazione è stata "bucata" da talmente tante
vie d'uscita che l'obbligo non è più distinguibile dalle scappatoie. Il
Protocollo di Kyoto è un'opera incompleta perché così è stato voluto.
Fin dall'inizio gli Stati uniti, appoggiati dall'Australia e dal Canada,
hanno meditato su come rimare "amici del clima" senza mettere fine
all'abbondanza di energia nei loro paesi. Gli Stati uniti sono i più grossi
utilizzatori del pianeta e i più grossi produttori di energia fossile. In
questa dipendenza sta il motivo per cui la delegazione negoziale degli Usa
aveva lo scopo di fare politica sul clima, senza però ridurre le emissioni
di gas serra nel proprio paese. Per quasi dieci anni la diplomazia
statunitense è rimasta fedele a Rio: non alla convenzione sul clima, ma alla
dichiarazione di Bush senior: l'american way of life non è trattabile.


Le scappatoie di Kyoto
La prima scappatoia era il fatto che oltre all'anidride carbonica (Co2)
anche molti altri gas sono responsabili per il riscaldamento dell'atmosfera.
Per esempio il metano e il gas esilarante, che non vengono fuori dalle
ciminiere, dai camini e tubi di scarico, ma che si trovano nell'agricutura e
nell'allevamento di bestiame. Il protocollo di Kyoto permette di diminuire
l'emissione di altri gas al posto di Co2. In questo modo il coltivatore di
riso in Thailandia c'entra quanto l'allevatore di maiali in Danimarca, anche
se le loro emissioni di metano sono poco responsabili del riscaldamento del
clima. Storicamente il cambiamento del clima non è provocato dalle emissioni
per esigenze alimentari, dato che il salto qualitativo è nella combustione
di riserve fossili: come si possono mettere sullo stesso piano l'emissione
di metano dalle risiere thailandesi e gli scarichi di biossido di carbonio
dai tubi di scarico dei Landrover americani?
Una seconda scappatoia si apre grazie alle caratteristiche del biossido di
carbonio, che durante la sua circolazione nella sfera biologica aiuta lo
sviluppo della vegetazione. Niente più evidente per i diplomatici che
vogliono proteggere la loro economia, che comprendere nelle loro trattative
accanto alle fonti di Co2 anche i modi per ridurre quote di Co2. In due
parole: più foresta invece di meno Co2. Così chi aumenta la capacità di
immagazzinamento della terra diventa un ecologista tanto quanto chi
diminuisce le emissioni.
Nell'ultima notte della maratona di trattative di Kyoto i delegati spossati
hanno votato che il rimboschimento sarebbe stato inserito come voce positiva
nel Co2-budget dei paesi. Ma rimanevano questioni del tipo: cos'è una
foresta, quanto Co2 c'è veramente immagazzinato, per quanto tempo e sotto
quali condizioni, cosa significa la coltivazione di piante, e quanto se ne
potrebbe mettere in conto. Si giocava con numeri e ipotesi tanto arbitrari
che la Ue ha tirato il freno a L'Aja e ha rifiutato l'accettazione. Con
questo sembrava finito il piano degli Stati uniti (supportato da Canada e
Giappone) di rendere una parte della biosfera una discarica per assorbire
Co2, e in questo modo prolungare ancora la vita di un modello d'industria
fossile.
Una terza classe di scappatoie nasceva dalla strategia di diminuire i gas
serra non solo nel proprio paese ma anche al di là delle proprie frontiere
nell'Est e Sud del mondo e poi farsi accreditare quest'investimento nel
proprio bilancio. "Flessibilità geografica" è la parola d'ordine, che unisce
strumenti come commercio di emissioni, joint implementation, clean
development mechanism. Se si deve investire capitale, questa la convinzione
degli Stati uniti, meglio farlo là dove costa poco - nell'Est ex-comunista e
nell'emisfero meridionale. Però un tale scambio avviene a scapito della
protezione del clima nel proprio paese: le nazioni industrializzate
sarebbero liberate dalla pressione per la ristrutturazione delle loro
economie verso un modello post-fossile, senza il quale non si può parlare di
sviluppo sostenibile. Quando gli Stati uniti hanno rifiutato all'Aja una
limitazione quantificata di flessibilità geografica, la Ue si è accorta che
si era passato il Rubicone. Così gli europei hanno lasciato fallire L'Aja
per salvare l'integrità del protocollo di Kyoto.

Sono stati più che altro questi "meccanismi di flessibilità" che hanno
portato le trattative sul clima nella trappola della complessità. Come in
altri tempi nelle trattative sul disarmo: nessuna traccia di un risultato
chiaro. Dando un'occhiata più profonda si capisce che anche le quote
quantificate di riduzione dei gas sono grandezze fittizie, sotterrate da
trattative aggiunte, svalutate da strategie di aggiramento, e insomma molto
complicate per metodi di calcolo poco trasparenti. Sotto la parete di nebbia
delle trattative il riarmo continuava. Se tutti i meccanismi di flessibilità
venissero sfruttati fino in fondo, le emissioni negli Stati uniti, Canada e
Australia aumenterebbero fino al 20%, senza trasgredire di una parola il
protocollo di Kyoto. Se si considera poi che tutto il Sud del mondo non è
ancora obbligato a nessuna limitazione, ecco il paradosso, che globalmente
le emissioni di anidride carbonica potrebbero aumentare ancora - nonostante
Kyoto.


Colombo e il clima
Il presidente Bush insiste su una partecipazione dei paesi in via di
sviluppo alle misure di protezione del clima. Ha ragione considerando la
forte crescita delle emissioni nei paesi emergenti, almeno in linea di
principio: c'è il rischio che prima o poi le emissioni del Sud annientino le
riduzioni del Nord. La protezione del clima mondiale dipende anche dalla
cooperazione del Sud. Ma qui arriviamo, nella politica del clima, a
un'ingiustizia iniziata con Colombo: il Sud vede un'altra volta negato il
suo diritto all'eguaglianza, si rifiuta e chiede un trattimento giusto. Al
di là di Kyoto la disparità fra Nord e Sud sarà il vero ostacolo delle
trattative sul clima.
Chi può prendere quale parte dello spazio ambientale consentito alle
emissioni? E' questa la domanda chiave, che determinerà le trattative al di
là di Kyoto. Alla fine un accordo corretto e a lungo termine è partire dal
principio che tutti hanno lo stesso diritto di servirsi dell'atmosfera.
Perché l'atmosfera è un bene comune, su cui nessuno può rivendicare diritti
di proprietà, sebbene ciascuno ne partecipi. Con l'obiettivo di eguali
diritti si può cominciare a trovare una quota per ogni paese industriale che
diminuisca le emissioni attraverso decenni finché non abbiano raggiunto un
livello globalmente sopportabile. Allo stesso tempo i paesi in via di
sviluppo si dovrebbero orientare su un sentiero che permetta sì l'aumento di
emissioni, ma solo fino al livello globalmente sopportabile.
Certo, non c'è ragione per il Sud di rimanere spettatore laterale e
aspettare mentre il Nord si accorda. Perché diluvi e aridità, cambiamenti
della vegetazione e del ciclo dell'acqua, la malaria e la febbre di dengue
sono più estesi nel Sud del mondo e colpiscono lì i più fragili, quel terzo
della popolazione globale che vive direttamente dalla natura. Pescatori in
Kerala, allevatori di bestiame in Tanzania, coltivatori di riso in
Bangladesh sono minacciati nel loro sostentamento, spesso nella loro
sopravivenza. Ancora una volta siamo in presenza di una distruzione
coloniale, questa volta telecomandata dalla chimica dell'atmosfera. In
quest'ottica i negoziati sui diritti di emissioni sembrano un piccolo
litigio all'interno della classe media globale per avere più diritti
nell'ambito di un'economia di preda. Fissate sulla battaglia del potere
economico e politico le élite del Nord e del Sud sembrano pronte ad
abbandonare al loro destino parecchie economie di sovvravivenza nella parte
povera del mondo. Perciò nel futuro i paesi del Sud devono chiedere di più
nelle trattative sul clima, se vogliono tutelare il diritto alla vita dei
propri cittadini.

Quanto vale l'Europa?
Tutti guardano l'Europa. Ma l'Europa non può agire da sola. Ha bisogno della
ratifica di Russia e Giappone per raggiungere per il protocollo un quorum,
che sia vincolante nel diritto delle genti. Se la ratifica può essere
raggiunta solo con compromessi pigri, sarebbe meglio lasciar stare il
progetto di un accordo globale e universalmente vincolante sul clima.
L'Europa potrebbe invece concentrarsi su un'alleanza con il Sud sul clima.
Perché non introdurre nella politica del clima, analogemente al processo
dell'unificazione europea, diverse velocità? Così come la dinamica europea è
stata messa in moto negli anni '50 dal gruppo centrale dei Sei, anche adesso
un'alleanza di paesi selezionati portebbe diventare il motore di un regime
ecologico e giusto del clima nel futuro. E così come i Sei gettavano un
ponte sul fossato tra vincitori e perdenti della guerra, anche adesso una
tale alleanza potrebbe gettare una ponte sula crepa fra il Nord e il Sud.
Un tale gruppo di pionieri potrebbe costruire un'architettura della
solidarietà, che si fondi su tre elementi: 1) l'impegno a ridurre le
emissioni a un livello di persistenza; 2) perseguire di una convergenza a
lungo termine di parifocazione delle emissioni pro-capite; 3) accompagnare
questo accordo con una collaborazione stretta, che includa risarcimenti
finanziari. Si potrebbe iniziare una sorta di "Commonwealth ecologico", che
operi come battistrada sulla via dello sviluppo sostenibile e che sia sempre
aperto a nuovi ingressi. Una tale iniziativa ha bisogno di una leadership
decisa. Ma non potrebbe darsi che la vocazione dell'Europa nel ventunesimo
secolo non sia né nell'economia né nel militare, ma in un'ecologia
cosmopolita?

Wolfgang Sachs, scienziato, dirige le ricerche del Wuppertal Institut. E'
autore del "Dizionario dello sviluppo" (ed. Gruppo Abele) e di "Futuro
sostenibile" (Emi)
(Traduzione di Wibke Bergemann)