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LAVORARE LA TERRA
- Subject: LAVORARE LA TERRA
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 12 Apr 2001 12:18:42 +0200
DA BOILER DI GIOVEDI 5 APRILE 2001 Lavorare la terra di Brian Halweil NEL DICIOTTESIMO E DICIANNOVESIMO SECOLO, i contadini vivevano in cattive condizioni igienico-sanitarie, ma godevano di guadagni generalmente stabili e di legami sociali fortissimi. Le fattorie diversificate producevano una varietà di beni primi o lavorati che si potevano vendere al mercato locale. I costi di produzione erano molto più bassi, in quanto gran parte di ciò che serviva era “fatto in casa”. I semi erano quelli messi da parte dal raccolto dell’anno precedente, i fertilizzanti venivano dalle mucche e dai maiali della fattoria e la diversificazione delle specie piantate (che in genere comprendevano tanti tipi di cereali, tuberi, verdure, erbe aromatiche, fiori e frutta, tanto per l’uso domestico che per la vendita) funzionava come un efficace controllo contro i parassiti. Ma secondo l’agronomo dello Iowa Mike Duffy le cose sono cambiate, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo. «Il momento di più netto cambiamento è stato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale», spiega, «con la diffusa introduzione dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi sintetici e un’incredibile riduzione del numero degli agricoltori». Nel dopoguerra oltre alla crescente meccanizzazione ebbe inizio la tendenza a svolgere al di fuori della fattoria parti del lavoro che i coltivatori avevano in precedenza fatto per proprio conto, dalla preparazione dei fertilizzanti alla pulizia e imballaggio dei raccolti. Inizialmente questa tendenza fu salutata come una piacevole comodità, ma ebbe poi un effetto boomerang: con l’aumento del prodotto, il prezzo iniziò a crollare. Finché la maggior parte degli affari dell’industria alimentare non si è decisamente spostata dalle fattorie alle fasi di lavorazione che gli agricoltori non controllano più, come imballaggio, distribuzione o promozione. Negli Stati Uniti la percentuale di un dollaro speso dal consumatore per l’acquisto di cibo che va nelle tasche dei coltivatori è passato da 40 centesimi nel 1910 a 7 centesimi nel 1977, mentre gli operatori che si occupano dei servizi aggiuntivi (come macchinari, prodotti chimici e semi) o alla commercializzazione (lavorazione, distribuzione, pubblicità e commercializzazione) hanno continuato ad espandersi. Di un dollaro speso per comprare un filone di pane solo 6 centesimi vanno all’agricoltore che ha coltivato il grano necessario per farlo. Questo significa, in altri termini, che quando andate a comprare il pane pagate la busta che lo contiene quanto il pane stesso. Dunque proprio quando le fattorie degli Stati Uniti sono diventate più meccanizzate e produttive si è attivato un circolo di autodistruzione: la sovrapproduzione e il calo dei prezzi riducono i margini di guadagno degli agricoltori, costretti così ad aumentare ulteriormente la produzione facendo ricorso alla tecnologia specializzata. Insomma, sebbene il loro lavoro abbia assunto un aspetto molto moderno, i coltivatori sono diventati sempre meno padroni del proprio lavoro e della propria terra. In una tipica fattoria dello Iowa il margine di profitto del coltivatore è passato dal 35 per cento nel 1950 al 9 per cento oggi. Per produrre lo stesso reddito questa fattoria deve quindi essere quattro volte più grande di come era nel Cinquanta. Ed è precisamente questo ciò che è accaduto in gran parte dei paesi industrializzati: poche fattorie su più ampie estensioni di terreno. Gli agricoltori sono stati obbligati a comprare il terreno del vicino o a vendere il proprio per cercare altre fonti di sostentamento. Per interrompere questo circolo vizioso bisognerebbe riportare parte delle forniture aggiuntive e della lavorazione post-raccolto – e i relativi introiti – alle fattorie. Ma un modello di agricoltura autosufficiente è radicalmente contrario agli interessi delle industrie che ricavano ottimi profitti dalle forniture aggiuntive e dalla lavorazione. E considerando che queste industrie hanno molto più potere politico di quanto ne abbiano gli agricoltori, è davvero improbabile che questi ultimi riescano a emanciparsi dalle loro condizioni sempre più subordinate. Gli agricoltori continuano a ricevere il messaggio che l’unico modo per salvarsi è ingrandirsi. «Fatti grande o fatti da parte» è lo slogan di questa concezione, basata sull’idea che ci sia un rapporto inversamente proporzionale fra le dimensioni di un’azienda agricola e i suoi costi di produzione. Per alcuni aspetti questa idea è indubbiamente vera. Allargando il proprio podere un coltivatore può distribuire il costo di un trattore su un’estensione di territorio maggiore, tanto per fare un esempio. Dimensioni maggiori significano anche possibilità di risparmio nell’acquisto dei prodotti necessari alla coltivazione o nella trattativa sui prestiti, che si rivela uno strumento sempre più importante via via che nuove sofisticate tecnologie, come le telerilevazioni satellitari, indicano un approccio all’agricoltura che sempre più richiede forti investimenti di capitali. Ma queste economie di scala tendono a livellarsi. I dati per un’ampia gamma di varietà agricole prodotte negli Stati Uniti dimostrano che i minori costi di produzione sono generalmente quelli di aziende molto più piccole della media attuale. Le fattorie più grandi sono in grado di tollerare margini di guadagno minori, ma mentre possono vendere i loro prodotti a costi minori, se vi sono costretti (come in effetti sono dalle aziende di lavorazione che comprano loro i prodotti) non possono produrre a costi minori. Insomma, se è vero che una gigantesca azienda agricola gode di un vantaggio su una più piccola, è altrettanto vero che di questo vantaggio beneficia soprattutto l’azienda di lavorazione piuttosto che l’agricoltore, la comunità agricola o, tantomeno, l’ambiente naturale.
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