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CHE FINE HANNO FATTO I CONTADINI?
- Subject: CHE FINE HANNO FATTO I CONTADINI?
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 11 Apr 2001 11:42:16 +0200
DA BOILER.IT DI GIOVEDI 5 APRILE 2001 Che fine hanno fatto i contadini? di Brian Halweil DAL 1992 IL GENIO MILITARE degli Stati Uniti lavora su un sistema di chiuse e di dighe sul Mississippi . Questo fiume è il principale mezzo di trasporto per introdurre la soia sul mercato globale, al ritmo medio di 35mila tonnellate al giorno. Il progetto sviluppato dal Genio porterebbe sulle sponde del fiume un milione e 200 mila tonnellate di cemento per raddoppiare le dimensioni di molte decine di chiuse. Si prevede inoltre l’espansione di alcune dighe a briglia che restringono il corso del fiume per facilitare il passaggio dei carichi di soia e per impedire ai sedimenti di depositarsi. Attualmente, un immenso sistema di drenaggio “succhia” ogni anno 85 milioni di metri cubi di sabbia e di fango dal letto e dalle sponde del fiume. Sono stati considerati vari progetti per ottimizzare ulteriormente la navigabilità del Mississippi, il più incisivo dei quali comporterebbe, secondo le stime, una riduzione dei costi di trasporto della soia fra i 4 e gli 8 centesimi di dollaro a bushel (unità di misura del volume per i cereali pari, negli Stati Uniti, a 35,24 litri). Ma alcuni esperti indipendenti sostengono che un risultato del genere è impossibile. Nel frattempo i cinque governi dei Paesi sudamericani che sono toccati dal bacino del Rio de La Plata (Bolivia, Brasile, Paraguay, Argentina e Uruguay), hanno annunciato un progetto per asportare 13 milioni di metri cubi di sabbia, fango e roccia da 233 tratti del fiume Paraguay-Paranà. Si tratta di una quantità di materiale che riempirebbe a pieno carico una colonna di tir lunga 10mila miglia (più di 16mila chilometri). Il progetto prevede di rettificare le anse naturali del fiume in almeno sette punti, di costruire dozzine di chiuse e un gigantesco porto nel cuore del Pantanal, la principale zona umida del mondo.Il Paraguay-Paraná attraversa cuore produttivo della soia del Brasile, inferiore, per produzione e esportazioni, solo agli Stati Uniti. Secondo le dichiarazioni dello Stato brasiliano del Mato Grosso, questa “idrovia” incrementerà ulteriormente lo slancio delle capacità di esportazione di soia della regione. In entrambi i casi, i finanziatori dei progetti sostengono che aumentare la capacità di trasporto di questi fiumi serva a migliorare la competitività e a salvare gli agricoltori (statunitensi o brasiliani, a secondo di quali siano gli agricoltori da convincere) dalla peggiore crisi finanziaria dai tempi della Grande depressione. Chris Brescia, presidente della Midwest River Coalition 2000 (un’organizzazione di spedizionieri che è il principale investitore per il progetto sul Mississippi) dichiara che «Prima porteremo a termine la nuova infrastruttura per l’idrovia, prima le famiglie dei nostri agricoltori ne potranno beneficiare». Degli investitori hanno addirittura dichiarato che questi progetti servono a nutrire il mondo (in quanto la soia arriverebbe più facilmente alle masse affamate) e a salvare l’ambiente (in quanto le suddette masse, sfamate, non avrebbero più bisogno di tagliare la foresta pluviale per produrre i beni di loro necessità). Non è stato invece menzionato un fatto molto più evidente e certo, e cioè che i coltivatori statunitensi diventeranno più competitivi rispetto a quelli brasiliani, e viceversa. Le due regioni si troveranno contrapposte in una competizione per l’aumento di produttività, che inevitabilmente comporterà un esaurimento del suolo e vanificherà qualsiasi tipo di investimento a lungo termine. I coltivatori dello Iowa riceveranno incentivi per arare i campi più vicini al fiume, mentre quelli brasiliani saranno spinti a penetrare più a fondo nella savana, accelerando, in entrambi i casi, l’erosione del suolo. Il flusso di soia aumenterà sensibilmente e il suo prezzo si abbasserà. Con la progressiva riduzione del margine di guadagno per tonnellata, gli agricoltori sono costretti a farsi “inghiottire” dalle grandi multinazionali. Ma allora perché gli investitori sostengono che questi progetti vadano soprattutto a beneficio degli agricoltori? Perché gli investitori sono le imprese di stoccaggio, di trasporto o di lavorazione della materia prima, che hanno tutto l’interesse che il prezzo della soia crolli in quanto sono proprio loro che la devono acquistare. Archer Daniels Midland (Adm), Cargill e Bunge sono fra le più grandi aziende di lavorazione e commercializzazione della soia coltivata lungo il corso di entrambi i fiumi. Più le politiche economiche degli Stati Uniti e del Brasile lavorano per abbassare i prezzi della soia, più profitti avranno questi tre colossi finanziari. Nel frattempo, un altro gruppo di aziende controlla il mercato delle sementi geneticamente modificate, dei fertilizzanti e degli erbicidi, imponendo agli agricoltori un regime di oligopolio e di prezzi alti sia a nord che a sud dell’equatore. Valutando questa operazione di dragaggio e riconfigurazione di due fra i maggiori bacini fluviali del mondo, bisogna dunque ricordare che non si tratta di attività di imprese private che operano all’interno delle loro proprietà. Sono proposte di opere pubbliche da realizzare con enormi quantità di denaro pubblico. Il vero scopo non è né quello di migliorare il tenore di vita delle famiglie degli agricoltori né, tantomeno, di sfamare il mondo, bensì di sfruttare i sentimenti di un pubblico poco informato sulle necessità degli agricoltori o sulle masse affamate per favorire degli interessi privati. L’aspetto più vergognoso della questione è che oltre a sottoporre gli agricoltori ad attriti e conflitti gladiatorii, questi progetti avranno con ogni probabilità una serie di ricadute gravissime dal punto di vista economico, sociale ed ecologico. Secondo Mike Davis del Minnesota Department of Natural Resources, l’effetto più immediato ed evidente degli interventi sarebbe un aumento del volume del mercato lungo i fiumi in questione che accelererà una serie di fenomeni secondari già in atto da tempo. L’ecosistema fluviale del Mississippi comprende piante acquatiche con radici, come il stiancia, la saggittaria o il sedano selvatico. Un aumento del traffico fluviale solleverà molto più sedimento, riducendo la quantità di luce solare che penetra nelle acque e, di conseguenza, la profondità fino alla quale le piante possono sopravvivere. Già dagli anni Settanta il numero di specie di piante acquatiche rilevate in alcuni punti del fiume è passato da 23 a quasi la metà, in quanto molte non sono riuscite a sopravvivere nelle acque più torbide. «Il fiume è arrivato a un punto di svolta ecologico», avverte Davis: «Questa riduzione di diversità delle piante ha scatenato un declino nelle comunità di vertebrati, pesci, molluschi e uccelli che dipendono dalla loro diversità». Il 18 maggio 2000 lo U.S. Fish and Wildlife Service ha pubblicato uno studio che dimostra che il progetto del Genio militare metterebbe in situazione di rischio 300 specie di uccelli migratori e 127 specie di pesci nel bacino idrografico del Mississippi, alcune delle quali potrebbero arrivare all’estinzione. «La sterna nana, lo storione pallido e altre specie che si sono evolute abituandosi ai flussi e riflussi, ai banchi sabbiosi e ai punti più profondi del fiume, vengono progressivamente eliminate. Per aumentare la capacità di trasporto del fiume se ne compromette irreversibilmente la diversità naturale», aggiunge Davis. La situazione del progetto Hidrovía sembra simile. Mark Robbins, ornitologo del Museo di storia naturale della University of Kansas, lo definisce «Un passaggio decisivo per creare nel Pantanal e nelle grandi pianure del Cerrado, nel Brasile meridionale, uno scenario di distruzione simile a quello di Everglades, in Florida». Il Paraguay-Paraná alimenta infatti la zona umida del Pantanal, uno degli habitat più diversificati del pianeta, con le sue popolazioni di cicogne arboree, jabirus e oltre 650 altre specie di uccelli, più di 400 specie di pesci e moltissime altre specie, meno studiate, di piante, molluschi e organismi palustri. Dragando il fiume e costruendo delle sponde per incanalare le acque della zona umida circostante nel percorso navigabile si distrugge l’habitat di nidificazione degli uccelli e di deposizione di uova dei pesci, danneggiando fra l’altro anche le comunità indigene o tradizionali che vivono di queste risorse. Nel frattempo, le monocolture di soia a intenso regime di erbicidi, praticato in aziende agricole tanto grandi da superare addirittura le dimensioni delle monocolture più estese del Midwest degli Stati Uniti, stanno prendendo rapidamente il posto delle praterie del delicato ecosistema del Cerrado. Le profonde arature e la periodica assenza di terreno di copertura che queste coltivazioni provocano un’erosione del suolo al ritmo di 100 milioni di tonnellate ogni anno. Robbins nota che «Rispetto al Mississippi, questo sistema fluviale e le praterie circostanti sono molto più diversificati e sono stati, per il momento, meno compromessi. La posta in gioco è quindi decisamente maggiore». I sostenitori di un progetto tanto distruttivo ritengono che questo sia comunque giustificato da un approccio alle scelte economiche basato sull’efficienza. Il ragionamento è insomma simile a quello che porta a produrre energia bruciando carbone. Se si ignora l’impatto a lungo termine sulla qualità dell’aria e sulla stabilità del clima, le centrali a carbone sono indubbiamente molto efficienti. Le grandi aziende agricole sembrano più efficienti di quelle piccole se non si considerano costi gravissimi, come la perdita della diversità genetica su cui la stessa agricoltura è basata, l’inquinamento causato dagli additivi chimici e lo smembramento delle culture e degli insediamenti locali. Bisogna ricordare che l’effetto combinato fra l’abbandono delle piccole fattorie indipendenti e lo strapotere delle gigantesche multinazionali del cibo costituisce un grave problema non soltanto perché abbiamo a cuore le sorti dei contadini e degli agricoltori, ma perché abbiamo bisogno di mangiare. Una specie a rischio di Brian Halweil NEI PAESI INDUSTRIALIZZATI lo stile di vita dell’agricoltore è qualcosa che non si riesce più facilmente a immaginare. Io per esempio sono nato nella Dutchess County, una zona dello stato di New York in cui si producevano mele e latticini, ma da quando avevo cinque anni ho trascorso la maggior parte del mio tempo a New York City e nel frattempo molte fattorie della Dutchess County hanno chiuso. Chi si procura il cibo sui banchi dei supermercati o attraverso gli sportellini dei “drive-trough” (i supermercati per automobilisti), non può capire quanto sia importante la sopravvivenza delle comunità rurali. Nel mondo industrializzato – dove i centri rurali vengono sempre più abbandonati – e nel mondo in via di sviluppo – dove l’aumento di popolazione continua a incrementare il numero dei coltivatori e ogni generazione eredita appezzamenti di terreno più piccoli – guadagnarsi da vivere facendo gli agricoltori è un impresa sempre più ardua. La povertà rurale costringe una crescente massa di persone ad abbandonare l’agricoltura intesa come occupazione principale, oppure a lasciare del tutto la campagna. La situazione è preoccupante, soprattutto se si considera che gli agricoltori producono forse l’unico bene senza il quale il genere umano non può sopravvivere. Dal 1950 il numero di persone impiegate nell’agricoltura è drasticamente diminuito in tutte le nazioni industrializzate, in alcune regioni con percentuali che hanno raggiunto l’80 per cento. Osservando i numeri viene quasi da chiedersi se questa categoria non sia stata colpita da un misterioso virus: In Giappone, oltre la metà degli agricoltori sono sopra i 65 anni di età; negli Stati Uniti gli agricoltori che hanno superato i 65 anni sono tre volte più numerosi di quelli che hanno meno di 35 anni (e quando vanno in pensione o muoiono lasciano generalmente la loro fattoria in eredità a figli che vivono in città e non sono minimamente interessati alla vita nei campi). In Nuova Zelanda, le autorità sostengono che nei prossimi dieci o quindici anni spariranno all’incirca 6 mila fattorie di produzione di prodotti caseari, con una riduzione di circa il 40 per cento. Si prevede che in Polonia 1milione e 800 mila fattorie spariranno quando il Paese sarà assorbito nell’Unione Europea, con una riduzione sul numero totale del 90 per cento. Nei prossimi dieci anni in Svezia saranno dismesse circa il 50 per cento delle fattorie attualmente operanti. Nelle Filippine, Oxfam stima che nei prossimi anni il numero delle fattorie a gestione familiare nella regione produttrice di grano di Mindanao scenderà di circa 500 mila, con una perdita del 50 per cento. Negli Stati Uniti, dove ai tempi della rivoluzione americana la stragrande maggioranza della popolazione era dedita all’agricoltura, ci sono meno agricoltori (sotto l’1 per cento della popolazione) che detenuti negli istituti penali. Negli stati del Nebraska e dello Iowa, si prevede che solo nei prossimi due anni fra un quinto e un terzo degli agricoltori smetteranno di lavorare. Ovviamente la diminuzione degli agricoltori nei paesi industrializzati non significa che il settore abbia perso importanza. Il mondo continua a mangiare (ogni anno ci sono 80 milioni di bocche da sfamare in più rispetto all’anno precedente) e la riduzione degli agricoltori è indice di aziende agricole più ampie e di maggiori concentrazioni di proprietà. Ma il fenomeno riguarda soprattutto nord America, Europa ed estremo oriente: a livello mondiale, metà della popolazione continua a vivere dalla terra. Nell’Africa sub-sahariana e in Asia del sud la percentuale supera il 70 per cento. In queste regioni l’agricoltura rappresenta, in media, circa la metà dell’attività economica complessiva. Si potrebbe a questo punto pensare che la riduzione degli agricoltori sia un fenomeno innocuo, anzi forse un fatto positivo, soprattutto per le nazioni meno sviluppate che non hanno ancora sperimentato la modernizzazione che sposta le persone dalle aree agricole interne verso le economie più avanzate delle città. Nei due secoli passati la riduzione del numero degli agricoltori è stata in effetti considerata come un segno di progresso. Il passaggio dai movimenti lenti della zappa tenuta dalle mani di uomini e donne ai trattori azionati da potentissimi motori diesel, o dalle piccole fattorie vecchio stile alle grandi aziende agricole meccanizzate e con processi di tipo industriale, viene considerato come la garanzia di una disponibilità di cibo più abbondante ed economico. La nostra società superurbanizzata considera la vita rurale, soprattutto quella delle piccole fattorie a gestione familiare, come qualcosa di noioso e arretrato, adatto solo a quelli che indossano le tute da lavoro, vanno a letto presto e sono insomma lontanissimi dagli stili di vita sofisticati della città. La vita urbana offre un’ampia gamma di opportunità, attrazioni e speranze create spesso dalle campagne pubblicitarie, che attraggono molte famiglie di agricoltori. Ma la vita di città può facilmente rivelarsi una delusione, in quanto chi lascia la campagna va spesso a finire in quartieri superaffollati dove disoccupazione e malattie sono la norma e dove in definitiva si vengono a trovare in condizioni molto peggiori di quelle che hanno lasciato. A volte gli agricoltori non sono tanto attratti dalla città quanto piuttosto allontanati dalla campagna per una serie di alterazioni strutturali del funzionamento della catena alimentare. Bob Long, un fattore della McPherson County, nel Nebraska, ha dichiarato in un recente articolo del New York Times che lasciare la sua fattoria al figlio verrebbe probabilmente considerato come un “abuso sull’infanzia”. Finché le città saranno sottoposte alle pressioni della crescita demografica (cosa che con ogni probabilità continuerà ad accadere almeno per i prossimi tre o quattro decenni) molte persone continueranno a vivere nelle zone rurali. Anche negli Stati Uniti o in Europa, circa il 25 per cento della popolazione (257 milioni di persone) vivono nelle aree rurali. Nel frattempo per i 3 miliardi di africani, asiatici e latino-americani che restano in campagna (e che ci resteranno certamente anche nel prossimo futuro), l’emarginazione degli agricoltori ha creato un circolo vizioso con scarsi risultati dal punto di vista dell’istruzione, aumenti della mortalità infantile e più gravi turbe mentali.
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