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Carabinieri: "Ritiriamoci" --- La CIA: "Potremmo perdere"
Da: il "Giornale dei carabinieri":
Sono stati uccisi per la guerra di Bush. Ora basta
Nelle caserme dell'Arma non solo si è pianto di dolore e di commozione, ma
anche di rabbia perchè non si doveva aspettare la strage, non bisognava
mandare i carabinieri in Iraq per partecipare a una guerra americana. Il
comando generale dei carabinieri ha fatto sapere che sono arrivate migliaia
di attestazioni di solidarietà, ma Il Giornale dei carabinieri, letto da
trentamila carabinieri, ha espresso anche il sentimento di angoscia per un
sacrificio imposto da una guerra insensata. Dice l'editoriale firmato dal
maresciallo Ernesto Pallotta: «Non dovevamo aspettare i morti per meditare
sull'impegno italiano in Iraq. Contrariamente a quanto affermato da Bush, i
fatti dimostrano che in Iraq vi è ancora la guerra. L'Italia non ha avuto un
mandato parlamentare per partecipare a un conflitto armato. Di fronte ai
morti diciamo basta e l'Italia deve allinearsi ai comportamenti assunti
dalla maggior parte dei Paesi europei». C'è anche una dichiarazione del
maresciallo Formiga, segretario generale del sindacato carabinieri in
congedo: «Ci chiediamo con dolore perché i carabinieri devono morire per
terrorismo all'estero. Chiediamo con forza che il nostro contingente torni
in patria».
L'hanno chiamata missione «antica Babilonia», ci partecipano tremila
militari italiani, quattrocento sono carabinieri: operano nell'Iraq
meridionale sotto comando britannico. Il loro principale compito definito
«umanitario» è quello di «concorrere al mantenimento all'ordine pubblico».
In un Paese occupato militarmente significa far rispettare le regole imposte
dagli occupanti.
Sono passati 24 giorni tra le minacce contro l'Italia e l'attentato che ha
fatto strage di carabinieri, soldati e civili irakeni nelle palazzine del
comando militare italiano a Nassiriya. Il messaggio di Al Qaeda trasmesso il
18 ottobre dalla tv del Qatar diceva: «Ci riserviamo il diritto di
rappresaglia, al momento giusto e nel posto giusto contro tutti i Paesi che
prendono parte a questa guerra iniqua, vale a dire Gran Bretagna, Spagna,
Australia, Polonia, Giappone e Italia». Lo sceicco Omar Bakri, vicino alle
posizioni di Al Qaeda, aveva avvertito gli europei che le minacce andavano
prese sul serio. Come sempre la strategia terroristica ha messo in atto la
sua devastante potenza nel luogo più vulnerabile, una città dove i militari
italiani si sentivano protetti per aver fraternizzato con la popolazione,
dove le strutture militari erano difese solo da sacchi di sabbia, dove non
c'erano segnali allarmanti di guerriglia. Dopo le minacce, i vertici della
Difesa avevano rafforzato la presenza del Sismi, il servizio segreto
militare, sulla cui capacità di penetrazione tra i gruppi della gerriglia,
erano fondate le speranze di poter evitare un'azione contro l'Italia. Gli
agenti segreti avrebbero dovuto cercare contatti con le formazioni
guerrigliere che avevano più peso nel controllo del territorio di Nasseriya:
bisognava convincerle che i nostri soldati svolgevano solo compiti umanitari
e offrire loro dei vantaggi se non li avessero considerati nemici. Missione
difficile, al confine con l'irrealtà. Per questa è fallita. Dopo la strage
il Sismi ha catapultato in Iraq altri agenti segreti per capire le ragioni
del fallimento.
«Scopriamo ora - dice Luigi Bonanate, docente di studi strategici
all'Università di Torino- che in Iraq c'è una guerra a cui una parte sta
reagendo con una guerra di guerriglia. Quando si è deciso di mandare "i
nostri ragazzi" in Iraq si è usata la coloritura di dire che andavano per
motivi umanitari e non come alleati degli Stati Uniti. E oggi ne piangiamo
le conseguenze. Quei militari morti sono vittime del lavoro mandate in un
cantiere malsano, come l'immigrato albanese morto nel malsano cantiere di
Genova. Sono la tristissima testimonianza che non era vero, come hanno
cercato di farci credere, che tutta la popolazione irakena era contro
Saddam, che bastava rovesciare la statua del dittatore, per fare accettare
l'intervento militare straniero. Il futuro dell'Iraq è nero, nero, nero. E'
possibile che gli attentati continuino a colpire obiettivi situati
prevalentemente nel territorio irakeno, perché le formazioni della
guerriglia la ritengono una guerra di liberazione. Ma se non si rimuovono le
ragioni della guerra, c'è il rischio che gli attentati siano esportati in
altri scenari, come Europa o Stati Uniti, per coinvolgere ancora più
profondamente l'opinione pubblica internazionale».
La possibilità che le minacce siano seguite anche da azioni terroristiche
nei Paesi occidentali è stata subito presa in considerazione dai nostri
organismi di sicurezza. Il Ministro Pisanu ha convocato i vertici
dell'antiterrorismo per studiare nuove misure di protezione per gli
obiettivi più sensibili: saranno intensificati i servizi di vigilanza oltre
che per gli aeroporti, le stazioni, le ambasciate anche per le strutture
militari.
Annibale Paloscia
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Un rapporto dei servizi segreti avverte la Casa Bianca che la situazione
irachena potrebbe peggiorare
«Potremmo anche perdere». Parola della Cia
Nel giorno più nero della guerra irachena, arriva un colpo inaspettato anche
dalla Cia. Le indiscrezioni tratte dal rapporto commissionato direttamente
dal grande capo, George Tenet, sono state diffuse dal Philadelphia Inquirer
con un tempismo che ha insospettito gli analisti politici. Secondo questi
ultimi la Cia avrebbe voluto fare un regalo al proconsole dell'Iraq, Paul
Bremer, fornendogli un mezzo per scavalcare i suoi diretti superiori al
Pentagono e fare arrivare il messaggio direttamente nell'Ufficio ovale: le
cose vanno male, e sono destinate a peggiorare. Un dossier al momento
giusto. Non è la prima volta che la Cia contrappone alla propaganda dei
neo-conservatori un'immagine più realistica della guerra ma non aveva mai
descritto così chiaramente una "resistenza estesa, forte e destinata a
diventarlo sempre di più". Il rapporto parla di circa 50 mila insorti che
attirano sempre più adepti man mano che le condizioni della vita quotidiana
peggiorano. E "non si tratta soltanto di un pugno di baatisti (i membri del
partito-stato di Saddam), sono migliaia di persone che aumentano ogni
giorno. Non sparano tutti ma forniscono supporto, rifugio e sostegno".
Una prova evidente è il fatto che gli attacchi si stanno diffondendo per
tutto il territorio, ben oltre il "Triangolo sunnita" - fra Baghdad, Tikrit
e Ramadi - descritto dai media come il rifugio dei nostalgici. "Siamo
destinati" continua la Cia "a perdere totalmente il controllo della
situazione se non cambiamo rapidamente e radicalmente la situazione". Ma si
tratta di un cambiamento che non può avvenire soltanto sul piano militare
visto che ogni escalation da parte delle truppe di occupazione, oltre a
dimostrare agli occhi del mondo che la guerra è tutt'altro che finita,
innesca ulteriori motivi di risentimento. Per questo motivo
l'amministrazione di Bremer non vede affatto bene la decisione dell'esercito
di aumentare la pressione offensiva contro i ribelli con bombardamenti e
raid pesanti. D'altro canto restarsene barricati nei propri fortini, come
stanno facendo gli americani, non consente di mettere in moto il processo di
ricostruzione che, quello sì, potrebbe ottenere il sostegno di una parte
della popolazione.
L'altra nota dolente è quella finanziaria. Gli attacchi agli oleodotti
raggiungono raramente i telegiornali occidentali ma sono efficaci e
quotidiani, e hanno di fatto polverizzato una delle belle pensate dei
neo-conservatori: pagare la guerra col petrolio iracheno. Secondo i piani di
Washington entro qualche settimana dalla fine della guerra i pozzi iracheni
avrebbero dovuto ricominciare a pompare a pieno ritmo, ovvero tirare fuori i
2,5 milioni di barili al giorno dell'ante-guerra. Ma, vista totale
incapacità della coalizione di proteggere gli oleodotti che attraversano il
paese, siamo ben lontani dall'obiettivo.
Le resistenze. L'Iraq è noto, è un paese diviso. Furono gli inglesi a
tracciare i confini di uno stato virtuale, nel 1920, e furono loro i primi a
bombardare i curdi, i sunniti e gli sciiti che non si piegavano. L'invasione
americana sta riuscendo oggi dove perfino il pugno di ferro di Saddam aveva
fallito, ricomponendo differenze etniche, politiche e religiose, in nome
della cacciata dell'invasore. La resistenza è infatti composta di molte
anime, ben diverse fra loro. La più agguerrita e sicuramente la meglio
armata, perché ha accesso ai depositi nascosti da Saddam per l'Iraq, è
quella composta dagli ex del formidabile apparato di sicurezza interno, cui
si sono aggiunti i disoccupati dell'esercito vero e proprio smantellato
dagli americani. Si è trattato di un errore strategico che non ha precedenti
nella storia. A nessuno, infatti, era mai venuto in mente di dire a
centinaia di migliaia di uomini di andarsene semplicemente a casa,
lasciandogli le armi e smettendo di pagargli lo stipendio. Mentre nel
Kurdistan iracheno vige una calma armata, nel nord dell'Iraq elementi
tribali locali coltivano il sogno di un'isola sunnita - minoranza da sempre
dominante - che non debba scendere a compromessi con le altre componenti. La
latitanza degli americani alimenta l'illusione e rafforza gli organismi
tribali visto che li costringe a difendersi da sé in un paese nel quale, non
bisogna dimenticarlo, poco prima di capitolare Saddam ha aperto le prigioni
liberando circa centomila criminali condannati. Nel sud sciita l'obiettivo
di fondare una Repubblica islamica sul modello dell'Iran spinge alla
resistenza armata. Anche qui le truppe della coalizione non controllano
affatto il territorio: la relativa fortuna - fino a ieri - dei polacchi e
degli italiani si doveva alla scelta di lasciar governare dalle autorità
religiose o tribali città importanti come Najaf, Karbala e Bassora. Che dire
di Al Qaeda? Bisogna sottolineare che prima dell'attacco americano la rete
di Bin Laden e l'Iraq non avevano niente a che spartire mentre adesso, dopo
l'invasione, il paese è diventato un luogo di attrazione per chiunque voglia
"uccidere un infedele". Tuttavia le orde di discepoli di Osama previste dal
Pentagono non si sono viste. Il motivo è molto semplice: talebani, afghani e
pakistani il nemico ce l'hanno in casa, così come i fondamentalisti del
sud-est asiatico. Fonti accreditate suggeriscono invece la presenza di un
terrorismo regionale - dall'Arabia Saudita, Emirati Arabi, Yemen, Siria,
Libano, Egitto e Palestina - ma numericamente poco consistente. Resta il
fatto che non poteva esserci, per Al Qaeda, uno spot migliore della guerra
di conquista scatenata da Washington e dei feroci bombardamenti costati così
tante vittime civili.
Sabina Morandi