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la nuova risoluzione Onu per l'Iraq



L'Onu si piega agli Usa

Unanimità al Consiglio di sicurezza sulla risoluzione che riconosce 
l'occupazione dell'Iraq

FRANCO PANTARELLI
NEW YORK

Ealla fine gli americani ce l'hanno fatta. La loro risoluzione sull'Iraq è 
stata approvata all'unanimità, 15 a 0, (perfino la Siria ha votato a 
favore) e l'uomo da ringraziare è Vladimir Putin. E' stato al presidente 
russo, infatti, che mercoledì sera il segretario di Stato Colin Powel si 
era ansiosamente rivolto per vedere se era possibile ottenere qualcosa di 
più dei nove voti offuscati da sei astensioni - sufficienti dal punto di 
vista del regolamento, ben poca cosa dal punto di vista politico - con cui 
il Consiglio di Sicurezza si avviava ormai ad approvare la risoluzione 
americana. Putin aveva risposto con la proposta di tre emendamenti al testo 
americano che lui riteneva accettabili anche per la rigidità americana, 
visto che non trattavano né della «data precisa» del passaggio dei poteri 
dalle forze occupanti agli iracheni, né del ruolo «centrale» da riconoscere 
alle Nazoni Unite. Non si sbagliava, o almeno non del tutto. Powell infatti 
ne aveva accettati due: quello che assicurava al segretario generale 
dell'Onu Kofi Annan una «maggiore partecipazione» al lavoro che dovrà 
portare alla nuova Costituzione irachena e all'organizzazione delle 
elezioni e quello in cui si affermava che la presenza militare americana in 
Iraq dovrà esse considerata «scaduta» nel momento stesso in cui gli 
iracheni avranno votato e si saranno dati un proprio governo sovrano. Del 
terzo emendamento, quello respinto, non si conosce il contenuto, ma sta di 
fatto che Putin si è accontentato di quello che ha definito «il 99 per 
cento delle nostre richieste» e forte di questa nuova versione della 
risoluzione americana, la quinta, ha chiesto il rinvio a ieri mattina (il 
pomeriggio in Europa) della riunione del Consiglio di Sicurezza per avere 
il tempo di «convincere» Francia e Germania. Quella sua opera di 
convincimento si è dispiegata in tre quarti d'ora passati al telefono, 
mentre in America ancora si dormiva, in «conference call» con Jacques 
Chirac e Gerhard Schroeder, i quali alla fine hanno detto «sì» a una 
condizione: che Putin si impegnasse assieme a loro nella posizione di non 
fornire agli americani - nonostante l'approvazione della risoluzione - né 
truppe né soldi. In sostanza, dunque, ai Paesi che volessero dare una mano 
agli Stati Uniti i tre oppositori di ieri dell'avventura americana in Iraq 
hanno dato la loro benedizione attraverso il voto espresso ieri ma non 
intendono dare il loro esempio. Sull'onda di quell'annuncio anche la Cina 
ha lasciato la linea dell'astensione per votare a favore («Con gli 
aggiustamenti sopravvenuti la risoluzione sull'Iraq promuoverà il ritorno 
della sovranità, la ripresa del processo politico e la ricostruzione 
economica», ha detto con qualche enfasi di troppo il ministro degli Esteri 
di Pechino Li Zhapxing, anche lui coinvolto nel giro di telefonate) e la 
stessa cosa hanno fatto il Pakistan e perfino la Siria, della cui eventuale 
astensione comunque gli americani non si curavano molto ed anzi un loro 
diplomatico l'aveva addirittura auspicata.

Subito dopo il voto, i media di qui si sono scatenati nel descrivere la 
«vittoria» americana con toni da incontro sportivo e Colin Powell, la 
«colomba» che aveva tanto insistito per arrivare a questo risultato (non 
molto considerato dai suoi colleghi nell'amministrazione Bush) e che solo 
pochi giorni fa aveva fatto balenare la possibilità di ritirare la sua 
risoluzione piuttosto che vederla approvata da una maggioranza risicata, ha 
avuto il suo momento di gloria. Ma non è che sia stato risolto chissà che. 
Per avere finanziamenti veri - circa 2 miliardi di dollari - oggi Bush 
arriva a Tokyo da Koizumi. Con Francia e Germania lì a riaffermare che 
l'unico «aiuto» che daranno sarà la loro partecipazione ai 200 milioni di 
euro già promessi dall'Unione europea; con la Russia accodata a quella 
posizione e con il Pakistan (uno dei più «corteggiati» in quanto Paese 
islamico con la richiesta di truppe da parte degli americani) prontissimo a 
far sapere che rimetterà ogni decisione al proprio Parlamento, il «flusso» 
di truppe che questa risoluzione comporterà non è che si preanunci proprio 
alluvionale. Anzi. Arriveranno solo le rischiose truppe turche. E gli 
americani mostrano di saperlo fin troppo bene. «Il nostro vero obiettivo - 
diceva ieri un funzionario americano a patto di non essere nominato - è 
molto più di un pezzo di carta. A noi servono truppe e soldi. Speriamo che 
con questa risoluzione e con la conferenza di Madrid ci porti davvero un 
aiuto». La conferenza di Madrid è naturalmente quella dei «Paesi donatori» 
prevista per il giorno 24, nella quale dovrebbe essere possibile vedere con 
un po' più di chiarezza quanto questa vittoria diplomatica americana 
corrisponderà a una vittoria sostanziale.

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/17-Ottobre-2003/art49.html




ONU/IRAQ

La coperta di Bush

TOMMASO DI FRANCESCO

«Non un uomo non un soldo, ma...», questa in sintesi la posizione che ha 
deciso di prendere quella parte del vecchio continente, Francia, Germania e 
la nuova Russia - gli stessi che, insieme alla Cina, misero in scacco i 
diktat americani all'Onu prima della guerra - dichiarandosi ora a favore, e 
all'unanimità, della «nuova» risoluzione presentata dall'Amministrazione 
Bush all'Onu. Una posizione incredibile e «ideologica». Dichiarano infatti 
i leader europei due cose: la prima, che c'è un «progresso», 
nell'indicazione dei tempi e del potere dell'Onu, ma è difficile vederlo, 
al punto che loro stessi si affrettano a precisare che «non è sufficiente»; 
la seconda, che «abbiamo interesse, in una difficile situazione 
internazionale, a che l'Onu resti unita il più possibile». Strano che Kofi 
Annan resti invece convinto dell'assoluta inadeguatezza della «nuova» 
risoluzione con la quale l'Onu ora coprirà l'intervento militare.

E' la stessa Onu che da Baghdad è dovuta fuggire, dopo l'attentato alla sua 
sede e l'uccisione dell'inviato Vieira de Mello. La stessa Onu fatta a 
pezzi dalla decisione di guerra a tutti i costi, illegale e immotivata, 
decisa dal presidente americano Bush contro il parere del mondo. Un 
soccorso, proprio mentre la motivazione della «liberazione dell'Iraq» è in 
frantumi, in un paese che appare occupato militarmente e basta («Quando un 
paese è occupato lotta per l'indipendenza», dichiarava solo una settimana 
fa il presidente francese Chirac), dove non si ferma la resistenza armata e 
anche quella popolare che riporta in piazza - ecco l'effetto perverso della 
guerra americana - i ritratti di Saddam Hussein. Senza che le motivazioni 
di fondo della guerra abbiano avuto alcuna risposta: le armi di distruzione 
di massa non sono state trovate nemmeno dalla Cia, i presunti legami del 
regime iracheno con Al Qaeda restano solo menzogne.

Un risultato c'è. E' il peggioramento anche del fronte mediorientale, con 
il primo agguato diretto del terrorismo ad obiettivi americani. Gli Stati 
uniti, abbandonando il ruolo storico di mediatori nel conflitto, come 
dimostrato dall'inaspettato veto proprio all'Onu sulla condanna del Muro di 
Sharon, sono diventati, come in Iraq, bersaglio di oscuri attacchi (tanto 
oscuri quanto, ahimé, sostenuti dalla rabbia popolare, esplosa a Gaza nella 
fitta sassaiola che ha accolto gli agenti dell'Fbi che indagavano 
sull'uccisione dei tre agenti Usa). Mentre il presidente Bush ha dato luce 
verde alla tanto agognata espulsione di Arafat dai Territori occupati, e 
mentre la minaccia della guerra preventiva americana non si ferma, trova 
accoglienza nel Congresso che vota pesanti sanzioni alla Siria - che corre 
subito ai ripari votando la «nuova» risoluzione Usa -, e tiene sotto 
minaccia l'Iran di Khatami.

Dunque la scena diventa ancora più tenebrosa e gravida di guerra. Eppure 
«Non un uomo non un soldo, ma...», è lo slogan che offre a Bush su un 
piatto d'argento la bandiera stracciata delle Nazioni unite in macerie a 
Baghdad, ridotta ormai a coperta di Bush.

Ma Chirac, Schroeder e Putin, il «pacifismo d'interesse» ben diverso dalla 
«potenza mondiale» pacifista dei movimenti internazionali delle persone 
«senza confine» che hanno detto no alla guerra, non potevano certo 
assistere al declino americano nell'epicentro decisivo dell'Iraq, nel 
timore che questo corrispondesse poi a contraccolpi negativi anche per 
loro. Che fine farà la principale riserva di petrolio del mondo? E poi, 
nell'ordine, che fine avrebbe fatto la «nostra Africa», dev'essersi detto 
il presidente francese, e la «nostra» Cecenia quello russo. Che fine 
l'Europa, dev'essersi chiesto Schroeder, così in difficoltà da soccorrere 
perfino l'asse filoamericano dei Blair, Aznar e Berlusconi, veri 
«vincitori» della scelta di correre in soccorso ora agli Stati uniti.

«Vincitori» fino ad un certo punto, naturalmente. Perché la vera fedeltà - 
lo sanno bene francesi, tedeschi e russi, che infatti su questo negano ogni 
aiuto, mentre Bush è costretto a ricorrere a Giappone e Turchia - si gioca 
con i finanziamenti, la spartizione dei costi spaventosi dell'occupazione e 
con l'invio di militari a rischio. E quelli italiani già stanno sul campo, 
pericolosamente già in guerra.

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/17-Ottobre-2003/art52.html