Il
Turkmenistan, una delle cinque repubbliche post
sovietiche dell’Asia Centrale, è guidato da uno dei
regimi più autoritari a livello globale. A differenza
della Corea del Nord, paese a cui spesso viene
associato in quanto a chiusura verso l’esterno,
finisce però molto meno di frequente nell’obiettivo
dei mezzi di informazione, e la sua stessa esistenza è
pressoché ignorata dal grande pubblico.
Non deve
stupire quindi che il Business Forum tra
Italia e Turkmenistan che si è svolto lo scorso 6
novembre a Milano, un tipo di evento che a cose
normali dovrebbe rientrare nell’abituale relazione
commerciale tra paesi, abbia fatto notizia. Tanto più
che esso si è tenuto in concomitanza con la due giorni
di visita ufficiale in Italia del Presidente del
paese, Gurbanguly Berdymukhammedov.
Alla
giornata di incontri milanese hanno preso parte figure
istituzionali di primissimo piano, sia italiane che
turkmene, oltre ad alcune importanti aziende
tricolore, tra cui spiccava l’Eni. Il Turkmenistan è infatti il
quarto paese al mondo per riserve accertate di gas
naturale e il Cane a sei zampe opera sul
territorio turkmeno dal 2008. Con tutte le difficoltà
del caso, perché alla chiusura sul fronte politico
corre parallela quella relativa alla sfera economica.
Chiusura che solamente un paese sembra essere riuscito
negli ultimi anni a scardinare.
Perché oggi a farla da padrone sul
fronte energetico ed economico in Turkmenistan è la
Cina, che assorbe, attraverso un gasdotto
entrato in funzione nel 2009, circa l’80% delle
esportazioni turkmene annue di gas naturale. E il
Turkmenistan, la cui capitale, Ashgabat, è entrata nel
Guinness dei Primati per la più alta concentrazione di
edifici in marmo bianco (anche di Carrara), esporta
sostanzialmente solo gas naturale, disponendo della
quarta riserva mondiale. La vendita di quest’ultimo
sui mercati internazionali risulta quindi fondamentale
per il sostentamento dei circa cinque milioni di
cittadini turkmeni.
Si tratta
di un dato, quello del peso delle importazioni cinesi,
che mostra in tutta la sua evidenza lo scarsissimo
successo ottenuto da Berdymukhammedov, padre-padrone
del paese, sul fronte della diversificazione delle rotte
di esportazione energetiche. Salito al potere
nel 2006, il leader turkmeno guida un paese a cui ha
imposto una ricetta per la gestione del potere che ha
molti punti in comune con quella del suo predecessore,
Niyazov. Una ricetta i cui ingredienti principali sono
la repressione di qualsiasi forma di dissenso, il
mancato rispetto dei più basilari principi democratici
e diritti umani e un culto della personalità che si è
spinto fino alla posa in opera di statue d’oro in suo
onore e all’auto conferimento dell’appellativo di Arkadag,
protettore.
Sul fronte
internazionale, Berdymukhammedov ha cercato di trovare
nuove rotte, diverse da quella storica in direzione
della Russia, verso cui indirizzare il proprio gas.
Soprattutto per evitare
l’eccessiva dipendenza che il paese ha sempre avuto
nei confronti del Cremlino, che considera
l’Asia Centrale un vero e proprio cortile di casa.
Ma dopo 13
anni dalla sua salita al potere e dalla definizione di
una fantomatica politica estera multi-vettoriale, il
quadro per il Turkmenistan è chiaro: la Repubblica
Popolare ha preso il posto della Russia come
dominatrice della scena, da una dipendenza si è quindi
semplicemente passati a un’altra.
Con
l’aggravante che il Turkmenistan destina buona parte
dei proventi del gas venduto alla Cina al ripianamento dei debiti
che il paese ha con Pechino.
In altre parole, sul fronte della diversificazione, il
fallimento è stato al momento totale. Sia se dal
Turkmenistan si guarda a ovest, verso l’Europa,
mercato di sbocco sognato da Berdymukhammedov, sia
verso est, in direzione dell’Afghanistan, del Pakistan
e dell’India, altra direttrice che assomiglia sempre
più a un miraggio.
Pesa, c’è
da dire, anche la geografia. Il Turkmenistan è infatti
isolato (non ha, ad esempio, sbocchi sul mare aperto)
e schiacciato tra altri giganti del gas naturale. Come
la Russia, appunto, l’Azerbaigian e l’Iran, paese che
per anni ha acquistato il gas turkmeno, prima che
Berdymukhammedov interrompesse il flusso per una serie
di incomprensioni sul pagamento delle forniture.
A subire
le maggiori conseguenze di questa situazione sono,
come molto spesso accade, i cittadini turkmeni,
costretti ormai da anni fare i conti con una
gravissima crisi economica, che li priva
quotidianamente perfino dei beni alimentari di prima
necessità. Al punto che l’anno scorso il paese ha
dovuto cancellare un programma statale di sovvenzioni,
attivo dagli anni ’90, grazie al quale i residenti
avevano accesso gratuitamente alle forniture di gas
naturale, elettricità e acqua.
Ecco
quindi spiegata, almeno in parte, la visita in Italia di
Arkadag e la sfilata di figure di primissimo
piano durante il Business Forum di Milano. Il
dittatore turkmeno necessita
di investimenti esteri perché la crisi
economica interna rischia, nel lungo periodo, anche di
far scricchiolare in maniera pericolosa il regime che
così attentamente ha plasmato a propria immagine e
somiglianza.
I rapporti
tra Italia e Turkmenistan, però, vanno aldilà delle
importazioni tricolore di risorse energetiche o degli
acquisti turkmeni di pregiato marmo di Carrara.
L’interscambio tra Roma e
Ashgabat, infatti, toccato il proprio picco nel
2016, a più di 600 milioni di euro,
quest’anno dovrebbe attestarsi attorno ai 200 milioni.
Se il Turkmenistan importa dall’Italia soprattutto
componenti industriali e tecnologiche, c’è però un
altro settore produttivo italiano che interessa
particolarmente a Berdymukhammedov.
Analizzando
i rapporti pubblicati dall’Unione Europea, infatti,
emerge come, tra il 2007 e il 2017, il Turkmenistan abbia
provveduto ad acquistare armamenti in Europa per un
ammontare pari a circa 340 milioni di euro.
Ben il 76% di questa somma è
legato alle forniture da parte di aziende italiane del
settore, che nel periodo considerato hanno concluso accordi
commerciali con Ashgabat per circa 257 milioni di
euro. Ciò in palese violazione dei principi
comunitari e della legge italiana, che teoricamente vieterebbero la vendita di
armi a quei paesi i cui governi non rispettano i
diritti umani dei propri cittadini.
Un
identikit che si adatta particolarmente bene al regime
autoritario guidato da Berdymukhammedov. Che taglia
sovvenzioni, ma non le spese militari. La
collaborazione nella dimensione della difesa è
oltretutto destinata ad
approfondirsi, visto che è in via di ratifica
da parte del parlamento italiano un accordo di
cooperazione in quest’area, firmato nel marzo del
2017. Da segnalare come, rispetto a tale intesa, sul
fronte italiano non si siano registrate proteste, ma
nemmeno semplici voci contrarie. L’abbiamo detto in
apertura, il Turkmenistan, purtroppo per i suoi
cittadini, non fa notizia.