Come ho suggerito in altra mail, dimentichi Israele (visti i
risultati elettorali?), che non è agli ordini di Washington (e men
che meno di Trump) ma che anzi ne orienta (o costringe) le azioni.
Pure Erdogan non aspetta altro, e ha mostrato quale biscia sia.
Entrambi col nucleare, altro che droni. Spero di sbagliare, ma di
Stranamore ne vedo parecchi.
Il 18/09/19 08:01, Elio Pagani (via
disarmo Mailing List) ha scritto:
Non è improbabile, anche se la diffusione di
droni armati e missili da crociera ormai è significativa e
relativamente poco costosa.
E vero che c'è un conflitto per interposta
persona in Yemen, Siria, ecc. tra Arabia Saudita ed Iran,
ma ci si deve chiedere a chi giova una escalation di questa
portata. Desta tuttavia perplessità l'ipotesi che USA e
Arabia vogliano davvero aprire un altro fronte militare con
Iran, una guerra che sarebbe molto più devastante di quanto
visto in Iraq e Siria, vista la maggiore omogeneità interna
di quel paese.
In ogni caso, di nuovo, si deve registrare il
fatto che la guerra ha conseguenze ambientali devastanti,
che si sommano alle altre....
Elio
A mio avviso si tratta di un 11/09 saudita, già
Mayflower o Pearl Harbour che dir si voglia, con la
stessa regia e scopo. Non so se mi spiego.
Jure
Il
17/09/19 09:59, Elio Pagani (via disarmo Mailing List)
ha scritto:
I dubbi sull’attacco al petrolio saudita:
dieci droni «invisibili» arrivati da nord
Guerre nel
Golfo. Tensione Usa-Iran, Pompeo
accusa Teheran che nega un coinvolgimento.
Trump minaccia gli autori, ma non fa nomi.
Nessuno intercetta i velivoli e gli Houthi
rivendicano, ma l’inviato Onu per lo Yemen
solleva perplessità. Crolla la produzione di
Riyadh, si impenna il prezzo del greggio
Le
fiamme nell’impianto saudita di raffinazione
di Abqaiq, di proprietà dell'Aramco
© Ap
I sauditi sono
vulnerabili: le loro infrastrutture
petrolifere sono state colpite e potranno
essere ancora prese di mira. Avranno come
alleati gli Stati uniti e Israele, ma non
sono invincibili. Anzi, è la vicinanza a
Washington e a Tel Aviv a rendere fragile
la dinastia Saud, come dimostrano gli attacchi di
cui diremo tra poco.
Sono avvenuti una
settimana dopo che il principe Abdulaziz
bin Salman ha rimpiazzato Khalid al-Falih
nel ruolo di ministro dell’Energia, mentre
Riyadh cerca di spingere un’offerta
pubblica di vendita di parte della società
petrolifera di Stato Aramco, per
raccogliere fondi e diversificare
l’economia. I potenziali investitori
terranno conto dei rischi di
un’escalation.
Alle 4 di sabato
mattina la raffineria di Abqait e il
giacimento di Khurais sono stati attaccati
da droni e forse da missili che –
stranamente – nessun sistema riesce a
intercettare. La produzione saudita perde
5,7 milioni di barili al giorno
(dimezzata), dai mercati sparisce il 5%
della produzione e ieri mattina il prezzo
dell’oro nero si è impennato del 20% (come
nella guerra del Golfo del 1991) per
ridiscendere dopo che gli Stati uniti
hanno reso disponibili le loro riserve.
Per un po’ i sauditi
non potranno aprire i rubinetti di oro
nero per compiacere l’amministrazione
Trump. Nella raffineria di Abqait e nel
giacimento di Khurais le fiamme sono
tenute a bada e non ci sono vittime. Il
danno sembra però più grave di quanto
dichiarato: serviranno mesi, e non
settimane, per rimettere le cose a posto.
Quella di Abqaiq è la
raffineria più grande al mondo e il
giacimento di Khurais fa parte di Ghawar,
lungo 300 chilometri e largo 70. Le
infrastrutture colpite sono situate nella
regione orientale dell’Arabia saudita,
dove risiede il 15% della popolazione che
professa la fede sciita e per questo è da
sempre vittima di persecuzioni da parte
delle autorità di Riyadh.
A rivendicare
l’attacco con dieci droni sono stati i
ribelli Houthi, di fede sciita ma
appartenenti alla setta zaidita (diversa
dai duodecimani dell’Iran). Per
l’industria delle armi, i sauditi sono il
miglior cliente: le comprano, le usano e
ne comprano altre da usare in Yemen dove
bombardano dal marzo 2015, facendo decine
di migliaia di vittime tra i civili e
mettendo l’80% della popolazione (24
milioni) in una situazione disperata,
senza cibo né medicine, in preda alle
epidemie.
Gli Houthi combattono
la coalizione guidata dai sauditi che
sostiene il governo di Mansour Hadi e
bombarda lo Yemen: il movente per colpire
le installazioni saudite non manca ma
Martin Griffith, l’inviato Onu in Yemen,
ha espresso dubbi sul ruolo degli Houthi e
al Consiglio di Sicurezza ha affermato che
non sarebbe «del tutto chiaro» chi sia
dietro l’attacco.
A dire chiaramente
che l’attacco non proveniva dallo Yemen
(il giacimento di Khurais dista 770 km
dalla frontiera), contraddicendo le
rivendicazioni Houthi, è stato il
colonnello Turki al-Malki, portavoce della
coalizione militare guidata dai sauditi in
Yemen.
Tenuto conto della
provenienza da nord-ovest (e non dallo
Yemen che sta a sud-ovest rispetto agli
obiettivi) e dell’estensione (19 punti di
impatto e non dieci come sostengono gli
Houthi), secondo alcune fonti interne
all’amministrazione Trump difficilmente
sarebbero coinvolti i ribelli yemeniti: i
droni e i missili sarebbero partiti dalla
costa settentrionale del Golfo persico,
quindi dall’Iran oppure – come sostengono
fonti israeliane – da milizie sciite
filo-iraniane dal sud dell’Iraq.
Le autorità irachene
negano ogni accusa, la colpa sarebbe tutta
degli ayatollah e dei pasdaran di Teheran,
che invece dicono di non saperne nulla. A
suffragare l’ipotesi di un coinvolgimento
iraniano, avanzata dal segretario di Stato
Usa Mike Pompeo durante il fine settimana,
sarebbero immagini via satellite
dell’intelligence a stelle e strisce, non
disponibili per la stampa: come in altri
casi, ci dovremmo fidare di quanto ci
viene detto dal guerrafondaio di turno.
Intanto, domenica il
presidente americano Trump ha minacciato
via Twitter un’azione militare contro il
mittente dei droni, ma non è arrivato ad
accusare l’Iran perché l’obiettivo è
abbassare le tensioni: il saudita Mohammad
bin Salman ha sì bisogno di stabilità per
attirare investimenti e diversificare
l’economia del regno, ma gli americani non
possono che rallegrarsi dell’aumento del
prezzo del greggio perché avranno il loro
guadagno dalla vendita dello shale oil (mentre
noi europei – importatori di energia – ci
troveremo in difficoltà).
A guadagnarci dagli
attacchi è anche il premier israeliano
Netanyahu che conta di vincere alle
elezioni di oggi, diventando il ministro
più longevo nella storia dello Stato
ebraico.
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o Pearl Harbour che dir si voglia, con la stessa regia e
scopo. Non so se mi spiego.
Jure
Il
17/09/19 09:59, Elio Pagani (via disarmo Mailing List)
ha scritto:
I dubbi sull’attacco al petrolio saudita:
dieci droni «invisibili» arrivati da nord
Guerre nel Golfo. Tensione
Usa-Iran, Pompeo accusa Teheran che nega un
coinvolgimento. Trump minaccia gli autori, ma
non fa nomi. Nessuno intercetta i velivoli e
gli Houthi rivendicano, ma l’inviato Onu per
lo Yemen solleva perplessità. Crolla la
produzione di Riyadh, si impenna il prezzo del
greggio
Le
fiamme nell’impianto saudita di raffinazione di
Abqaiq, di proprietà dell'Aramco
© Ap
I
sauditi sono vulnerabili: le loro
infrastrutture petrolifere sono state
colpite e potranno essere ancora prese di
mira. Avranno come alleati gli Stati uniti e
Israele, ma non sono invincibili. Anzi, è la
vicinanza a Washington e a Tel Aviv a
rendere fragile la dinastia Saud, come
dimostrano gli attacchi di cui
diremo tra poco.
Sono
avvenuti una settimana dopo che il principe
Abdulaziz bin Salman ha rimpiazzato Khalid
al-Falih nel ruolo di ministro dell’Energia,
mentre Riyadh cerca di spingere un’offerta
pubblica di vendita di parte della società
petrolifera di Stato Aramco, per raccogliere
fondi e diversificare l’economia. I
potenziali investitori terranno conto dei
rischi di un’escalation.
Alle
4 di sabato mattina la raffineria di Abqait
e il giacimento di Khurais sono stati
attaccati da droni e forse da missili che –
stranamente – nessun sistema riesce a
intercettare. La produzione saudita perde
5,7 milioni di barili al giorno (dimezzata),
dai mercati sparisce il 5% della produzione
e ieri mattina il prezzo dell’oro nero si è
impennato del 20% (come nella guerra del
Golfo del 1991) per ridiscendere dopo che
gli Stati uniti hanno reso disponibili le
loro riserve.
Per
un po’ i sauditi non potranno aprire i
rubinetti di oro nero per compiacere
l’amministrazione Trump. Nella raffineria di
Abqait e nel giacimento di Khurais le fiamme
sono tenute a bada e non ci sono vittime. Il
danno sembra però più grave di quanto
dichiarato: serviranno mesi, e non
settimane, per rimettere le cose a posto.
Quella
di Abqaiq è la raffineria più grande al
mondo e il giacimento di Khurais fa parte di
Ghawar, lungo 300 chilometri e largo 70. Le
infrastrutture colpite sono situate nella
regione orientale dell’Arabia saudita, dove
risiede il 15% della popolazione che
professa la fede sciita e per questo è da
sempre vittima di persecuzioni da parte
delle autorità di Riyadh.
A
rivendicare l’attacco con dieci droni sono
stati i ribelli Houthi, di fede sciita ma
appartenenti alla setta zaidita (diversa dai
duodecimani dell’Iran). Per l’industria
delle armi, i sauditi sono il miglior
cliente: le comprano, le usano e ne comprano
altre da usare in Yemen dove bombardano dal
marzo 2015, facendo decine di migliaia di
vittime tra i civili e mettendo l’80% della
popolazione (24 milioni) in una situazione
disperata, senza cibo né medicine, in preda
alle epidemie.
Gli
Houthi combattono la coalizione guidata dai
sauditi che sostiene il governo di Mansour
Hadi e bombarda lo Yemen: il movente per
colpire le installazioni saudite non manca
ma Martin Griffith, l’inviato Onu in Yemen,
ha espresso dubbi sul ruolo degli Houthi e
al Consiglio di Sicurezza ha affermato che
non sarebbe «del tutto chiaro» chi sia
dietro l’attacco.
A
dire chiaramente che l’attacco non proveniva
dallo Yemen (il giacimento di Khurais dista
770 km dalla frontiera), contraddicendo le
rivendicazioni Houthi, è stato il colonnello
Turki al-Malki, portavoce della coalizione
militare guidata dai sauditi in Yemen.
Tenuto
conto della provenienza da nord-ovest (e non
dallo Yemen che sta a sud-ovest rispetto
agli obiettivi) e dell’estensione (19 punti
di impatto e non dieci come sostengono gli
Houthi), secondo alcune fonti interne
all’amministrazione Trump difficilmente
sarebbero coinvolti i ribelli yemeniti: i
droni e i missili sarebbero partiti dalla
costa settentrionale del Golfo persico,
quindi dall’Iran oppure – come sostengono
fonti israeliane – da milizie sciite
filo-iraniane dal sud dell’Iraq.
Le
autorità irachene negano ogni accusa, la
colpa sarebbe tutta degli ayatollah e dei
pasdaran di Teheran, che invece dicono di
non saperne nulla. A suffragare l’ipotesi di
un coinvolgimento iraniano, avanzata dal
segretario di Stato Usa Mike Pompeo durante
il fine settimana, sarebbero immagini via
satellite dell’intelligence a stelle e
strisce, non disponibili per la stampa: come
in altri casi, ci dovremmo fidare di quanto
ci viene detto dal guerrafondaio di turno.
Intanto,
domenica il presidente americano Trump ha
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contro il mittente dei droni, ma non è
arrivato ad accusare l’Iran perché
l’obiettivo è abbassare le tensioni: il
saudita Mohammad bin Salman ha sì bisogno di
stabilità per attirare investimenti e
diversificare l’economia del regno, ma gli
americani non possono che rallegrarsi
dell’aumento del prezzo del greggio perché
avranno il loro guadagno dalla vendita
dello shale oil (mentre noi europei
– importatori di energia – ci troveremo in
difficoltà).
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