Una continua, indegna, propaganda di Matteo Salvini su drammi umani, in cui ci sono vittime e vite distrutte. E di mezzo c'è sempre un'arma usata in maniera impropria. Sono due storie finite alla ribalta su cui è necessario soffermarsi. Entrambi tragiche per il loro epilogo e che condividono un dato oggettivo: non riguardano affatto la legittima difesa. Le vicende di Giacomo Buonamico e di Angelo Peveri sono la dimostrazione che l'obiettivo della Lega non è quello di garantire i cittadini di fronte a eventuali rapine. Ma l'intento, più profondo, è di sdoganare una mentalità pistolera, che porta a sparare a chi è in fuga, senza alcuna minaccia. "C0sì il rapinatore nella prossima vita cambia mestiere", è la tesi da saloon espressa da Salvini.
Il ministro dell'Interno sta proseguendo una campagna elettorale "anche sul nostro dolore", hanno quindi raccontato i familiari di Giacomo Buonamico, il ragazzo di 23 anni ucciso il 5 giugno del 2010 dopo una rapina, mentre scappava. A sparare fu Enrico Balducci, segretario della Lega a Bari, condannato per omicidio preterintenzionale a a 3 anni e 8 mesi. L'uomo, elogiato da Salvini, aprì il fuoco mentre i due erano in fuga su uno scooter: uno di loro portava con sé una pistola giocattolo, che però non ha mai estratto. Mai. Lo dicono le immagini visionate. Scrive La Repubblica in un articolo del 26 febbraio 2011:
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, possibile anche grazie alle telecamere di videosorveglianza dell'impianto, Cassano (che era agli arresti domiciliari) deteneva una pistola giocattolo che - a quanto si apprende - non avrebbe mai estratto. Nonostante ciò Balducci, che già in passato aveva subito rapine, all'arrivo dei due giovani rapinatori, si nascose dietro una colonnina, si piegò sulle gambe, prese la mira e sparò tre colpi con la pistola calibro 9 legalmente detenuta contro i due, mentre questi erano in fuga e senza che avessero mai concretamente tentato di compiere la rapina. Una delle pallottole colpì Cassano a una coscia e si conficcò in un gluteo di Buonamico, che morì dissanguato.
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Oggi la famiglia di Giacomo Buonamico chiede semplicemente rispetto, senza speculazioni propagandistiche o addirittura l'elogio di un condannato da parte di un rappresentante delle Istituzioni. Le parole di Michele Buonamico, zio del giovane ucciso, sono chiare: non c'è stata alcuna legittima difesa. «Non c'è stata minaccia, non c'è stata richiesta di soldi, in quei 6 secondi non c'è nulla di tutto quello che si chiama rapina. Balducci è stato condannato, in nessuno dei tre gradi di giudizio è stata riconosciuta la legittima difesa», ha spiegato nell'intervista di Maddalena Oliva a Il Fatto quotidiano.
Una parte dell'intervista pubblicata sul Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2019
La verità processuale sul caso Peveri
Poi c'è il caso di Angelo Peveri, quello che maggiormente ha attirato l'attenzione mediatica: è stato raccontato, deformato a piacimento della narrazione leghista, alimentando l'idea che con la riforma della legittima difesa non sarebbe stato condannato. Una sciocchezza colossale che, tra le righe, è stata ammessa anche dalla ministra Giulia Bongiorno nell'intervista rilasciata a La Stampa il 24 febbraio: "So che è stata esclusa". Ammissione a cui è seguito l'elogio alla visita in carcere di Salvini a Peveri, un gesto definito "coerente con una nostra battaglia: dimostrare che stiamo dalla parte dell'aggredito". Ecco, non si capisce il senso di questa affermazione della ministra: la verità processuale sul caso Peveri spiega che non ha subito alcuna aggressione. Anzi: è Dorel Jucan, l'uomo che stava trafugando gasolio dall'azienda, a essere stato immobilizzato e colpito da un proiettile.
Scrive Piero Colaprico, in un articolo su La Repubblica, del 26 febbraio:
[...] Poi arriva anche Peveri, lo afferra per il collo, gli fa sbattere la testa sui sassi e spara due colpi: il primo a vuoto, il secondo centra il giovane nella parte destra del petto. Le ferite di Jucan sono perfettamente sovrapponibili al suo racconto, dalle escoriazioni sul collo ai lividi sulla testa. [...] I nove pallini, quattro rimasti nel petto e cinque nella schiena, l'hanno centrato «con un'inclinazione di circa 45 gradi, dal basso verso l'alto»: certo va detto che questa inclinazione è stata «ritenuta compatibile con la vittima a terra in posizione supina e il feritore in posizione eretta, sia con il ferito in posizione eretta e il feritore disteso per terra».
Ma c'è un ma: «Non trova alcuna plausibile spiegazione all'interno della sequenza degli accadimenti riferiti da Peveri» il fatto che, «nella finestra d'espulsione del fucile a pompa» sia stata trovata una cartuccia «integra e inesplosa». Cioè se Peveri era caduto, e il colpo era accidentale (come ha sostenuto in fase di processo, nda) come ha potuto ricaricare il Mossberg-Maverick? [...] Di questi tempi urlati, qualcuno può pensare che la vita e l'integrità di un uomo valgano meno di una tanica di carburante, e che se lo Stato fa cilecca, l'unica via resti cercarci giustizia da soli. Ma se non un cittadino qualsiasi, ma un ministro dell'Interno si ostina a non leggere le carte giudiziarie, che messaggio lascia?
Un quadro processuale che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, se non di un concetto da rimandare a memoria: la legittima difesa non c'entra nulla; gli avvocati di Peveri non l'hanno nemmeno menzionata. Del resto, anche in questo caso come in quello di Buonamico, sarebbe opportuno ascoltare il dolore di chi ha vissuto una tragedia: Martina Peveri, la figlia dell'imprenditore condannato, ha chiaramente detto che il padre non rifarebbe quello che fatto, ossia uscire di casa armato per affrontare i ladri.