[Disarmo] Bombardamento climatico: necessario ripensare i concetti di “difesa e sicurezza”



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Reti idriche, elettriche e stradali saltate contemporaneamente, oltre centomila persone colpite direttamente dagli eventi calamitosi e/o isolati completamente per giorni, decine di morti e poi i dispersi ed i feriti.
Sembrano gli effetti di un massiccio bombardamento.

Questo il bilancio, per il momento, dei nubifragi che hanno colpito il Paese dalla Sicilia al Friuli passando per quasi tutte le aree interne (già in crisi strutturale). Emergenze multiple che si sono scaricate sui territori lasciando dietro di sé danni enormi.
Fronti franosi si sono già abbattuti su strade e abitazioni mentre altri 
incombono e sono in movimento.
Le immagini dei boschi del Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli, 
abbattuti dalla trebbia di un vento spaventoso stanno facendo il giro 
del mondo. Si parla di migliaia di ettari schiantati, milioni di metri 
cubi di legname a terra.
Già solo questa si prefigura come una catastrofe economica e ambientale. 
Mentre si pensa alla piantumazione (che richiederà ingenti risorse e 
nuovi piani forestali), bisognerà rimuovere tutto il materiale a terra.
Se questi milioni di metri cubi di legname verranno gestiti secondo le 
regole del mercato deprimeranno inevitabilmente il prezzo della materia 
prima mandando a gambe all’aria il già sofferente comparto delle 
attività boschive. C’è poi il rischio concreto che buona parte di questo 
materiale si trasformi, a causa del suo rapido deperimento, in un 
“rifiuto speciale” e quindi in un ulteriore pesantissimo costo. Ed è 
quello che succederà se inopinatamente si deciderà di scaricare sui 
singoli enti locali la responsabilità della gestione di questa partita.
Questa situazione inedita, sia per la scala del disastro che per le 
diverse realtà territoriali coinvolte, richiederebbe un immediato 
commissariamento di tutta la filiera del legno da parte delle Regioni. 
Solo una soluzione drastica come questa potrebbe agire concretamente 
contro la caduta verticale del prezzo della materia prima, coinvolgere 
ordinatamente nei lavori tutte le imprese boschive disponibili sul 
territorio, organizzare le vendite degli stock, gestire in maniera 
organica l’opera di ripristino boschivo.
E’ da incoscienti, irresponsabili ed infine idioti non rendersi conto 
che i molteplici e devastanti segnali che ci arrivano da ogni parte del 
mondo e non solo dal nostro Paese ci parlano chiaramente di cambiamenti 
climatici epocali. Su questo tema c’è peraltro un consenso della 
comunità scientifica globale che è preciso, allarmato, inequivocabile: 
manutenzione, prevenzione, conversione energetica e industriale, 
rivoluzione della mobilità, stop al consumo di suolo sono le linee di 
intervento che dovrebbero essere messe in campo a partire da domani, 
secondo gli scienziati (e il buon senso).
Un Paese fragile come il nostro dovrebbe essere tra i primi a fare i 
conti con queste evidenze ma né il governo del cambiamento (climatico?) 
né quelli che lo hanno preceduto sembrano concretamente interessarsi 
alla questione.
E lo dimostra, tra le altre cose, la strutturale e gravissima 
insufficienza nella gestione delle crisi ambientali acute, le così dette 
“emergenze” che ogni anno colpiscono sempre più pesantemente e 
contemporaneamente i territori come alluvioni, terremoti, nubifragi e 
grandi incendi.
Questa insufficienza, è doveroso precisarlo, esiste al netto della 
ammirevole reattività degli abitanti delle zone colpite e della 
generosità dei volontari della Protezione Civile (espressione dei 
territori), dei Vigili del Fuoco e dei Forestali (presenti solo nelle 
Regioni a statuto speciale ossia dove sono sopravvissuti all’infausta 
legge Madia targata Renzi-PD).
Molto semplicemente mancano i mezzi adeguati e mancano gli uomini.

Forse è per questo che i sindaci del centro Italia, travolti quasi due anni fa insieme ai loro cittadini dal terremoto e dalle bufere di neve, invocarono l’intervento dell’esercito (che fece giusto qualche comparsata ad uso per lo più d’immagine).
Probabilmente quei sindaci avevano in mente il “modello Friuli” dove, in 
occasione dell’esteso e devastante terremoto del 1976, l’esercito fu per 
lungo tempo insostituibile nei soccorsi e nella rimozione delle macerie 
(che infatti fu rapidissima) restituendo un proprio senso d’esistenza ad 
una Regione che ne sopportò oltremodo l’elefantiaco sovradimensionamento 
da guerra fredda.
Fu da quella esperienza che nacque poi la Protezione Civile.

Ma ancora oggi la Protezione Civile vive una cronica carenza di mezzi ed una capacità operativa/logistica nemmeno paragonabile a quella delle forze armate di allora.
Nel frattempo, invece di ridimensionare l’elefantiasi e di concentrarsi 
sull’unico senso che può avere un esercito in tempo di “pace”, si è 
trasversalmente deciso di trasformarlo in un costosissimo corpo di 
spedizione hi-tech impegnato a supportare le guerre statunitensi post 
’89 oltre confine. Per far fronte a questa nuova funzione neocoloniale è 
stata organizzata la professionalizzazione della truppa e 
necessariamente sospesa la leva costituzionale, l’obiezione di coscienza 
e il servizio alternativo nei Vigili del Fuoco.
Il risultato è che l’esercito oggi (al modico costo d’esercizio di 70 
milioni di euro al giorno) è un’organizzazione pressoché inutile per 
affrontare emergenze acute come quella che abbiamo sotto gli occhi né 
tantomeno è in grado di offrire un supporto logistico massiccio ed 
efficiente in cui inserire sinergicamente anche le altre risorse.
Oggi le forze armate sono impegnate in Iraq, Afghanistan, si apprestano 
a partire per il Niger, oppure le troviamo in Norvegia, proprio in 
questi giorni, per partecipare alla più grande esercitazione NATO dalla 
fine delle guerra fredda, la miliardaria Trident Juncture 2018.
Aggiungiamo a questo quadro desolante l’aziendalizzazione del comparto 
elettrico ed idrico che da servizio pubblico strategico si è convertito 
alla massimizzazione del profitto cessando di destinare risorse alla 
manutenzione nelle zone periferiche con poche utenze e perdendo 
conseguentemente capacità di intervento.
Ecco spiegato il disastro nel disastro ed il comprensibile e terribile 
senso di abbandono vissuto dai sindaci e dalla popolazione colpiti da 
emergenze multiple.
E se agli eventi calamitosi di questi giorni si sommasse un’altra 
emergenza, magari causata da un terremoto in una qualunque delle tante 
zone sismiche del nostro Paese? Considerato che il massimo 
dell’operatività è quella dimostrata in centro Italia le conseguenze 
sarebbero definitivamente catastrofiche.
Si impone come urgente una riforma organica che riporti l’esercito alla 
sua funzione costituzionale difensiva/territoriale, puntando sulle 
specializzazioni genieristiche e mediche e su concrete sinergie con 
Protezione Civile, Vigili del Fuoco e Corpi Forestali regionali.
In questa prospettiva (e solo in questa) acquisterebbe senso l’abbandono 
della “professionalizzazione” della truppa delle forze armate e il 
ripristino della leva militare e civile affinché queste possano 
diventare strumenti attivi ed integrati di un efficace sistema di 
gestione delle crisi e delle grandi manutenzioni ambientali, che sia 
popolare e diffuso, preparato ad affrontare e/o alleviare le conseguenze 
del caos climatico montante.
In questo senso sembra urgente ripensare alla radice i temi della 
“sicurezza” e della “difesa”: oggi più che mai non abbiamo bisogno di un 
costosissimo corpo di spedizione “professionalmente” belligerante, 
impegnato all’estero in una non meglio precisata “difesa” della patria” 
e dell’interesse nazionale. Non abbiamo bisogno di seguire la Nato nella 
sua guerra fredda 2.0.
Abbiamo bisogno che tutte le risorse potenzialmente disponibili vengano 
organicamente impegnate nella difesa dalle vere minacce alla sicurezza 
dei cittadini (terremoti, grandi incendi, alluvioni, dissesto 
idrogeologico).

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