Più che la guerra, l’Italia ripudia il buon senso. È sorprendente scoprire fra i dati contenuti negli stati di previsione allegati alla legge di bilancio che nel 2018 il ministero dello Sviluppo economico sganci 3,5 miliardi di euro per l’acquisto di armamenti militari (+ 5% rispetto al 2017). E ancora più sorprendente è realizzare che questo fiume di denaro è pari al 71,5% dell’intero budget dedicato alla competitività e allo sviluppo delle imprese italiane. Una quota sproporzionata di investimento per un settore che contribuisce allo 0,8% del Pil, mentre a quelle piccole e medie imprese tanto amate e difese in ogni campagna elettorale, che sul prodotto interno lordo pesano per il 50%, restano le briciole.
Non si tratta di numeri sparati a caso per fare propaganda a basso costo. A svelarli è l’Osservatorio sulle spese militari italiane nel secondo “Rapporto Mil€x”. Un progetto lanciato nel 2016 dal giornalista Enrico Piovesana e da Francesco Vignarca della Rete italiana per il disarmo. Senza questo strumento di monitoraggio indipendente sarebbe stato più difficile venire a sapere che nel suo complesso la spesa militare italiana per l’anno in corso ammonta a 25 miliardi di euro: l’1,4% del Pil, il 4% in più rispetto al 2017. Un trend di crescita avviato dal governo Renzi (+ 8,6% rispetto al 2015) che non sembra volersi arrestare. Nel 2018 cresce infatti il bilancio del ministero della Difesa (21 miliardi, + 3,4% rispetto al 2017) come continuano ad aumentare le spese per gli armamenti: 5,7 miliardi, l’88% in più rispetto a tre legislature fa. E si conferma la distorsione per cui queste spese sono possibili solo grazie ai contributi del ministero dello Sviluppo economico.
«Analizzando più nel dettaglio i finanziamenti previsti – spiega Enrico Piovesana – circa l’80% finisce nelle casse di Leonardo (ex Finmeccanica, al cui vertice siede l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, ndr). Poi ci sono Fincantieri, che negli ultimi anni ha intascato 5,4 miliardi di euro grazie alla nuova legge navale, Fiat Iveco per tutto ciò che riguarda i mezzi terrestri dell’Esercito e la Piaggio Aerospace, la società che sta costruendo i droni armati P2HH. Un’azienda ligure, di proprietà degli Emirati Arabi, in perenne crisi ma che grazie a un lavoro di lobbying ha ottenuto questa commessa, del tutto inutile fra l’altro: è buffo che l’Italia si faccia un proprio drone da sola, se non per far arrivare soldi e tenere in piedi un’azienda». La logica, sembra di capire, è che aerei, navi o carri armati non vengono commissionati dallo Stato perché servono ma esclusivamente per sostenere l’industria militare.
Missioni obbligate
Un primo paradosso, che va a braccetto con un secondo ancora più sconcertante. «Quando crei un sistema militare sovradimensionato sia dal punto di vista del personale (13 miliardi all’anno, il 60% della spesa militare complessiva, ndr) che da quello dei mezzi, per mantenerlo ci vogliono soldi – riprende Piovesana – Se alla manutenzione, che nei bilanci viene indicata come “esercizio”, riservi un miliardo sui venti e passa che ogni anno vengono destinati al solo ministero della Difesa, è come dire che hai un parco macchine pieno di Ferrari, Lamborghini e Porche ma dieci euro al mese per mantenerlo, pagare i meccanici e mettere la benzina… è ovvio che devi trovare un modo per far entrare il denaro necessario a mantenere le macchine che hai comprato. Che fai allora? Ti iscrivi a qualche gara, così guadagni un po’ di soldi con cui garantire questa manutenzione». È ciò che accade con le missioni all’estero. Nel documento programmatico pluriennale della Difesa del 2016 è scritto, nero su bianco, che i fondi per le missioni stanziati dal ministero dell’Economia (1,3 miliardi nel 2018) costituiscono un elemento irrinunciabile per far fronte alla quasi totalità delle spese di esercizio, in particolare per garantire la manutenzione dei mezzi e l’addestramento del personale. «L’Italia si sta sempre di più buttando in queste missioni (l’ultima in ordine di tempo è quella in Niger, vedi articolo a pag. 39, ndr) perché per la Difesa è l’unico modo di incamerare risorse che altrimenti non avrebbe – chiosa Piovesana – Anche dal punto di vista democratico, costruire un sistema militare così grande che deve trovare uno sbocco per sopravvivere non è proprio l’ideale».
Fra le tanti voci di spesa analizzate dal “Rapporto Mil€x” – dai 192 milioni all’anno di contributo ai bilanci della Nato ai 43 milioni per la base militare a Gibuti, la prima fuori dai confini dopo la fine del colonialismo – a colpire di più è quella relativa all’accordo di nuclear sharing con gli Stati Uniti. Il nostro Paese, è scritto nel dossier, fin dagli anni ‘50 ospita una cinquantina di bombe atomiche B-61: una trentina nella base Usa di Aviano, altre venti in quella italiana di Ghedi. «È la scoperta dell’acqua calda – dice ancora il ricercatore – e nessuno, a differenza del passato, ci ha smentito. Che gli ordigni nucleari ci siano è evidente, ormai ci sono anche le foto (si riferisce a uno scatto di gruppo con B-61 del 207° Munss di stanza nella base di Ghedi trovata tramite Facebook e pubblicata nel Rapporto, ndr). Ma il governo continua a negare tutto. Certo, dire ora che è vero, dopo averlo negato per decenni, creerebbe un putiferio perché dal punto di vista legale oltre ad andare contro l’art. 11 della Costituzione si infrange il Trattato di non profilerazione nucleare. Dal loro punto di vista è quasi comprensibile continuare a essere ipocriti».
Il lavoro dell’Osservatorio sulle spese militari italiane non è però soltanto analisi e diffusione di dati e informazioni. Francesco Vignarca, storico attivista della Rete per il disarmo, ha scelto, fra le tante proposte presenti nel Rapporto, due questioni specifiche da proporre al prossimo Parlamento (l’articolo è stato scritto a metà febbraio, prima delle elezioni del 4 marzo, ndr): «La prima è quella di ridurre le spese militari, perché sono fuori controllo, non hanno senso e l’Italia ha bisogno di altro. L’altra è quella di aderire al Trattato internazionale di messa al bando delle armi nucleari, perché non possiamo continuare a far parte di un ombrello di difesa nucleare che ha basato la propria sicurezza sulla disponibilità a distruggere intere popolazioni, forse anche l’intero pianeta. Per noi aderire è più complicato, ma farlo potrebbe davvero dare un segnale – continua Vignarca – Se Paesi come l’Italia, l’Olanda, la Germania o il Belgio, che hanno armi nucleari statunitensi sul proprio territorio, dovessero cambiare idea, si porterebbero dietro tutti gli altri. Sarebbe davvero un fatto epocale».
Un osservatorio indipendente
Pubblicati i primi due rapporti, per proseguire nel suo lavoro Mil€x ha lanciato una campagna di finanziamento. «Un osservatorio del genere, una sorta di authority governativa non politica, dovrebbe essere istituzionalizzato. C’è nel Nord Europa e anche negli Usa: il Government accountability office, una via di mezzo fra un garante e una Corte dei conti, che si occupa di tutto ciò che riguarda le spese militari – puntualizza Enrico Piovesana – Sono loro quelli che stanno facendo le pulci agli F35. Da noi, zero. Gli stessi parlamentari – per mancanza di tempo, voglia, competenze – vengono spesso buggerati. Come nel caso della legge navale, per cui riescono a fargli credere che bisogna comprare le navi umanitarie per salvare gli immigrati, poi invece si scopre che c’è una seconda portaerei, che ci sono altre fregate missilistiche… Chiedono i costi, poi scoprono che ce ne sono altri. Pretendono particolari tecnici ma non gli vengono dati. Da anni continuano a chiedere alla Difesa i contratti stipulati per gli F35 e quelli in previsione per sentirsi rispondere: “Non abbiamo documenti del genere”. Parliamo di uno dei più grandi programmi di investimento militare nazionale e non avete un file con scritto quanti contratti avete fatto e quanti ne avete in programma nei prossimi mesi? È proprio una volontà di non trasparenza, che richiede una determinazione altrettanto forte nel pretenderla». In maniera scientifica e senza “derive” ideologiche. «Siamo voluti uscire sia dal sensazionalismo giornalistico – conclude Piovesana – sia dai “vizi” che ci possono essere in una campagna pacifista. È ora, semplicemente, di dare tutti i numeri».