«Nessuno di noi è
interessato ad alcuna “riconversione”.
Non vogliamo essere trascinati in vertenze che, anche in
questo territorio, evocano solo scenari negativi, ma
vogliamo solo continuare a lavorare onestamente e
serenamente». Si conclude così la lettera recapitata tra
la notte di giovedì e ieri alle principali testate
locali sarde. L’oggetto, specificato qualche riga sopra,
l’impianto Rwm di Domusnovas, nella provincia
del Sud Sardegna, di cui un neonato comitato
– formato da 24 realtà della galassia pacifista – chiede
il passaggio al civile della produzione di ordigni. La
firma, in fondo, è quella dei «270 lavoratori e
lavoratrici dello stabilimento Rwm Italia di Domusnovas
» e i «104 lavoratori e lavoratrici dello stabilimento
Rwm Italia di Ghedi».
Nel bilancio 2016 della
società, però, risultano 83 dipendenti in Sardegna e 69
nel bresciano, per un totale di 152. La cifra indicata
nella missiva, probabilmente, include l’indotto, su cui
non si hanno, però, stime certe. Non è l’unico elemento
della lettera a suscitare interrogativi: il testo è
scritto su carta intestata della Rwm. Il mittente sono
due indirizzi email. Il primo è intestato alla
rappresentanza sindacale unitaria dell’azienda, con
dominio di quest’ultima. Il secondo a un privato,
incaricato di seguire la comunicazione con i media.
Entrambi sono stati contattati. Solo quest’ultimo ha
risposto: «Mi attivo per farle sapere se è possibile il
rilascio di qualche intervista». Poi, basta.
Il tono del documento è
duro. I «lavoratori di Rwm» negano di essere
vittima «di un presunto ricatto occupazionale,
costretti a un lavoro che facciamo nostro malgrado, per
colpa di un territorio che non offre nulla di
alternativo». Al contrario, dicono di lavorare
nell’impianto per «libera scelta, fatta con
coscienza». Però poi sottolineano: «Oggi, senza la
possibilità di lavorare in questa azienda, molti di
questi colleghi sarebbero disoccupati». La proposta di
riconversione, in ogni caso, viene definita
«fantomatica», «ingannevole », «superficiale» e «mossa
da sterile ideologia». Eppure, negli anni Novanta, si
sono avuti alcuni esempi interessanti in tal senso. Come
quello di Valsella, storica produttrice di mine
anti-uomo poi passata a fare componenti elettronici.
Grazie alla strenua battaglia di cinque operaie. «Anche
da noi è stato difficile convincere i colleghi della
necessità di una riconversione. La prima reazione è
sempre quella di chiudersi dietro la formula: “Tanto se
non facciamo noi le armi le faranno altri”. La risposta
per Valsella come Rwm è la stessa: “Intanto smettiamo di
farle noi”», spiega ad Avvenire Franca
Faita, una delle protagoniste della lotta.
Certo – prosegue – la «sensibilizzazione è un lavoro
lungo e faticoso. Gli impieghi nell’industria bellica
sono molto ben remunerati. Poi, ci sono le pressioni
indirette. Ma ce la si può fare. La riconversione è
possibile: basta la volontà».