Prima
dell’incontro. Dopo l’incontro. I 140 minuti di
conversazione tra Donald Trump e Vladimir Putin, venerdì
ad Amburgo, segnano uno spartiacque nelle relazioni tra
i due presidenti e tra le due superpotenze?
Prima del bilaterale amburghese, i media americani e
l’opposizione democratica avevano costruito e alimentato
una riuscita narrativa mediatico-politica basata su un
efficace, anche se mai dimostrato, collegamento tra
l’elezione dell’immobiliarista newyorkese e le trame a
suo favore del nemico di sempre, un racconto durato mesi
e destinato ad accompagnare il presidente repubblicano
durante tutto il suo mandato.
E adesso, dopo l’incontro?
Dopo il
colloquio, è stato fatto sapere che, come prima cosa,
Trump ha chiesto in modo franco e diretto
all’interlocutore proprio di dare spiegazioni sulle
manovre e sulle intrusioni nella campagna presidenziale
americana che gli sono attribuite.
È ovvio che
qualsiasi cosa abbia detto Putin e qualsiasi sia stata
la reazione di Trump – se abbia preso atto, come
racconta il ministro degli esteri Lavrov, presente al
colloquio – è di scarso rilievo rispetto a come la
prenderanno gli avversari del presidente.
Come prevedibile, le prime reazioni di quel fronte
descrivono un Trump a cuccia al cospetto del suo
padrone.
Ma né Trump
né Putin avevano in mente di poter placare l’America
democratica che avversa l’attuale presidente, con un
solo incontro. Il cui scopo sembra infatti andare molto
al di là di questo, nelle intenzioni dei due leader.
Non è un incontro occasionale, tattico. È strategico.
Dal punto di
vista prettamente elettorale, sia il leader russo sia il
leader americano si rivolgono costantemente, in tutte le
loro iniziative, alla propria parte politica, ai propri
sostenitori, ben sapendo che non ci sarà modo per
persuadere delle loro ragioni gli avversari, da colpire,
anzi, per rafforzare il consenso delle proprie basi
fedeli.
La portata politica dell’incontro – dal punto di vista
degli interessi dei due presidenti – è dunque
soprattutto nel suo valore simbolico, una valenza che i
due hanno voluto rafforzare con un paio di decisioni
riguardanti le principali questioni conflittuali – in
senso proprio ma anche metaforico – quelle più cogenti e
più cariche di problemi politici, geopolitici,
umanitari: la Siria e l’Ucraina.
Se, su
questo terreno, i due tiusciranno a cogliere un
risultato apprezzabile, nei rispettivi paesi e di fronte
al mondo, è logico che anche il tema cruciale delle
attività russe sul suolo americano perderà grandemente
di peso. Altrimenti, sarà vero il contrario. In entrambi
i casi con conseguenze importanti. Non ci vorrà molto
per capirlo.
Trump, come
sempre, è andato impreparato al colloquio, fidandosi del
suo istinto e credendo nelle virtù taumaturgiche delle
sue capacità persuasive e seduttive nel contatto
vis-a-vis. Accompagnato dal fidato Rex Tillerson,
segretario di stato, ex capo di Exxon, ottimo
conoscitore della Russia e dei suoi capi. Putin era
assistito da Sergei Lavrov, e da buon ex-Kgb è arrivato
preparato all’appuntamento. Avevano fissato in una
mezzora, una quarantina di minuti, il colloquio: è
durato più del triplo. Il messaggio della lunga durata
della conversazione è che tra i due è scattata una buona
chemistry personale, c’è chimica tra i due, come hanno
poi tenuto a far sapere i due ministri. Già, perché
Putin e Trump, per dare ancora più il senso di un
incontro cruciale, hanno incaricato Lavrov e Tillerson
di resocontare alla stampa, e ognuno dei due ha
ovviamente elogiato la propria parte, entrambi sintonici
però nel trattare l’evento come un fatto epocale, se non
altro rispetto alle aspettative della vigilia.
Mai sapremo
se la lunga durata del colloquio era programmata o se
sia stato semplicemente il risultato della nota
inclinazione di Trump allo sproloquio narcisistico. Ma
che importa? L’incontro ha avuto l’effetto di mettere in
ombra l’intero vertice del Venti e tutti gli altri
diciotto protagonisti, con il chiaro segnale che, anche
nel mondo d’oggi, del G7 e del G20, dell’emergere di
nuove superpotenze e di nuovi leader, e nell’era della
globalizzazione, a dare le carte sono ancora Washington
e Mosca, la Casa bianca e il Cremlino.
Proprio come ai tempi della guerra fredda.
Putin e
Trump hanno lo stesso interesse a ripristinare il
vecchio asse intorno a cui ruotava il pianeta nel
Novecento. Un rapporto allora altamente conflittuale che
oggi potrebbe perfino configurarsi come una relazione
amichevole e produttiva. Era questa infatti l’ipotesi
principale su cui poggiava la scommessa presidenziale di
Trump in politica estera, uno scenario che gli avrebbe
consentito di abbozzare un nuovo ordine mondiale e,
soprattutto, permesso di dedicarsi al suo programma
domestico, che è quello che gli sta più a cuore e sul
quale si gioca tutto.
Questo
percorso ha trovato fin dall’inizio enormi ostacoli in
un potente establishment cresciuto e consolidatosi
intorno alla dottrina del Grande Nemico, non importa che
l’Urss sia crollata da quasi un trentennio. Poi
naturalmente l’improvvisazione e l’impreparazione di
Trump hanno fatto il resto.
Dopo Amburgo
si vedrà se quell’ipotesi può essere recuperata o meno.
Lo si vedrà innanzitutto sui terreni concreti
dell’Ucraina e della Siria, dove, se l’intesa produrrà
qualche risultato reale e credibile, si potrà parlare di
una chimica tra due leader che effettivamente può aprire
la strada a un equilibrio internazionale da loro
modellato. Che avrà molto del vecchio ordine a cui tutti
siamo abituati, non solo quelli delle generazioni che
l’hanno vissuto, ma perfino le giovani generazioni. Oggi
spaesate in un mondo disordinato e confuso. Un nuovo
ordine mondiale nel quale sapremo nuovamente con chi
prendercela.