[Disarmo] Lo stato postmoderno dove regna la paura



Lo stato postmoderno dove regna la paura

Tempi. «Terrore sovrano» di Marina Calculli e Francesco Strazzari per Il Mulino. Il libro è un’ottima bussola per evitare le trappole della propaganda e i discorsi geopolitici reazionari, addentrandosi nel mondo arabo

 

Hanaa Malallah's, «Stalemate Chess» 

Simone PieranniIl Manifesto

Tra terrore ed entità statale esistono diversi nessi e proprio la storia degli stati arabi lo dimostra: la violenza – nel tempo – è stata utilizzata tanto per controllare territori, quanto per dare vita a nuove strutture di potere e per reclamare nuove forme di autorità e sovranità. Analogamente, il legame tra stato e terrore appare in grado di autoalimentarsi attraverso un rapporto ravvicinato tra la violenza usata per reprimere il terrore e la sospensione dei valori «liberali» delle nostre società, per creare «stati di eccezione» proprio in contrasto alla violenza dei terrorismi.
Se è vero che spesso si parla (specie in televisione) o si scrive con approssimazione su temi come islamismo, terrorismo, sovranità e territorio, è altrettanto realistico trovare pubblicazioni serie e articolate che finiscono per profondersi in «specialismi», dando vita ad analisi ricche e sicuramente originali, senza tenere conto però della concatenazione che esiste tra un determinato luogo, e tutto quanto vi accade, e processi in atto nel resto del mondo.

MARINA CALCULLI e Francesco Strazzari in Terrore sovrano, stato e jihad nell’era postliberale (Il Mulino, pp. 204, euro 16) analizzano la peculiarità dello sviluppo filosofico e politico del mondo arabo, attribuendogli indubbia specificità (per esempio nella carrellata sulla formazione degli stati in epoca post coloniale, rivendicando una originalità di quel processo al di là delle indubbie influenze occidentali) ma collegandolo a quanto nel frattempo accadeva nel resto del mondo, considerando dunque quei fenomeni economici e sociali internazionali fondamentali per comprendere a pieno le ragioni di determinate evoluzioni.

Ecco allora che la trasformazione del concetto di «stato» nel mondo arabo (determinante per comprendere il sorgere dei fenomeni jihadisti) e la sua importanza nel mondo contemporaneo, non può essere isolato rispetto a quei processi neoliberisti che hanno finito per modificare per sempre le percezioni di sovranità, legittimità e «patto sociale». Come scrivono gli autori del volume, per comprendere la strategia dell’Isis, i suoi metodi e il suo scombussolare il concetto di entità territoriale (pur rifacendosi nel nome a un’entità statuale, così come del resto aveva fatto al Qaeda, «la base») è necessario comprendere il mutamento del concetto di sovranità nel mondo arabo; si tratta infatti di una trasformazione motivata «dal modo in cui lo stato si ridefinisce nell’era del neoliberismo economico: se da una parte il dato territoriale resta il marchio visibile della resilienza dello stato nazione, dall’altra la sfera della politica rappresenta sempre meno il fulcro dell’esercizio della sovranità politica», ovvero tutto quanto sancisce il patto sociale tra governanti e governati.

In epoca neoliberista, infatti, le «comunità immaginate» delle nazioni si disgregano perché si articolano in nuovi comunitarismi, «nuove forme di interazione e nuove realtà politiche che seguono i flussi del capitale privato». In questo senso si può leggere l’approdo di quella «guerra fredda» del mondo arabo che per molto tempo è stato ben rappresentato dal tentativo laico egiziano contrapposto all’Arabia saudita, e poi dalle proposizioni socialisti (o tendenti al socialismo) contrastate da spinte religiose fomentate da Stati uniti e potenze occidentali che ben vedevano qualsiasi forza si contrapponesse all’ateismo di matrice sovietica.

QUANDO LA SIRIA di Assad – per esempio – passa alla sua fase di politica economica mista, «alla cinese», come viene ricordato nel libro, e spuntano le prime banche private e arrivano le prime conseguenze delle riforme in senso liberista, Damasco perde la fiducia dei governati, che finiscono tra le braccia di enti religiosi, da sempre attivi nel mondo della carità e del sostegno ai meno abbienti, e in grado di inserirsi in imponenti flussi di denaro privato, tanto interni, quanto internazionali, data la «guerra fredda» ancora in corso.
Questi «nuovi comunitarismi», dunque, «sono solo apparentemente un ritorno alla tradizione, mentre in realtà rappresentano la sua invenzione postmoderna, inseguendo le modalità tipiche di organizzazioni sociali neoliberiste», quanto di più simile – come viene ricordato nel volume – a quella tendenza che per Deleuze e Guattari «crea macchine mondiali ecumeniche e neoprimitivismo».
La concomitanza della stessa matrice tra stato e terrore giunge al suo culmine quando una forza egemonica si dissolve. Nel mondo arabo postcoloniale – secondo gli autori – questo è accaduto in quattro momenti diversi, quattro «tornanti storici»: il primo riguarda la formazione degli stati arabi, attraverso un nazionalismo preponderante tra il 1950 e il 1970.

È IN QUESTA FASE che si rafforzano gli apparati di sicurezza e la legislazione di emergenza. Il secondo tornante è quello degli anni ’70 e ’80 quello delle riforme volute dagli organismi economici internazionali: è il periodo di forti contestazioni («i moti per il pane») e dello sviluppo di movimenti islamisti «che contestano lo stato secolare». Il terzo momento è la fine della guerra fredda che «in Medio oriente coincide con la guerra del golfo» nel 1990-91. La crisi di egemonia in questo caso è rappresentata dalla volontà di Usa e stati del golfo di «ridimensionare il potere delle repubbliche arabe e socialiste». Il quarto tornante va dall’invasione americana dell’Iraq alle rivolte arabe del 2011: in questo arco temporale si costituiscono quei «regimi di sovranità» non intesi come «organizzazioni internazionali ma come forme di autorità politica svincolate dalla territorialità dello stato-nazione e fortemente corroborate da identità (sunnita e sciita) politicizzate».

NEL MARASMA degli eventi, delle diverse forme di propaganda cui siamo sottoposti, Calculli e Strazzari ci forniscono una bussola per un’analisi di sinistra (con riferimenti, rimandi espliciti e critica anche a Foucault) che non rischia di cadere nel complottismo o nell’anti-atlantismo tout court, mettendo finalmente in discussione anche il grande ritorno della geopolitica, non proprio un termine «chiamato a descrivere un campo del sapere fra gli altri, ma un discorso politico ben strutturato attorno dalla designazione del pericolo, alla costruzione di una minaccia».
Il discorso geopolitico – reazionario, in termini politici – applicato al mondo arabo ha finito per rappresentare i conflitti in atto «come espressioni identitarie ancorate al dato etnopolitico», dando per scontato che dietro tutto quanto ci sia una realtà orchestrata «più o meno sinistramente», dal calcolo di potenze globali o regionali che competono per l’egemonia. Il rischio – in cui cade anche molta «sinistra» – è quello di confondere le volontà egemoniche (o di «sicurezza nazionale») dei governi con i conflitti sociali e di classe interni ai singoli stati o ormai giocati anche su livelli transnazionali.

LA GEOPOLITICA predica di fondarsi sul realismo prediligendo due nozioni su tutti, interesse e sicurezza nazionale. Ma questi due concetti sono oggi gli strumenti con cui le élite di governo «non più ideologiche e post guerra fredda si vincolano a una più ampia base di consenso», prodromi dei recenti populismi e neo-sovranismi «con un occhio a che la bussola resti orientata da un sano realismo anche laddove per paradosso, le dottrine imperanti di estrazione liberale e neoliberale, predicano interdipendenza e globalizzazione».
In questo senso, dunque, il discorso geopolitico trasforma i rischi in minacce reali, candidandosi «al ruolo di ala militarizzante del realismo: quella che solleva il problema del controllo del territorio, dell’azione unilaterale preventiva e risolutiva, quella che porta al negoziato solo dopo il fatto compiuto», quella che, potremmo aggiungere, porta all’egemonia di un concetto di sicurezza, prodromo di desideri di sistemi «sovranisti» sempre più simili tra loro e sempre più autoritari.