Cosa significherà sul piano politico la sopraggiunta distensione tra Israele e Unione europea non è ancora chiaro. Per ora si sa che le due parti hanno fumato il calumet della pace mettendo da parte le tensioni seguite alla decisione presa lo scorso 11 novembre dalla Commissione europea di richiedere una etichettatura diversa dal “Made in Israel” per le merci prodotte nelle colonie israeliane costruite nei Territori palestinesi e siriani occupati. In un colloquio telefonico due giorni fa tra il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il capo della diplomazia europea Federica Mogherini, è stato deciso che le «relazioni tra le due parti devono essere condotte in un’atmosfera di fiducia e mutuo rispetto: un’atmosfera che sarà di aiuto per far avanzare il processo di pace in Medio Oriente». Netanyahu sarà nelle prossime settimane a Bruxelles per definire i termini l’intesa.
I nostri tentativi di ottenere maggiori particolari sulle intese dai rappresentanti della Commissione europea a Gerusalemme non hanno avuto successo. Gli interrogativi sono importanti. Appena qualche giorno fa regnava il gelo tra le due parti, con il governo Netanyahu deciso, come aveva annunciato a novembre, a tenere a distanza l’Ue da qualsiasi negoziato futuro tra Israele e palestinesi (una pura ipotesi tecnica vista la situazione). Poi, all’improvviso, è tornato a splendere il sole e sul volto del premier israeliano è apparso il sorriso. Fonti europee riferiscono che alcuni Paesi dell’Unione, quelli storicamente più vicini a Tel Aviv e anche la Grecia di Tsipras, hanno premuto con forza per ricucire lo strappo con Netanyahu.
Determinante sarebbe stato l’arrivo a Gerusalemme, la scorsa settimana, della vice segretario generale dell’Unione per le relazioni esterne, Helga Schmid, incaricata di mettere fine ai contrasti. Schmid ha avuto lunghi colloqui con il direttore del ministero degli esteri Dore Gold trovando, evidentemente, le giuste intese. Quali? Possibile che il premier Netanyahu si sia accontentato di una assicurazione che l’Ue non cercherà di determinare lo status futuro dei Territori occupati fuori dal tavolo delle trattative bilaterali israelo-palestinesi? Certo i rapporti con l’Europa sono molto importanti per Israele ma è difficile credere che il governo Netanyahu si sia dimenticato della questione dell’etichettatura diversa per i prodotti delle colonie e delle altre misure adottate dall’Ue contro gli insediamenti colonici. Il sorriso del primo ministro deriva, ci spiegavano ieri fonti europee, dal fatto che i vertici dell’Unione hanno accettato di finanziare solo dopo il via libera dell’esercito di occupazione israeliano, nuovi progetti nella zona C della Cisgiordania, il 60% di questo territorio palestinese che 22 anni dopo la firma degli accordi di Oslo resta sotto il controllo esclusivo di Israele. I progetti dell’Ue avviati “senza autorizzazione” hanno fatto infuriare i leader israeliani che considerano la zona C della Cisgiordania un territorio di fatto annesso allo Stato ebraico. In quest’area infatti non conosce soste la colonizzazione che era e resta saldamente in cima al programma del governo Netanyahu. I nuovi colloqui avrebbero aperto la strada anche a nuove intese in materia di sicurezza. Mogherini inoltre ha espresso «solidarietà con il popolo israeliano alla luce degli attacchi terroristici delle recenti settimane». Parole che lasciano immaginare che l’Ue non rimarcherà cause, contesto e occupazione militare israeliana se e quando interverrà sull’Intifada e quanto accade nei Territori occupati.
Situazione che resta molto tesa. Ieri una 18enne palestinese, Kilzar al-Eweiei, è stata uccisa a Hebron dopo aver ferito con un coltello un soldato e un altro palestinese. Quest’ultimo, Abed al Rajabi, 52 anni, dopo l’accoltellamento del soldato avrebbe cercato, secondo il resoconto dell’accaduto fatto dall’agenzia palestinese Maan, di coprire la ragazza per impedire che venisse uccisa dai militari ma è stato raggiunto da una pugnalata sferrata dalla donna convinta, forse, di trovarsi di fronte un colono israeliano. Intanto si aggravano le condizioni di Mohammed al Qiq, il prigioniero politico palestinese in sciopero della fame in un carcere israeliano da oltre 70 giorni. In suo sostegno ieri sera a Gerusalemme sono scesi anche numerosi attivisti israeliani e due di loro, Anat Lev e Anat Rimon Or, da venerdì digiunano per chiedere la liberazione immediata di al Qiq, in detenzione amministrativa senza processo dallo scorso 21 novembre.