[Disarmo] Bergoglio, che la memoria sia lunga a Sarajevo



di Tommaso Di Francesco

Il papa in Bosnia Erzegovina.
Viaggio nel precipizio balcanico, passato e futuro dell’Europa. Dove il regolamento di conti scattò anche per responsabilità di Wojtyla

Papa Ber­go­glio oggi sarà in visita a Sara­jevo, capi­tale di un Paese, la Bosnia Erze­go­vina, che resta ancora diviso dopo la guerra che l’ha dila­niato dal 1992 al 1995. Da una parte c’è la Fede­ra­zione croato-musulmana unita solo sulla carta, nel rispetto della “pace di carta” di Day­ton del novembre-dicembre ’95, per­ché sem­pre in preda alle istanze nazio­na­li­ste croate che pun­tano a una Her­ceg Bosna, patria dei croati di Bosnia da annet­tere alla Croa­zia, e dall’altra parte c’è la Repub­blica serba di Bosnia. Gli orga­ni­smi uni­tari dello “stato” esi­stono anch’essi per modo di dire. La pace è sem­pre vigi­lata dalla Nato e dall’Onu. La società è uni­fi­cata solo dalla disoc­cu­pa­zione e dalla mise­ria, con fre­quenti e dif­fuse pro­te­ste dei lavo­ra­tori, men­tre le mafie di ogni etnia hanno fatto for­tuna con la guerra e alle lea­der­ship poli­ti­che afflui­sce un mare di denaro degli orga­ni­smi internazionali.

Qui il papa gesuita che punta a rifon­dare la Chiesa, e che ha vis­suto il dramma san­gui­noso dell’Argentina degli anni Set­tanta esploso den­tro e attra­verso le strut­ture della chiesa in fran­tumi con il golpe dei mili­tari in parte auspi­cato e in parte subìto, sarà il miglior testi­mone di un con­flitto inte­stino, nel luogo sim­bo­lico della guerra fra­tri­cida. È bene comun­que che la sua e la nostra memo­ria sia di lunga durata. Solo chi non dimen­tica le pro­prie respon­sa­bi­lità può infatti essere cre­di­bile e dare spe­ranza. Lì non c’è solo l’immagine ori­gi­na­ria dell’inizio del prima con­fla­gra­zione mon­diale, ma anche della prima nuova guerra etnico-nazionalistica scop­piata anch’essa in Europa. Non un resi­duo del pas­sato ma, alla luce delle attuali divi­sioni euro­peee, avan­guar­dia pro­ba­bile di una più pro­fonda deva­sta­zione, per­ché quel luogo potrebbe essere non il nostro pas­sato ma il nostro futuro. Qui infatti è stata messa alla prova la novità rap­pre­sen­tata dalla nascita dell’Unione euro­pea, pro­prio qui è nata uti­liz­zando per la sua cre­scita abnorme — fino a ridursi oggi a una moneta — pro­prio la distru­zione di un altro pre­e­si­stente stato fede­rale, quello jugoslavo.

Come defi­nire altri­menti se non un anti­cipo delle attuali divi­sioni euro­pee — senza dimen­ti­care gli spet­tri attuali della vicenda ucraina — il crollo di quella fede­ra­zione pro­dotta da una ter­ri­bile crisi eco­no­mica a metà degli anni Ottanta? Una crisi che acce­lerò la rot­tura del patto fede­ra­tivo jugo­slavo pro­prio di fronte ai costi da pagare della crisi, che le repub­bli­che più ric­che si rifiu­ta­rono di accet­tare facendo a pezzi la soli­da­rietà isti­tu­zio­nale che le vedeva legate alle repub­bli­che più povere e sul lastrico?

Certo la deriva nazio­na­li­sta era intrin­seca ai limiti della riforma jugo­slava di Tito e Kar­dely del ‘74 che pre­ve­deva il diritto di veto delle varie nazio­na­lità. Ma cosa deter­minò dav­vero il pre­ci­pi­zio bal­ca­nico? Fu l’insorgenza nazio­na­li­sta interna, for­tis­sima prima poli­tica e poi armata – qui il favo­leg­giato “demo­cra­tico ’89″ fu solo nazio­na­li­sta – che venne for­te­mente soste­nuta dalle capi­tali euro­pee pronte ad acca­par­rarsi alleati nel Paese che stava per sfa­sciarsi, per costruire inge­renze e con­trollo di aree geo­stra­te­gi­che in fun­zione delle nuove gerar­chie del Vec­chio con­ti­nente dopo la caduta del Muro di Ber­lino e la riu­ni­fi­ca­zione for­zata delle due Ger­ma­nie. E que­sto nono­stante che pro­prio all’inizio della sua sto­ria, l’Unione euro­pea isti­tuendo la Com­mis­sione Badin­ter avesse deciso, a fronte della fine dell’Urss, che non si dove­vano rico­no­scere «indi­pen­denze pro­cla­mate uni­la­te­ral­mente, su base etnica e con la vio­lenza». Accadde esat­ta­mente il con­tra­rio. Men­tre ancora esi­steva uno stato uni­ta­rio, la Fede­ra­zione jugo­slava, con un governo rap­pre­sen­ta­tivo delle varie nazio­na­lità, una sede all’Onu e un pre­si­dente eletto che cor­reva nelle sedi inter­na­zio­nali per avere l’appoggio all’unità della Fede­ra­zione, il Vati­cano, subito dopo la rinata Ger­ma­nia, rico­nobbe nel gen­naio 1992 le indi­pen­denze di Slo­ve­nia e Croa­zia, che si erano pro­cla­mate nazioni indi­pen­denti sulla base etnica della «slo­ve­ni­cità» e della «croaticità».

Arte­fice dell’iniziativa irre­spon­sa­bile fu papa Woj­tyla, quello che papa Ber­go­glio ha pro­cla­mato «beato». Per­ché fu irre­spon­sa­bile e cri­mi­nale quella scelta? Per­ché — con l’avvallo della Chiesa che in Croa­zia era stata con­ni­vente con il regime fasci­sta degli usta­scia — inne­scava subito la resa dei conti con le popo­la­zioni che non erano né slo­vene né croate ma che vive­vano nei con­fini ammi­ni­stra­tivi jugo­slavi diven­tati ora nuove fron­tiere nazio­nali; e soprat­tutto per­ché pre­ci­pi­tava sulla Bosnia Erze­go­vina, la pic­cola Jugo­sla­via, dove tutte le nazio­na­lità erano rap­pre­sen­tate e dove tutto infatti esplose.

Il papa, rac­con­tano le cro­na­che di Sara­jevo, cele­brerà la messa sedendo su uno scranno pro­dotto dall’artigiano bosniaco musul­mano Salim Haj­de­ro­vac, che ha lavo­rato al manu­fatto (nella foto LaPresse gli ultimi ritoc­chi, ndr) come gesto di dia­logo tra le varie comu­nità reli­giose. È un indub­bio gesto di ami­ci­zia, nell’anno del ven­ten­nale della strage di Sre­bre­nica per­pe­trata dalle mili­zie serbo-bosniache, il fatto di san­gue più grave dalla Seconda guerra mon­diale nel sud-est euro­peo. Tut­ta­via Ber­go­glio non dimen­ti­chi la fatica neces­sa­ria dell’ecumenismo e i suoi fal­li­menti. In Bosnia Erze­go­vina le reli­gioni sono per­lo­meno tre e con tutto il loro peso: la musul­mana, l’ortodossa cri­stiana e il cat­to­li­ce­simo. Ognuna, durante la guerra, è stata omi­cida dell’altra e iden­ti­fi­cata con una pic­cola patria. Se il prin­ci­pale mas­sa­cro che viene ricor­dato è giu­sta­mente quello di Sre­bre­nica, non vanno dimen­ti­cati i cri­mini dei musul­mani con­tro i serbi, né quelli dei cat­to­lici croati con­tro i musul­mani e serbi. La guerra a Mostar, la seconda città ancora divisa e con­tesa della Bosnia Erze­go­vina„ non è stata meno san­gui­nosa dello scel­le­rato asse­dio serbo bosniaco di Sara­jevo. È così dif­fi­cile testi­mo­niare tutto que­sto che lo stesso Woj­tyla, nella sua visita a Sara­jevo dell’aprile 1997, fu oggetto di un atten­tato sven­tato all’ultimo momento, con uno scon­tro altret­tanto san­gui­noso all’interno del governo e dei ser­vizi segreti musul­mani, gli stessi che ave­vano per­messo per pareg­giare le sorti della guerra con­tro i più bel­li­cosi serbi, l’ingresso in Bosnia di migliaia di muja­hed­din afghani e arabi con tanto di auto­riz­za­zione occi­den­tale. Dun­que, c’è poco da trion­fare. Che la memo­ria sia lunga.