[Disarmo] A Molfetta un mare di bombe chimiche
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- Date: Tue, 21 Jan 2014 14:54:28 +0100 (CET)
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3 articoli interessentati del Manifesto: A Molfetta un mare di bombe chimiche, Ecco tutte le località diventate cimiteri di veleni di guerra e Siamo preoccupati vogliamo la verità
A Molfetta un mare di bombe chimiche
Angela Mayr, 20.1.2014
Mentre a Gioia Tauro protestano per l’arrivo delle ogive del disarmo siriano, nel porto pugliese da anni affiorano migliaia di ordigni: è l’arsenale chimico delle 17 navi alleate affondate nel 1943 nel bombardamento nazista di Bari. I pescatori tra i più colpiti dalla tossicità dei pericolosi residuati. Ora è nato un Comitato
La "cassa di colmata" nel porto di Molfetta
Molfetta, città marinara, 60mila abitanti, 25 km a nord di Bari. Qui tutti, più o meno consapevolmente dormono su una grande «atomica» chimica. Anche il più anomalo e originale molfettese, il cittadino del mondo Caparezza, è seduto su un vulcano di scorie belliche, e lo sa bene visto che, come ci ha raccontato, lo ha denunciato nel suo concerto autofinanziato di fronte al mare già nel 2009.
È così, ìl mare davanti a Molfetta, è una delle più grandi discariche di bombe chimiche disseminate di tutto l’occidente. «Molfettamina» cantava Caparezza, al secolo Michele Salvemini, «la sostanza che mi balla nella pancia quando perdo la speranza». Tra le onde, qua e là, non si sa esattamente dove, manca una ricognizione precisa, balla la mina iprite, caricata in ogive ormai corrose, può lentamente fuoruscire. Pericolosa quanto le sostanze impiegate dalla guerra in Siria in arrivo nel porto di Gioia Tauro.
In tempi di pace le sperimentano i pescatori, quando le reti che tirano su si impigliano in qualche ordigno. «È successo anche oggi (sabato nda) — ci dice il dottor Guglielmo Facchini che ha in cura molti pescatori– e accade tutti i giorni». 239 sono i feriti gravemente e 5 i morti accertati ufficialmente dal 1946 alla fine degli anni 90. I numerosi e continui incidenti recenti non sono stati ancora riconosciuti.
Arriviamo al porto che l’altro molfettese Salvemini, il famoso storico Gaetano, descriveva come due braccia protese verso il mare e l’orizzonte. Eccolo con le sue braccia, in mezzo solo una cinquantina di pescherecci ancora in attività. Città di contadini e di pescatori, armatori e emigranti, Molfetta era stato il più importante porto di pesca d’Italia dopo Mazzaro del Vallo. Adesso l’orizzonte di Salvemini è spezzato, sbarrato dall’ ecomostro, il nuovo porto commerciale, costruito in un letto pieno di bombe. In una situazione di tale era un progetto del tutto irrealistico che non doveva mai iniziare e non potrà mai finire ha scritto la procura di Trani che l’ottobre scorso ha sequestrato la grande opera, non terminata, già costata 70 milioni di euro. Intanto è stato distrutto un panorama unico che era sottoposto a vincolo storico paesaggistico. Ed è sparita un alga preziosa e rara la poseidonia che si trovava in quelle acque, una pianta protetta, soppiantata da un altra, l’alga tossica come ha denunciato Legambiente nel 2009 con un esposto.
Ecco, addosso al vecchio, il mega-porto nuovo, voluto dal fu ràs di Berlusconi Antonio Azzolini, sindaco e domine assoluto di Molfetta dal 2006 al maggio 2013, e insieme presidente della commissione bilancio del senato, (carica che tuttora occupa, ma ora è nel gruppo di Alfano). Usando il doppio incarico il senatore sindaco apriva — e a tutt’oggi apre — il rubinetto-porto per finanziare qualunque attività e spese correnti come emerge dagli atti della procura di Trani che ha rinviato a giudizio Azzolini per associazione a delinquere, truffa a danno dello stato, concussione e altri reati l’ottobre scorso. Tra i 63 rinviati a giudizio anche la Cooperativa Muratori e Cementisti (Cmc) di Ravenna, per associazione a delinquere, che è anche la maggiore azionista dei lavori per la Tav della Val di Susa. Il 6 marzo a Trani inizierà la procedura probatoria.
Ci accompagnano Matteo d’Ingeo coordinatore del movimento civico Liberatorio politico che da anni si batte per un ’operazione verità sul porto e sulle bombe chimiche a mare, «la nostra Ilva, solo che non si vede», e Mauro Mongelli di Alternativa comunista, (un gruppo presente in modo significativo tra i cassaintegrati della Om di Bari e alla Cicolella di Molfetta). «…e aggiustn e sfascn e aggiustn e sfascn » (Molfettamina, Caparezza): tutto il porto? Sul suo futuro il dibattito è per ora rinviato. D’Ingeo, autore di numerosi esposti, ci indica le «zone rosse» del cantiere, così chiamate perchè particolarmente affollate di bombe tanto da rendere impossibile il lavoro di dragaggio e ancor prima di ricognizione preliminare: Il motivo per cui la ditta incaricata a farla, la Locatelli di Trieste ha rimesso l’incarico. Il dragaggio poi ha stuzzicato le bombe disseminate creando una discarica nella discarica, la cosiddetta cassa di colmata dove finivano scarti vari mischiati a ordigni.
I lavori di bonifica dello Sdai (nucleo della Marina militare addetto allo sminamento) iniziati nel 2008 si basavano su una ricognizione solo parziale, non sistematica. 15 mila sono stimate le sole bombe caricate di sostanze chimiche come l’iprite, chiamato anche gas mustarda, il fosfogene, la lewisite, gas tossici e vescicanti contenuti in fusti e damigiane — creati per uccidere e per durare — , oltre a decine di migliaia di ordigni convenzionali affondati nel mare davanti a Molfetta. È l’arsenale chimico che si trovava nelle stive delle 17 navi inglesi e americane che nel 1943 furono sventrate da un feroce bombardamento nazista nel porto di Bari. Fu una notte d’ inferno, con la città illuminata a giorno dalle fiamme, una seconda Pearl Harbour per la flotta americana, coperto da un silenzio durato per decenni. Il porto di Bari andava liberato in fretta le bombe smaltite a largo di Molfetta. Ma, non sempre alle tre miglia e a 600 o 800 metri di profondità previste arrivarano, affidati a cooperative di pescatori pagati a tratta finirono spesso in acque più vicine. Non bastava, nel basso Adriatico, a Molfetta sono state sganciate anche le bombe Nato della guerra del Kosovo. Nel 2009 l’ Accordo di programma per la bonifica del basso Adriatico tra ministero dell’ambiente e regione Puglia riguardava la zona da Vieste a Otranto, ma ha finito a concentrarsi su Molfetta e sulla sola zona del porto. «Alle numerose interrogazioni all’Arpa Puglia sui risultati e monitoraggio delle bonifiche non c’è stata risposta. Dal sito della regione è sparito dal 2010 l’argomento bonifica», accusa d’Ingeo dal canto suo promotore di un sito molto ben documentato, liberatorio.altervista.org. Adesso i soldi per la bonifica sono finiti. «Bisogna riconoscere Molfetta come zona di disastro ambientale» insiste. Per toccarlo con mano il disastro torniamo ai pescatori, ricattati tra salute e lavoro. Incontriamo Vitantonio Tedesco, 43 anni, sentito anche dalla procura di Trani. È della Cooperativa piccola pesca, «la più antica cooperativa di pescatori in Italia», dice orgoglioso, «si è formata nel lontano 1893». «Fin dal ’98 mi imbatto in tracce di Iprite, ci racconta,- da quando è iniziata la bonifica di Torre Gavetone».
I primi segni? «arrossamenti, congiuntiviti, problemi respiratori, forti ustioni alle mani, per il contatto coll’acqua salpando la rete». Il picco nel 2008, in coincidenza con i lavori di bonifica nell’area del porto. «Una mattina mi sono svegliato con gli occhi grandi come due palle da tennis. Il policlinico di Bari mi ha diagnosticato una semplice congiuntivite, senza considerare il nesso con l’ iprite». Era successo così anche nel ’43, alle vittime baresi del bombardamento, per l’assoluta segretezza stesa sulla presenza di armi chimiche. «Non riuscivo più a guidare, e a tratti spariva la vista. Tre volte sono svenuto a bordo per le esalazioni degli ordigni che esplodevano mentre tiravo su la rete». I pescatori colpiti dagli stessi incidenti e sintomi non denunciano l’accaduto, costretti anche dagli armatori al silenzio accusa Vitantonio, che per averlo fatto ha subìto pesanti ritorsioni. Nel 2008 dopo gli svenimenti a bordo, Vitantonio e gli altri quattro pescator<CW-8>i della cooperativa hanno fatto degli esami tossicologici al policlinico di Bari senza mai riceverne il risultato. Alla fine nel 2010 un altro medico, Guglielmo Facchini, indagando sulla salute dei 5 pescatori ha riscontrato condizioni uguali di referti e lastre, tutti con i polmoni «morti», al 50% come Vitantonio fino al 90% il caso peggiore. Come si sente quando va a pescare? «Ogni giorno ho paura di quello che si può trovare nella rete. Decine e decine di volte è capitato che una bomba imbrigliata si incendiava con una puzza incredibile». Solo in conclusione la domanda fatidica. Ma quel pesce si può mangiare? Il sì è unanime. Tracce di veleno sono state trovate, ma negli organi interni e non nella carne bianca, argomentano . Però anche mutazioni genetiche sono state trovate dai ricercatori dell’Icram (Istituto centrale per la ricerca scientifica applicata al mare, oggi Ispra). Il pesce non viene pescato a riva ma a largo fa presente Matteo d’Ingeo che non ci rinuncia: «Cosa dobbiamo fare, andarcene da Molfetta?», mi fa. Così a cena mi arrendo anch’io, anzi esagero, antipasto, primo e secondo, il locale del gestore cuoco ex di Lotta continua decisamente merita…
Il posto più insidioso della costa molfettese è Tor Gavetone, al confine con Giovinazzo. Acqua color turchese che nasconde il più alto concentrato di bombe chimiche. È l’unica spiaggia pubblica di Molfetta, perciò nessuno registra lo sbrindellato cartello di divieto di balneazione e di pesca. Tutti si fanno il bagno lì. «Abbiamo chiesto alla nuova giunta comunale di far rispettare il divieto, ma non è stato fatto» accusa d’Ingeo che al bagno rinuncia dal 2011. Allora individuò in prima persona insieme ad un fotografo subacqueo un ordigno a caricamento chimico a pochi metri dalla riva. «Quando lo segnalammo alla capitaneria del porto il fatto fu accolto con estremo fastidio». A Tor Gavetone, tra il 74 e il 77 furono “deconfenzionati” decine di migliaia di ordigni bellici per recuperarne i metalli. Secondo la documentazione dell’Icram sui fondali del mare davanti a Tor Gavetone si trovano centinaia di migliaia di residuati bellici e persino bombe chimiche cementate nella roccia. Una zona così, piena di bagnanti, è stato esclusa dal pia</CW><CW1>no di bonifica, convogliando tutte le risorse, sulla zona portuale, in funzione dell’aberrante porto commerciale. (I molfettesi non possono neppure ripiegare sull’altra spiaggia,
Tor Calderina, l’abbiamo visitata, molto bella, un’oasi naturale senza cemento, con gli uliveti che arrivano fino a riva. Peccato che qui in piena oasi l’acqua sia marrone, perché vi arrivano direttamente in mare gli scarichi di Molfetta e paesi limitrofi, il depuratore rotto è sotto sequestro)
In riva due ragazzi stanno pescando. Non sapete che qui vicino ci sono delle bombe? Chiediamo. Sì, no, lo sanno e non lo sanno, le hanno tolte, ci sono, sorridono e continuano a pescare. Li prendi per sprovveduti, ma il punto non è questo. Al più tardi quando parli con Beppe Sasso, cantante del Sunny Cola connection, il gruppo parallelo locale di Caparezza, che è anche dirigente regionale di Rifondazione comunista e sociologo. «Da bambino a Torre Gavetone giocavamo con le miccette facendole scoppiare» dice e ribadisce, «io il bagno lì me lo farò sempre». Forse non è disposto a farsi togliere il mare, ecco il punto. Infatti sono le bombe che se ne devono andare. Già è stato tolto il tramonto, per via del porto commerciale. «Prima da Torre Gavetone e dalla cattedrale si vedeva il tramonto tutta l’estate, ora lo si vede solo per 10 giorni. Col tramonto, con la bellezza, i bambini crescono meglio». Molfetta è cambiata. La zona porto e il centro si sono svuotati racconta Sasso, Azzolini ha fatto persino chiudere i parchi. E che fine ha fatto la gente ? «È finita a rinchiudersi in un gigantesco centro commerciale, costruito abbattendo un’intera zona di uliveti secolari». Un modello di sviluppo ricorda Sasso che aveva già imboccato anche il centrosinistra, «anche se distinguo tra le diverse responsabilità». La prima pensata del progetto porto era del centro sinistra, con Tommaso Minervini, sindaco dal 1994 al 2000.
Domenica si è costituito a Molfetta il «Comitato cittadino per la bonifica marina. A tutela del diritto alla salute e all’ambiente salubre». Chiede «la verità sul tipo di ordigni presenti sui fondali del nostro mare. La bonifica completa dal porto a Torre Gavetone. Un monitoraggio ambientale del mare nelle zone interessate dalla presenza di ordigni a caricamento chimico per verificarne la balneabilità del mare e la commestibilità del pesce. Informazione trasparente e aggiornata da parte di tutte le istituzioni coinvolte nelle attività di bonifica». Sito di riferimento per ora liberatorio.altervista.org.
Ecco tutte le località diventate cimiteri di veleni di guerra
Molfetta non è certo un caso isolato: «Tutta l’Italia è piena di cimiteri che ospitano creature mostruose» così scrive Gianluca Di Feo nel libro inchiesta «Veleni di stato» (Bur 2009), «Da oltre mezzo secolo fanno finta di dormire e intanto, come draghi in letargo con il ventre pieno di veleni, seminano le loro uova letali nell’acqua, nel terreno, nell’aria». Si tratta di veleni creati per uccidere e per durare. Col passare del tempo, corrodendosi i contenitori, diventano più pericolosi. Il giornalista dell’espresso ha studiato migliaia di documenti d’archivio britannici, americani e tedeschi ricostruendo per primo la mappatura di un’eredità taciuta e silenziata.. Sull’onda del lavoro di Di Feo si è costituito il Coordinamento per la bonifica delle armi chimiche al quale ha aderito anche Legambiente. Una prima breccia nella congiura del silenzio si deve ai lavori di Giorgio Rochat e Angelo Del Boca che hanno rivelato l’impiego di gas letali durante l’invasione dell’Etiopia.
Il retaggio bellico: in Puglia, zona di rifornimento via mare per l’ottava armata in combattimento contro le truppe hitleriane, e in Campania a fine guerra gli americani si sono liberati degli armi che non servivano più. A Manfredonia sul Gargano sono state affondate migliaia di ordigni a caricamento chimico a largo, in una fossa profonda. Ma una delle navi che le caricavano è affondata disseminando le bombe un po’ ovunque, del resto possono riemergere anche da una fossa sottomarina profonda. Stranamente per le discariche di bombe chimiche si sono scelti i posti più belli. Pianosa, la più lontana delle isole Tremiti è una riserva naturale integrale, in realtà è una pattumiera di ordigni bellici. Il golfo di Napoli è stato teatro di massicci smaltimenti di arsenali chimici. Tra Ischia e Capri, nell’abisso che si spalanca tra le due isole sono state scaricate decine di migliaia di bombe al fosgene, all’iprite e al cloruro di cianuro. Nei fondali di Pesaro sono finite le armi abbandonate dalle truppe tedesche in ritirata: 84 tonnellate di testate all’arsenico e 1316 tonnellate di iprite. Non manca il nord, a Monfalcone vicino a Trieste, durante i lavori di ampliamento del porto sono state recuperate dai sommozzatori dello Sdai (corpo della marina militare)150 ordigni all’iprite.
Un capitolo con cui a tutt’oggi nessun governo italiano ha voluto fare i conti è il gigantesco arsenale di armi chimiche e batteriologiche prodotto dal fascismo. Trentamila tonnellate ogni anno prevedevano i piani di Mussolini. Un’eredità coperta da segreti e silenzi. Un arsenale nascosto nei boschi della Tuscia, la chemical city costruita nel 1940 vicino a Ronciglione è stata scoperta nel 1996 quando una nube tossica colpì un ciclista. Nel bunker si trovavano 150 tonnellate di iprite. Nel vicino lago di Vico, riserva naturale piena di veleni, cresce l’alga tossica, come nel mare di Molfetta. Ma dei laboratori del duce si trovavano anche in pieno centro di Roma, negli scantinati del Celio, ospedale militare.
A Colleferro vicino a Roma nell’area industriale si producono armi convenzionali e chimiche dal 1912 fornite nel ’80 all’Iraq di Saddam Hussein. A Bussi nell’Abruzzo lungo il fiume Pescara che disseta metà Abbruzzo , vicino alla fabbrica di iprite,solo nel 2007 è stata scoperta la più grande discarica di rifiuti tossici nascosti nel dopoguerra. A Melegnano alle porte di Milano, dove si è registrato un forte aumento di tumori, delle villette sono state costruite sopra e intorno una exfabbrica di veleni, la Selenio, nei pozzi dell’acquedotto trovate tracce elevatissime di arsenico. Sono solo alcuni esempi. Le fabbriche e depositi di veleni hanno lasciato le loro tracce in tanti posti: da Foggia, con la Saronio, ultimo impianto creato dal fascismo, a Carrara, da Napoli a Milano, da Roma a Verbania.
Siamo preoccupati vogliamo la verità
http://www.legacoop.coop/wp-content/uploads/2014/01/SKMBT_22314012109060_0006.pdf
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