[SPF:fail] Meno marescialli più guerre - La revisione dello strumento militare.



Meno marescialli, più guerre.
La revisione dello strumento militare secondo Di Paola – un primo commento.
di Alberto Stefanelli – www.guerrepace.org – 09/11/2012

L’attuale revisione dello strumento militare approvata nei giorni scorsi in
Senato ed ora in attesa di ripassare passare alla Camera “non è un nuovo
modello di difesa” secondo il Ministro –Generale Di Paola e probabilmente ha
ragione in quanto più che un nuovo modello in sé questo passo può essere
visto come il  completamento della ristrutturazione iniziata nei primi anni
’90.  Una ristrutturazione portata avanti per arrivare a un nuovo modello di
difesa, certo, ma senza dichiararlo apertamente; ristrutturazione avvenuta
senza una discussione pubblica, né parlamenteare, sul provvedimento
complessivo.

Un modello di difesa ?

Dal 1991 a oggi infatti il passaggio da un modello di difesa militare del
paese ad un “nuovo” modello adatto alla proiezione della forza militare in
giro per il mondo, come in effetti si presentano oggi le forze armate
italiane,  non è avvenuto attraverso  una  discussione complessiva nè in
Parlamento né nel Paese: di volta in volta i singoli provvedimenti  (parti
di un progetto complessivo teorizzato in un documento del ministero della
difesa dei primia anni ’90: “lineamenti di sviluppo delle forze armate negli
anni ‘90”) sono stati presentati all’opinione pubblica e al Parlamento non
come parti di un progetto organico di ristrutturazione delle forze armate ma
come singoli provvedimenti  per  “rinnovare ogni giorno i nostri sforzi per
accrescere la sicurezza e le capacità operative dei nostri militari”, come
appunto afferma oggi il Ministro-Generale.
L’obiettivo dichiarato della riforma è ridurre il personale e parte delle
strutture della difesa per traformare i risparmi così ottenuti  in risorse
per aumentare gli investimenti e l’operatività dello strumento.
Per quanto riguarda le strutture si tratta di ridurre, accorpando e
razionalizzando il funzionamneto, le strutture operative, logistiche,
formative, ottimizzando non solo l’impiego delle risorse ma anche riducenzo
il numero stesso delle strutture;  viene  prevista una  “riduzione degli
assetti organizzativi non inferiore al 30%” in sei anni. Il personale
militare invece verrà ridotto a 150.000 uomini entro il 2024 (attualmente il
livello previsto per legge prevede 190.000 uomini (e donne) anche se in
realtà a inizio 2013 la stima è di 181.538 effettivi); tra questi è compresa
una riduzione del 30% di generali e ammiragli, da raggiungere in sei anni.
Analogo discorso per il personale civile della Difesa che dovrà passare
dagli attuali 29.525 dipendenti ai previsti 20.000 sempre entro il 2024. La
Difesa stima così di “risparmiare” circa 2,2 miliardi di euro, solo dai
tagli al personale. Risorse che si prevede di utilizzate per acquistare
ancora più armi, per addestrare ad usarle e poi per andare ad in giro per il
mondo a far guerre… di pace..

E i posti di… lavoro ?

Naturalmente non trattandosi di normali esuberi, precari qualsiasi o
ordinari esodati, vengono previste una serie di modalità per agevolare il
passaggio ad altri impieghi. Per cui il decreto prevede innanzitutto norme
per permettere il transito del personale militare al settore civile della
Difesa, anche se tale settore risulta essere sottoposto a ridimensionamento
dallo stesso provvedimento.
Ma non basta; viene previsto anche l’aumento dei posti riservati a ex
militari nei concorsi di entri pubblici e – novità - anche negli enti locali
e nelle aziende speciali. Inoltre per quelle professioni dove tra i
requisiti c’è anche l’aver svolto il servizio di leva (ora sospeso) il
decreto prevede che tale norma si applichi con riferimento all’aver svolto
almeno un anno di servizio volontario nelle forze armate.
Ecco che ancora una volta le scelte della Difesa vanno a pesare sulla
società civile che vede ridursi ancora di più la possibilità di accesso a
quel bene raro che si chiama posto di lavoro.
Le giustificazioni ufficiali di questo provvedimento sono che, naturalmente,
ce lo chiedono gli alleati della Nato e che bisogna comunque arrivare ad una
diversa ripartizione delle risorse assegnate alla “funzione difesa”. Questo
perché pare che qualcuno ha stabilito che il bilanciamento ottimale tra le
diverse
voci di spesa dovrebbe essere così suddiviso: il 50% per il personale e il
25% rispettivamente per le spese di esercizio e per gli investimenti, mentre
oggi l’Italia presenta una suddivisione che destina il 70% al personale, il
12% all’esercizio e il 18% agli investimenti. E questo sembra non andar
bene. A questo riguardo è interessante notare che nella documentazione
parlamentare viene sottolineato come il Libro Bianco della Difesa del 2002
presentava già allora una divisione della spesa pari al 48% per il personale
e rispettivamente il 26% per le spese di esercizio e per gli investimenti.
Ripartizione simile a quella definita oggi come ottimale ma che allora il
Libro Bianco – un documento ufficiale - giudicava troppo sbilanciata.
Possibile che nessuno si è accorto che – da questo punto di vista – nel 2002
si era già in una situazione “ottimale” ? Anche all’attuale Ministro della
Difesa, allora  Segretario Generale della Difesa/Direttore Nazionale degli
Armamenti, era sfuggito questo dettaglio? Certo, per carità, una svista può
capitare; come per il caso del caccia F35/ Joint Strike Fighter quando per
contenere i costi il Ministro della Difesa annuncia il taglio di 41 dei 131
esemplari, salvo poi scoprire - come ha dichiarato il segretario generale
del ministero della Difesa e direttore nazionale degli Armamenti, generale
Claudio Debertolis - che ogni singolo aereo costerà più del doppio, passando
da 63 a 127 milioni di euro.

Diamo i numeri ?

Anche la motivazione, quella che secondo cui dobbiamo adeguarci a quanto ci
chiedono gli alleati della Nato è un po’ traballante, forse dovuta alla
difficolta di far di conto del ministro tecnico di questo governo tecnico.
Vediamo. Nelle interviste e nei documenti Governo e Difesa dichiarano,
lacrimando, livelli di spesa  intorno allo 0,9% del pil contro una media dei
paesi europei della Nato dell’ 1,7%.
Peccato però che gli enti internazionali che per mestiere monitorano le
spese militari mondiali danno ben altri numeri; ad esempio il SIPRI
(Stockholm International Peace Research Institute), prestigioso istituto
indipendente svedese, calcola che per il 2010 (ultimi dati disponibili)  la
spesa militare italiana corrisponde all’ 1,7% del pil, quindi pienamente in
linea con i livelli di spesa in Europa. Ma se non ci piace questa fonte
possiamo leggere i dati della NATO che certificano per l’Italia una spesa
corrispondente all’ 1,4 del pil, escludendo però dal conto l’arma dei
Carabinieri, altrimenti saremo all’ 1,8% come infatti conferma la… CIA che
tiene sotto controllo la spesa militare di tutti i paesi.
 Numeri questi che pur con le oscillazioni degli ultimi anni vogliono dire
comunque una spesa che si aggira intorno  ai 24/25 miliardi di euro all’anno
(la media negli dal 2001 a oggi si aggira intorno ai 26,6 miliardi di euro,
all’anno) Quindi forse è si il caso di riorganizzare il comparto Difesa per
evitare sprechi, ma di ben misero passaggio si tratterebbe se gli sprechi
vengo trasformati in armi per le guerre.
Certo, è vero che in Europa c’è chi spende di più; infatti la Grecia negli
ultimi hanni ha investito nelle cose militari il 3.0% del pil... E’ forse
questo l’esempio virtuoso che Monti e Di Paola hanno in mente?

Un dibattito pubblico ?

Purtroppo anche adesso si sta perdendo (volutamente, immaginiamo) l’
occasione per una discussione pubblica sulle questioni più rilevanti
riguardo lo strumento militare e il suo bilancio: a cosa servono queste
spese, il loro legame con i debito pubblico e l’intreccio tra imprese,
banche e forze armate.
Qualcosa vorrà dire se nelle prime versioni della legge delega c’erano due
punti, poi scomparsi, che prevedevano  finanziamenti decennali blindati,
aventi come base minima gli attuali livelli di spesa; e la possibilità, per
la difesa, di trasformarsi in piazzista d’armi, attraverso attività di
supporto tecnico, logistico e contrattuale per l’acquisione di materiali di
armamento prodotti dall’industria nazionale da parte di paesi terzi con cui
esistono accordi di cooperazione militare…
Possiamo star sicuri che questi saranno passaggi che ci ritroveremo tra
qualche tempo in una ulteriore riformina tecnica. Non si  tratta quindi di
rimettere in discussione solo le spese per le armi (comunque un buon inizio)
ma di ripensare complessivamente e radicalmente il modello di difesa, per
investire intelligenze e risorse verso un modello di difesa difensivo e non
pensato per fare la guerra. Un articolo della Costituzione dice che l’Italia
ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie
internazionali. Per Seguire questo principio non servono gli F35.

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Per i dati sulle fonti: www.guerrepace.org