[SPF:fail] Il debito e le spese militari
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- From: "Alberto Stefanelli" <media.rossa at tiscali.it>
- Date: Sun, 8 Jan 2012 11:16:52 +0100
- Importance: Normal
Alberto Stefanelli e
Piero Maestri - redazione Guerre&Pace –
06/01/2012
In queste ultime
settimane tra i tanti articoli sulla crisi economica, sulla manovre e i
provvedimenti governativi, sulla necessità di cospicui tagli al bilancio dello
Stato – si è affacciato un inizio di dibattito sul peso delle spese militari
sullo stesso bilancio pubblico e sulla possibilità di riduzioni del bilancio
della difesa, con particolare riferimento al programma di acquisto di 131 caccia
F35 Strike fighter (spesa prevista intorno ai 15 miliardi di
Euro).
Di questo ne siamo
ben lieti: da quando abbiamo fondato la rivista Guerre&Pace nel “lontano” 1992, non è
passato anno senza articoli, analisi, proposte sui temi delle spese militari e
nette prese di posizione per un loro drastico taglio.
Purtroppo non ci pare
sia davvero un dibattito serio, perché non sembra affrontare le questioni
fondamentali e politicamente più rilevanti riguardo il bilancio militare: a cosa
servono queste spese, il loro legame con i debito pubblico e l’intreccio tra
imprese, banche e forze armate (in fondo si tratta ancora del “complesso
militare-industriale” – ora più finanziario – di cui parlava il presidente
Eisenhower).
Intendiamoci: quando
le spese militari e il bilancio della difesa verranno tagliati, qualsiasi sia il
motivo e l’entità, saremo comunque favorevoli. Non ci convince però – anzi ci
preoccupa – che questo terreno venga affrontato da due punti di vista per noi
insufficienti o addirittura fuorvianti: da una parte la polemica sulla “casta
militare”, indubbiamente esistente – ma che rischia di mettere in secondo piano
le più preoccupanti responsabilità politiche e di banche e imprese (con
Finmeccanica in primo piano); dall’altra il rischio di assecondare la tendenza
alla “razionalizzazione” delle spese militari, per avere comunque forze armate
più efficienti. E qui sta la questione di fondo: efficienti per fare cosa? Le
forze armate italiane sono state costruite negli ultimi 20 anni per fare la
guerra – ed è quello che fanno le missioni internazionali (dall’Afghanistan alla
Libia), dentro il quadro di un’Alleanza atlantica che ha assunto via via il
ruolo di regolatore dell’ordine mondiale e di poliziotto che si auto-autorizza a
applicare sanzioni a chi viola le sue regole.
L’esempio più
lampante di queste tendenze è fornito dall’articolo di Repubblica intitolato
“Monta la protesta contro i caccia F35: ‘Costano troppo, il
governo non li compri’” .
Nessun ripensamento
sul ruolo di quei cacciabombardieri o di altri sistemi d'arma (perché gli
Eurofighter è bene che li compriamo? Il programma di questi ultimi è più
costoso, tra l’altro... e della seconda portaerei, la Cavour, davvero non
possiamo farne senza?), ma solo l’idea di qualche “aggiustamento”. E il meglio
di sé lo da la senatrice del PD Roberta Pinotti, già presidente della
Commissione Difesa della Camera tra il 2006 e il 2008, che dichiara: "Non
servono 131 caccia, il governo potrebbe ridurre l'acquisto a 40-50'', in buona
compagnia con il dipartimento esteri dei democratici che “suggerisce a Monti una
fase di "sospensione" e
"ripensamento"”....
Ora, la sen. Pinotti,
da sempre favorevole a tutte le guerre dell’Italia e quindi corresponsabile dei
loro crimini, e sostenitrice degli aumenti delle spese militari (anche come
supporto finanziario alle imprese come Finmeccanica) dovrebbe ricordarsi che la firma in
fondo al «memorandum» del 2007 dell’accordo con gli Usa per gli F35 è quella del
suo compagno di partito on. Forceri, uomo di Finmeccanica e già sottosegretario
del governo Prodi (il governo che maggiormente aumentò le spese militari...) e
che pensare di comprare 40/50 aerei inutili e dannosi non è una riduzione del
danno, ma una sonora presa per i fondelli.
I DATI DELLE SPESE
BELLICHE
Per discutere
l’argomento è prima di tutto capire di quali cifre stiamo
parlando.
Secondo gli ultimi
dati disponibili del Sipri,
uno dei più autorevoli centri di ricerca internazionali sulle armi, l’Italia ha
speso nel 2010 circa 26,6 miliardi per la difesa militare – a fronte dei 20,3
miliardi dichiarati dal ministero della difesa - posizionandosi ancora una volta al
decimo posto nella classifica dei paesi che maggiormente spendono per i loro
eserciti. Ma non si tratta di un’eccezione; sempre leggendo i dati Sipri
l'Italia del nuovo millennio ha speso in media ogni anno circa 25
miliardi di euro per le spese militari. Molti di più di quanto dichiarato
ufficialmente.
Per il 2012 il
bilancio della Difesa è pari (con l'approvazione del bilancio dello Stato il
12/11/2011) a 19.962 milioni di euro suddivisi in 14,1 miliardi per esercito, marina e
aeronautica e 5,8 miliardi per i Carabinieri. A questi numeri va aggiunto che
nello stato di previsione del ministero dell'Economia è presente il fondo per le
missioni internazionali di pace, incrementato con 700 milioni di euro dalla
Legge di stabilità, raddoppiati poi dalla manovra Monti. Lo stato di previsione
del ministero dello Sviluppo Economico comprende poi 1.538,6 milioni di euro per
interventi agevolativi per il settore aeronautico e 135 milioni di euro per lo
sviluppo e l'acquisizione delle unità navali della classe Fremm. La Legge di
Stabilità proroga al 31 dicembre 2012 l'utilizzo di personale delle Forze armate
per le operazioni di controllo del territorio per una spesa complessiva di 72,8
milioni di euro.
Si arriva così a una
spesa complessiva - verificata - di oltre 23 miliardi di euro, come riportato da il
manifesto.
UN BILANCIO PER LE
GUERRE
Ma a cosa servono
queste spese? Lo ripetiamo, questo è l’argomento centrale.
Non si tratta solo
dell’inutile aereo F35, un aereo da attacco dalle caratteristiche tecniche tali
che lo rendono adatto ad una guerra contro altre superpotenze militari; questi
soldi vengono bruciati anche per mantenere un carrozzone di 180.000 uomini (e
donne) in cui, come rileva il rapporto di Sbilanciamoci 2012, i graduati (in
aumento) sono più della truppa (in diminuzione) e i generali sono in proporzione
più di quelli statunitensi. Una struttura con molti marescialli in soprannumero
e magari inadatti, anagraficamente, alle nuove necessità
operative.
La questione va molto
oltre.
L’Italia, tra i
membri fondatori, partecipa da sempre a pieno titolo alle attività della Nato.
Il contributo economico diretto all’Alleanza Atlantica piazza l’Italia al 5°
posto tra i paesi finanziatori (nel 2007 è stato di 138 milioni di euro su un
totale di 1.874,5 milioni di euro, pari al 7,4% dei contributi totali versati
dagli alleati) collocandola subito dopo Usa, Regno Unito, Germania e
Francia.
Per adeguarsi ai
requisiti della Nato l’Italia ha dato vita già da tempo ad un ampio programma di
riarmo, attualmente in atto, che si traduce nell’acquisto di 121 caccia
Eurofighter per un costo totale di 18 miliardi di euro, 6 miliardi per
elicotteri da attacco e da trasporto, più di 7 miliardi per 12 fregate, 1,4
miliardi per la nuova portaerei, 1,9 miliaardi per 4 sommergibili, 1,5 miliardi
per 249 blindati. Più ovviamente obici, siluri, missili, radar e tutto quanto
serve per operare in guerra fuori dal territorio
nazionale.
Mezzi che non sono
solo risorse sprecate ma che fanno danni quando vengono impiegati per le guerre
della Nato. Se negli ultimi anni le truppe impegnate all’estero si aggiravano
tra gli 8000/8500 uomini, più della metà sono stati impegnati in missioni Nato
(l’Italia è il 4° paese per contributi alle operazioni a guida
Nato).
Tra
queste non ultimo l’Afghanistan, dove l’Italia è presente con circa 4.000
soldati (3.918 a inizio settembre) con armamenti e attrezzature al seguito, che
sono costati nel 2011 più di 800 milioni di euro, che porta il totale per i
dieci anni di permanenza al seguito dell’alleato statunitense a circa 3,5
miliardi di euro (mentre il totale dei fondi destinati alle missioni militari
nazionali dal 2001 si aggira sui 13 miliardi di euro).
In questo ambito
l’Italia si occupa anche di quella che, nella divisione internazionale del
lavoro militare all’interno della Nato, viene riconosciuta come un’eccellenza
italiana, cioè la gestione dell’ordine pubblico attraverso le forze di polizia
ad ordinamento militare. Questo attraverso due “centri” collocati a Vicenza e
gestiti dall’Arma di Carabinieri: il Comando della Gendarmeria Europea, una
forza di pronto intervento formata da diverse polizie militari europee pronta ad
intervenire in missioni di “pace” a supporto degli eserciti nelle fasi di
occupazione dopo la guerra. E il CoESPU, una scuola di polizia per forze armate
del terzo mondo dove viene formato personale per le varie missioni di pace. Non
per niente i carabinieri protagonisti di Genova 2001 venivano dalle guerre della
Somalia e del Kossovo e oggi gli Alpini passano direttamente dall’Afghanistan
alla Val di Susa
Soprattutto di questo
dovremo discutere quando parliamo di spesa militare. In questo quadro crediamo
sia quindi indispensabile chiedere una riduzione delle spese militari non solo e
non principalmente in funzione di eliminare sprechi, spese inutili, o privilegi
di casta. Questo è certo necessario ma non sufficiente a definire una diversa
politica della difesa improntata alla pace e non più alla
guerra.
Già nei precedenti
governi di centrosinistra e centrodestra che hanno preceduto l’attuale era ben
presente l’insostenibilità economica dell’apparato militare. Pur senza arrivare
a nulla di fatto e senza avviare una discussione pubblica, questi governi hanno
cercato di operare per arrivare a “forze armate ancora più efficaci e adeguate
ai nuovi compiti, razionalizzando i costi, adeguando le risorse e ammodernando
la concezione stessa di Forze Armate”, come ha affermato La Russa nell’aprile
2009; o come si era espresso prima di lui il sottosegretario alla difesa
Forcieri nel settembre 2006 arrivando a delineare uno strumento militare con
meno marescialli e con più strumenti per le missioni
militari.
IL DEBITO PUBBLICO E
LE SPESE MILITARI
L'enorme debito
pubblico italiano, come quello degli altri paesi europei, è il risultato delle
scelte politiche neoliberiste - come gli articoli pubblicati sul sito www.rivoltaildebito.org hanno già più volte
mostrato.
Per l'argomento che
trattiamo ci sembrano due le questioni connesse: da una parte l'aumento del
budget della difesa, malgrado la riduzione di altri capitoli di bilancio, come
conseguenza di un rilancio dell'uso della forza militare come strumento connesso
alla presenza economico-politica internazionale (come già recitava il Nuovo
modello di difesa del 1991); dall'altra il sostegno pubblico all'industria
bellica, in particolare alla galassia di Finmeccanica.
Come dicevamo, questa
non è una caratteristica solamente italiana. La Grecia, pur in bancarotta, ha
continuato a destinare il 3,2% del Pil alle spese militari (oltre dieci miliardi
di dollari l'anno).
L'Italia, come
abbiamo visto, non è da meno, e con
undebito pubblico di oltre 1900 miliardi di euro continua ad avere il
bilancio militare di cui abbiamo parlato - che ci ha fatto spendere negli ultimi
10 anni più di 200 miliardi di euro per la guerra secondo i dati ufficiali, ma
ben 280 miliardi secondo il Sipri.
E' chiaro che queste
forte spesa militare ha contribuito al deficit pubblico e che il bilancio della
difesa ha subito tagli decisamente ridicoli o inesistenti, ancora più scandalosi
se confrontati con quelli subiti dai servizi pubblici.
L'altro elemento è
quello del sostegno pubblico mascherato all'industria bellica. L'industria
militare è per sua natura un settore che dipende dalla commesse pubbliche, e
anche se in questi ultimi 20 anni si sono susseguiti accordi internazionali,
acquisizioni, joint-venturs, una società come Finmeccanica non potrebbe
sviluppare il settore militare senza forti commesse pubbliche e senza un
sostegno diretto e indiretto alle proprie produzioni.
Questo è quanto
avvenuto, nello stesso periodo in cui entra in crisi la produzione civile di
Fincantieri e la stessa Finmeccanica è in procinto di dismettere completamente
la produzione di treni (vedi l'articolo di Marco Panaro (Meno treni e più armi.
La death economy di Finmeccanica).
Il sostegno a questa
impresa a capitale prevalentemente pubblico si è intrecciata nel nostro paese
alle politiche di dismissioni industriali, agli scandali legati alla
«cricca-economy» e in generale al legame tra politiche neoliberiste e
guerre.
Un legame che viene
messo in luce persino da un uomo come Innocenzo Cipolletta, già direttore di
Confindustria e autore del libro «Banchieri, politici e militari» (Ed. Laterza),
che in un convegno a Trento ha affermato: «Non si può comprendere la crisi del
petrolio del 1974 senza la guerra del Vietnam e le tensioni in Medio Oriente.
Analogamente la bolla finanziaria del 2008 è intimamente legata alle modalità
con cui si è entrati in guerra contro il terrorismo internazionale. Il debito
infatti si ingigantisce, e come nell'Antica Roma, chi è debitore è schiavo: in
questo caso noi siamo schiavi dei mercati finanziari (le misure della BCE per
esempio) che ci dicono come comportarci e quali correttivi introdurre, perdendo
così la nostra sovranità».
Su questi legami
crisi-guerre-spese belliche-debito vogliamo tornarci
prossimamente.
UN ALTRO MODELLO PER
LA “DIFESA”
Arriviamo allora al
punto che più ci interessa. Le spese militari italiane (ed europee) vanno
drasticamente ridotte come conseguenza di una scelta politica precisa: non
vogliamo più un modello di “difesa”
pensato e strutturato per fare la guerra. Sia che si tratti di quello
attuale con sprechi, privilegi e spese inutili; sia che si tratti di quello più
“efficace” nel fare le guerre che vorrebbero il ministro Di Paola o il gen.
Roberta Pinotti (e La Russa, prima di lei).
Non vogliamo più la
partecipazione italiana alle guerre illegittime e alle missioni militari della
Nato; vogliamo che l’Italia esca dalla Nato e questa “obsoleta” alleanza
militare venga sciolta – o comunque che l’Europa scelga una postura
internazionale pacifica e di cooperazione e co-sviluppo con il Mediterraneo,
l’Asia, l’America latina e l’Africa.
È sulla base di
queste scelte politiche che affrontiamo il nodo del taglio alle spese
militari.
Non
per arrivare a forze armate più pronte ed efficenti nel partecipare alle guerre
della Nato, ma per un diverso modello di difesa.
Un
modello di difesa che tenga conto che con l’equivalente di 15 giorni di guerra
Emergency ha realizzato in Afghanistan tre centri chirurgici, 28 ambulatori e un
centro di maternità e che l’intero programma di Emergency in Afghanistan si
mantiene con l’equivalente di due giorni di presenza militare
italiana.
Un modello di difesa
che tenga conto, come ci ricordano i dati della campagna Sbilanciamoci, che con
la stessa somma impiegata in dieci anni di missioni militari si potrebbero
costruire, ad esempio, 3.000 nuovi
asili nido che servirebbero un’utenza di 90.000 bambini, creando 20.000 posti di
lavoro; inoltre installare 10 milioni di pannelli solari per 300.000 famiglie
con la relativa creazione di 80.000 posti di lavoro e infine, sempre con la
stessa cifra, mettere in sicurezza 1.000 scuole di cui beneficerebbero 380.000
studenti creando così altri 15.000 posti di lavoro
Un modello di difesa
che tenga conto del peso delle armi sullo sviluppo economico nazionale, come ci
ricorda la ricerca della Brown
University (Usa) che mostra come per ogni milione di dollari
investito nel settore armi si creano 8 posti di lavoro, gli stessi posti che si
otterrebbero con lo stesso investimento in programmi di sviluppo legati
all’energia rinnovabile (solare, eolico, biomasse). Che però diventerebbero 14
con lo stesso investimento nell’assistenza sanitaria, nel trasporto pubblico o
nelle ferrovie; e che sarebbero 15 se l’investimento avvenisse nel sistema
educativo pubblico e soltanto 12 se investito nella climatizzazione delle
abitazioni.
Si può naturalmente
partire dalla cancellazione dei programmi più scopertamente vergognosi e
scandalosi – come quello che riguarda gli F35 – come, appunto, punto di partenza
di una consapevolezza di una necessaria riconversione delle politiche e del
sistema militare-industriale – non come strumento di razionalizzazione delle
spese stesse, cercando pure il consenso in tempi di crisi e di ristrettezze di
bilancio.
Tra l'altro, come
hanno dimostrato più
volte la rivista «Alteconomia» e il suo redattore Francesco
Vignarca, non è prevista alcuna penale per l'uscita da quel programma - e gli
stessi Usa stanno profondamente rivedendolo.
NON PAGARE IL DEBITO,
TAGLIARE LE SPESE MILITARI
In questo senso
l’approccio è analogo a quello della campagna “Rivolta il debito”: il problema
non è più principalmente “chi deve pagare il debito”, ma la consapevolezza che
il debito pubblico che si è formato in Italia (come nel resto d'Europa) è in
gran parte illegittimo e per questo non deve essere pagato affatto.
Lo stesso vale per il
bilancio della difesa: va drasticamente tagliato perché si può e si deve fare a
meno dello strumento delle forze armate come concepito dal “pensiero unico della
difesa” che ha visto sempre concordi le forze politiche da An al Pd (con brutti
scivoloni anche di Prc e dintorni...).
E una parte del
debito pubblico si è formato anche per permettere di tenere alte le spese della
difesa, come chiedevano la Nato e gli Usa: interessante al proposito uno studio
del 1999 del Government Accountabilty Office del Congresso statunitense (Nato: implications of
European Integration for Allies’defense spending) che
sosteneva: «Essendo le spese per la difesa una porzione relativamente piccola
del bilancio dello stato, dovrebbero essere facilmente protette dai tagli.
Comunque, anche se il sostegno per i tagli alla difesa è minimo, potrebbe
diventare un obiettivo attrattivo: la pressione per ulteriori aumenti per le
pensioni e la sanità dovute all'invecchiamento della popolazione metteranno a
rischi i bilanci futuri in molti paesi europei. Una forte crescita economica è
chiaramente la chiave per fornire ai governi la flessibilità necessaria a
equilibrare bisogni e risorse». La storia di questi anni ci racconta come è
andata: la crescita è stata debole,
la spese per pensioni e sanità è diminuita e le spese militari sono aumentate -
per la gioia dei nostri «alleati» statunitensi - e intanto aumentava il debito
pubblico.
La campagna contro il
pagamento del debito e quella contro le spese militari sono profondamente
connesse; per questo una parte dell’audit dei cittadini sul debito pubblico
dovrà riguardare le spese militari come forma specifica di illegittimità della
destinazione dei fondi con cui si è formato il debito
pubblico.
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