«Non è un disertore, era ammalato» l tribunale assolve un volontario tornato dalle missioni nei Balcani



la nuova del  11\3\2005

Sconvolto dalla guerra ora è a casa, depresso
Claudio Melis iniziò la carriera a diciotto anni, a ventuno partì in Kosovo
con la Brigata

 CAGLIARI. Il caporale non è un disertore. Depresso dopo essere rientrato
dai Balcani - «Basta, ho visto troppi cadaveri», una delle sue testimonianze
più forti - non può essere condannato. Non aver spedito i certificati medici
al comando della Fanteria di Cesano, è stata colpa soltanto della malattia.
Con questa sentenza, il Tribunale militare ha assolto Claudio Melis, 27
anni, cagliaritano, dal reato di diserzione.
 Un'assoluzione piena - il fatto non sussiste - da cui adesso l'ex
sottufficiale deve ripartire se vuole sconfiggere la depressione e
cancellare i ricordi delle missioni in Kosovo e Bosnia.
 La storia recente di Claudio Melis oggi ha ancora lo spessore delle
cartelle cliniche messe assieme in due anni, dove la parola depressione è
stata scritta decine di volte da chi lo ha visitato dal 2003 fino all'anno
scorso. Da quando è rientrato dai Balcani, Claudio Melis parla poco, non
mangia, vive al buio: sconvolto dagli orrori della guerra, continua a essere
schiacciato da quello che ha visto quando indossava la divisa dell'Esercito.
Sconvolto fino al punto da essersi dimenticato, l'estate scorsa, che la sua
assenza andava comunque giustificata al Comando. Comando che senza ricevere
i nuovi certificati medici, finì per denunciarlo alla Procura militare per
diserzione. Accusa oggi demolita in aula dall'avvocato difensore Roberta
Cossu, che con passione ha dimostrato come "la depressione abbia spento la
mente del sottuficiale, che nei mesi scorsi è stato riformato proprio a
causa della malattia". Tesi condivisa dal pubblico ministero Marco Cocco,
che nella requisitoria non ha avuto dubbi nel sollecitare l'assoluzione.
 Da ieri il caso è chiuso e l'avvocato dice: «Da oggi dobbiamo lottare tutt'
insieme, per restituire la voglia di vivere a chi purtroppo continua a
essere prigioniero del suo incubo».
 Claudio Melis comincia la carriera nell'Esercito a diciott'anni. Nel 1995 è
militare di leva all'ottantesimo reggimento, il giuramento a Roma. Due anni
dopo sceglie la ferma breve: tre anni da volontario nella Fanteria di
Cesano. Qualche tempo dopo la prima missione in Bosnia, cinque mesi
aggregato al nono reggimento alpini «L'Aquila». Lo stesso anno, a giugno, è
in Kosovo, con la Brigata Sassari. Prima di ritornare nei Balcani per un'
altra operazione di pace o presunta tale, a casa racconta della gente che
gli è morta tra le braccia, dei commilitoni in ospedale, del terrore negli
occhi dei bambini quando scoppia una bomba. È l'inizio della depressione, il
primo rifiuto della guerra: un processo inarrestabile. Neanche la Croce
commemorativa assegnatagli per i meriti nell'operazione "Joint force, in
Bosnia Erzegovina, rallenta l'ingresso nel tunnel, nel buio. È l'11 luglio
del 2003 quando il sottufficiale è di nuovo a casa, con alle spalle tre
missioni e la medaglia. Un rientro subito difficile, ma comunque protetto,
almeno per la burocrazia militare, dai primi certificati medici. Fino all'
estate del 2004, quando smette di giustificare le assenze. Anzi, il padre -
maresciallo dell'Esercito in pensione - ha descritto ai giudici di "un vero
e proprio rifiuto del figlio ad avere ancora rapporti con i militari". Il
resto è in quelle giornate trascorse al buio, nel silenzio e avvolto nei
ricordi dei Balcani. Fino all'accusa di diserzione che poteva spingerlo
ancora più in fondo nel pozzo della depressione e invece il Tribunale
militare ha letto bene certificati e codice penale. Claudio Melis è stato
assolto, la vita può ricominciare. Senza divisa ma con gli abiti dell'uomo
vero. (ua)




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