I mille volti della povertà




Bloccare il commercio internazionale di armi. E diminuire le spese per la difesa. Il filosofo-economista Amartya Sen spiega la sua politica contro la miseria

di Gigi Riva

Un inglese che non possa permettersi di acquistare delle scarpe di pelle soffre di una privazione sociale molto importante. Dunque un reddito basso relativo (se comparato coi Paesi del Terzo Mondo) in una società ricca può generare una povertà assoluta. Perché l'esclusione dalla vita pubblica lede profondamente la capacità di affermare le capacità umane... Amartya Sen, 71 anni, indiano, premio Nobel per l'economia nel 1998, riflette sulla povertà, tema centrale anche negli incontri del World Economic Forum di Davos. Sono oggetto della sua analisi i poveri dei Paesi Terzi, ma anche i nuovi poveri, o poveri di ritorno, che affollano le strade dell'opulenta Europa, ora in crisi.
Nell'intervista concessa a 'L'espresso' parla anche di quali sono le vie 
possibili per l'integrazione di popoli diversi, di demografia e della sua 
stretta correlazione con le libertà delle donne, delle spese eccessive per 
gli armamenti, di scontri di potere (e non di civiltà), anche del film 
'Alexander'. Lo fa chiamando in causa l'altro ramo cruciale della sua 
formazione, la filosofia. Che lo porta a dubitare delle ricette troppo 
facili, a passare dalla complessità per giungere alla soluzione dei 
problemi. Conforta, alfine, scoprire che intravede elementi di ottimismo 
circa il futuro del Pianeta. Di questi tempi, non è facile.
Professor Amartya Sen, dunque c'è una relazione tra l'inglese che non si 
può comprare le scarpe di pelle e l'africano a cui manca un pugno di sorgo?
"C'è una relazione nel senso che il concetto di povertà non dipende solo da 
un reddito basso. Ma è legato alla capacità di vivere il tipo di vita che 
un individuo ha una ragione di voler vivere. Quando sei in Africa, magari, 
sono basilari i diritti elementari per godere della libertà: non essere 
affamato, avere le cure mediche quando sei malato e partecipare alla vita 
politica".
E quando sei in Europa?

"Prendiamo, ad esempio, i poveri italiani. Non sono affamati, sono curati e partecipano alla vita politica. Ma se stanno in una società dove la stragrande maggioranza sono più ricchi, hanno un'automobile potente, una casa confortevole e arredata con qualche bel quadro, cenano in gustosi ristoranti e vanno in vacanza in posti da sogno, ecco, allora sviluppano il desiderio legittimo di avere lo stesso standard. Prendiamo un bambino che va a scuola. Se la maestra chiede, all'inizio dell'anno: dove siete andati in vacanza quest'estate? e i suoi compagni rispondono e lui non è andato da nessuna parte, è automaticamente escluso. La famiglia da cui proviene, anche se è più ricca di una famiglia africana, si troverà effettivamente nelle stesse condizioni di emarginazione".
Almeno non sono in discussione questioni primarie come vivere o morire, 
mangiare o non mangiare.
"Però si può produrre una privazione sociale assoluta. Lo stretto legame 
che esiste tra la privazione culturale e la povertà economica non è stato 
inventato da me. Lo identificò, e più di 200 anni fa, nientemeno che Adam 
Smith. il quale ha dimostrato che la povertà non si identifica solo con la 
fame e le privazioni fisiche. Dal luogo in cui si vive dipende il tipo di 
vita che si desidera. Ecco qui il nodo, il punto principale: la povertà non 
è differente dall'ineguaglianza che la gente percepisce. Come diceva Smith 
le scarpe di pelle a Londra sono una necessità indispensabile per vivere. 
Non è così in altri Paesi, magari non è così in un luogo vicino come la 
Scozia".
Scusi professore, ma messa così, sembrerebbe che il concetto di povertà si 
può relativizzare. Mentre lei pare sostenere il contrario.
"La determinazione dell'assoluta povertà dipende dal reddito relativo. Ma 
non è relativa la povertà, è assoluta. Ancora usando Smith e le scarpe: se 
non le hai, non puoi apparire in pubblico e allora la privazione diventa 
assoluta anche se connessa col reddito relativo. Insomma, il reddito 
relativo porta la povertà assoluta. Questo è il punto cruciale".
L'economia ha l'obbligo di darsi delle priorità, di pensare magari prima al 
povero dell'Africa e poi al povero europeo?
"Io credo che non si debba avere un solo scopo nella vita, un solo 
obiettivo. L'approccio più giusto è quello di individuare le differenti 
situazioni e trovare le differenti soluzioni".
In Europa lavorano oggi molti milioni di africani e asiatici. Il loro 
processo di integrazione è faticoso. Alcuni suoi colleghi sostengono che 
può passare solo attraverso l'economia.
"No, io non credo che l'integrazione dipenda in modo essenziale 
dall'economia. Ci sono altre questioni più importanti. Quella culturale, 
sociale e politica. Mi lasci fare un esempio. Se la Gran Bretagna ha meno 
problemi sul tema della Francia o della Germania è perché ha optato per una 
politica più decisa. La peculiarità non sta nella cittadinanza, ma nel 
diritto di voto. Tutti gli immigrati del Sudafrica, della Nigeria, del 
Kenya, della Tanzania, come del'India, del Pakistan o del Banghladesh hanno 
diritto di voto, diventano sudditi della regina, si sentono coinvolti nei 
processi politici e sociali. La politica dell'integrazione passa 
essenzialmente attraverso il voto".
Lei sposa un concetto di cittadinanza legato al rapporto col suolo, mentre 
una vecchia concezione lo fa discendere dal sangue, cioè dall'appartenenza 
etnica.
"La cittadinanza dipende dal contesto. Quando ne parliamo ci dimentichiamo 
spesso di fare delle distinzioni che invece sono importanti. In ogni 
società i residenti hanno tanti diritti. Alcuni discendono dal diritto di 
nascita, altri da fattori diversi. Poi voglio distinguere tra il diritto a 
essere protetto e a partecipare alle elezioni politiche. Se, ed è la mia 
situazione in questo momento, io passo una settimana a Roma, mi aspetterò 
che la legge italiana difenda i miei diritti umani di individuo e mi tuteli 
se sono aggredito. Se produco e pago le tasse in questo Paese mi aspetto 
pensione e assistenza sanitaria. Se abito qui permanentemente mi aspetto di 
poter partecipare alle elezioni".
L'Europa ha e avrà sempre più bisogno di immigrati. anche perché fa sempre 
meno figli. Secondo i demografi tra 50 anni gli italiani, ad esempio, 
saranno 36 milioni, contro gli attuali 57. Questo creerà degli scompensi?
"Sono sempre scettico sulle previsioni dei demografi. Spesso tendono a 
credere che se c'è un problema sociale, questo avrà influenza sui 
comportamenti, inclusi quelli sulla fertilità. Mentre bisognerebbe cambiare 
prospettiva. Allargo il campo della questione che è davvero internazionale. 
Il fattore che maggiormente influisce sulla fertilità delle donne è il 
grado di educazione, l'inserimento nel mondo del lavoro e il ruolo nella 
società. Più sono coinvolte e più si riduce la fertilità. Le donne italiane 
si sono liberate, hanno un'enorme voce in capitolo su quanti bambini 
vogliono avere, sono indipendenti. È una situazione ottimale per una 
bassissima fertilità. Per usare come paragone il Sud-est asiatico, là i 
fattori sociali, la pressione delle famiglie obbligano le donne a fare più 
figli".
La libertà della donna e non le condizioni economiche sono decisive, 
dunque. E tuttavia resta la questione su come supplire al gap demografico. 
E se potrà nascere una società multietnica in pacifica coesistenza.
"Io credo, banalmente, che avrete bisogno di gente che faccia i lavori che 
gli italiani non vogliono più fare. L'Italia potrà scegliere se avere un 
numero alto o basso di abitanti, se averne un numero almeno pari a quello 
di oggi per mantenere il livello del Pil. Dipenderà dalle scelte politiche. 
Però circa la seconda parte della domanda, che non voglio eludere, la mia 
sensazione è che sì l'Italia potrà trovare una forma accettabile di 
convivenza. Certo dovrà darsi un'intelligente politica economica e sociale 
d'integrazione. Le voglio raccontare un episodio che esemplifica. Qualche 
tempo fa mi trovavo a Venezia. La donna che puliva la mia camera d'albergo 
veniva dal Bangladesh. Ho riconosciuto la lingua, ci siamo messi a 
discutere. Mi ha chiesto se avevo notato, nella hall, un uomo ferito a un 
braccio. Ho risposto: certo che sì. Si è messa a raccontarmi che, al 
mercato, è stato scippato della borsa. Siccome resisteva, gli aggressori 
gli hanno rotto il braccio. Ho osservato che Venezia non mi sembrava una 
città particolarmente violenta. E lei di rimando: ma non è successo a 
Venezia, non succede mai in Italia, è successo in Svizzera. Con questo 
episodio, voglio dire che l'Italia non mi sembra un Paese particolarmente 
razzista, chi ci arriva lo percepisce e finisce, come capita anche altrove, 
per difendere anche più accanitamente degli italiani, l'immagine nazionale".
Niente conflitti di civiltà allora.

"Quello mi sembra davvero un falso problema. Le culture del mondo sono interattive, il resto è spazzatura. Nel Dodicesimo secolo, ed è solo un esempio, Gherardo da Cremona traduceva la matematica degli arabi. No, il mondo è uno e al suo interno ha molte differenze, è diviso non dalle civiltà, ma dalle lingue, dalle culture, dalla geografia, da tanti altri fattori che rappresentano una ricchezza. Semmai, se c'è scontro, è di potere".
Proprio in questi giorni è nelle sale il film 'Alexander' di Oliver Stone. 
Difficile sfuggire alla suggestione che anche 2.300 anni fa la questione 
era la stessa e cioè lo scontro di potere.
"Ho grande curiosità di vedere quel film. Ma una cosa sento già di poter 
osservare. Alessandro era, da un lato, un megalomane che voleva conquistare 
tutto. Ma dall'altro ha speso molto tempo, quando era libero dalle 
battaglie con gli elefanti, a entrare in contatto con l'altra civiltà verso 
la quale aveva un reale interesse. E questo è molto positivo oltre che 
molto diverso da ciò che avviene oggi".
È trasparente il riferimento al comportamento di Bush verso l'Iraq.

"Quello che è successo in Iraq è terribile".

Eppure, nonostante guerre e distruzioni, lei anche recentemente si è dichiarato ottimista sui destini del mondo e sulla possibilità di ridurre la povertà.
"Sì, e mi riferisco a un fatto concreto. La comunità internazionale si è 
posta l'obiettivo di ridurre entro il 2015 la povertà nel mondo. Ci restano 
ancora dieci anni per raggiungere lo scopo. E comunque è importante che 
molti Paesi si siano spesi e abbiamo sottoscritto una dichiarazione di 
valori. Credo agli obiettivi che vengono con precisione identificati, alle 
cifre. A forza di fare promesse dovremo prima o poi rendere conto delle 
stesse".
Tuttavia i Paesi ricchi (non solo l'America) sembrano più interessati ad 
aumentare le loro spese per gli armamenti militari che non per gli aiuti ai 
Paesi terzi.
"Questa è una questione decisiva. Il movimento antiglobalizzazione dovrebbe 
mettere al primo posto nella propria agenda la discussione sul come fermare 
il commercio internazionale di armi e far abbassare le spese per la Difesa. 
L'80 per cento di questo traffico è controllato dai cinque Paesi membri 
permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite".

Un Nobel dal fattore umano

Amartya Sen, 71 anni, indiano, premio Nobel per l'economia nel 1998, professore ad Harvard (Stati Uniti), è nato nel 1933 a Santiniketan (casa della pace), l'università nella foresta fondata da Rabindranath Tagore, premio Nobel per la Letteratura nel 1913. Fu proprio Tagore a scegliere il nome Amartya, che significa 'colui che è impossibile uccidere'. Nell'autobiografia, Sen nota non solo di essere nato, ma di aver vissuto praticamente tutta la sua vita in qualche campus universitario. Dopo la prima docenza a Calcutta, è stato infatti pendolare nelle più famose università del mondo, inglesi e americane.
Sen è lo studioso che ha reso centrale il fattore umano rispetto ai 
fenomeni economici. Si deve a lui (1977) l'elaborazione dell'HDI, Human 
Development Index, il coefficiente di misurazione del grado di sviluppo che 
ha introdotto nuovi parametri per la valutazione della reale ricchezza di 
un Paese: aspettativa di vita, alfabetizzazione degli adulti, distribuzione 
del reddito. Prolifico autore di numerosi testi che hanno avuto larga 
diffusione nel mondo, ha pubblicato l'anno scorso in Italia con Mondadori 
la sua ultima fatica, 'La democrazia degli altri, perché la libertà non è 
un'invenzione dell'Occidente'. Di recente è stato a Roma, per tenere la 
lecture di inaugurazione di 'Atlante 2006, scenari per il futuro', una 
serie di incontri curati dal filosofo Sebastiano Maffettone all'università 
Luiss Guido Carli.
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=a&idCategory=4791&idContent=799256


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