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dalla nuova sardegna del 8\3\2004  pagina Cultura e Spettacoli 
  
La Cuec pubblica il libro di Marco Mostallino «L?Italia radioattiva: l?atomo,
le armi, le scorie e il potere»    
Nella pattumiera nucleare    
Tra uranio impoverito e basi, la Sardegna a rischio  
   
  
Un volume che solleva il velo su segreti e colpevoli omissioni    
GIACOMO MAMELI  

Parlando a Milano al convegno «Dieci Nobel per il futuro», organizzato dall?agenzia
Hypothesis, l?economista James Tobin (anche lui premio Nobel), più che sorpreso
aveva choccato tutti affrontando i problemi dell?informazione. Erano in
molti ad attendere l?intervento del professore nato nell?Illinois, non solo
perché era passato per Harvard e Yale ma anche per essere stato alunno di
docenti-mito che si chiamavano Wassily Leontief e Joseph Schumpeter. Tobin
prese la parola in un silenzio da chiostro, attaccò con la rivoluzione elettronica
che «produce un miracolo dopo l?altro» e che trasforma in «rapida obsolescenza
ciò che fino a ieri ci sembrava fantastico». Poi passò al tema del giorno
che era quello della società dell?informazione e che avevano già affrontato
signori di nome Renato Dulbecco, Octavio Paz, George Porter e altri eccellenti
studiosi. Tobin, dopo cinque minuti dall?introduzione, disse: «Il guaio
è che trasmettere facilmente informazioni significa anche trasmettere facilmente
disinformazione e banalità. Gli utenti rischiano di venire confusi e distratti,
oltre che informati e acculturati». E aggiunse: «Il maggior numero di informazioni
non ha accresciuto la gaiezza delle nazioni».
 Fu davvero uno choc. Perché quelli erano giorni in cui Internet sembrava
sinonimo di distribuzione di felicità perpetua a tutti. E sembrava che,
tra pixel e microprocessori, avremmo avuto in un battibaleno un intero mondo
in rete, con un digital divide sconfitto per sempre.
 Il ricordo di quelle giornate milanesi dell?ormai preistorico 1995 è ridiventato
di estrema attualità leggendo le pagine di questo libro-inchiesta di Marco
Mostallino. Pagine con le quali - di primo acchito, spesso con una sorpresa
direttamente proporzionale al nostro gigantesco livello di non conoscenza
- ci rendiamo conto di non aver acquisito maggiore «gaiezza» manipolando
parole come tecnologia digitale o energia nucleare, come cellule staminali
o sequenziatore del dna, come ogm e biotecnologie. Parole che rimbombano
tra le pareti di casa, nelle casse dall?autoradio ma che ci lasciano sostanzialmente
avvolti in una nebulosa di ignoranza e di smarrimento. Sicuramente di confusione.
Più che afferrare, arraffiamo. Più che selezionare, accumuliamo, facciamo
il pieno che più superficiale di così non si può. E più i temi sono difficili
e meno ci si sforza a capire e a far capire. [...] Sentiamo e risentiamo,
vediamo e rivediamo, ma ci è molto difficile far sedimentare concetti spesso
molto difficili da interpretare.
 Chi ha mandato in archivio la confusione scientifica che avevano creato
in tutt?Italia i presunti dibattiti in vari salotti nazionalpopolari nei
giorni del caso del professor Luigi Di Bella? Non sembrava che la terapia
televisiva potesse liberarci da uno dei mali più atroci di questo secolo?
Chi ha dimenticato a quale calvario fu sottoposto il ministro della Sanità
di quel tempo quando invitava a non credere a scorciatoie terapeutiche o
a lenimenti proposti per via giudiziaria? In quel caso, come spesso avviene
ancora oggi, si tendeva non a informare ma - per usare le parole di Tobin
- a «trasmettere banalità». Soprattutto via etere, di casa in casa, di porta
in porta.
 Il vizio non è passato. Perché si continua a «banalizzare» ogniqualvolta
ci si trova davanti a enigmi che i più faciloni vogliono risolvere con l?accetta,
talvolta accusando talaltra inneggiando alle innovazioni tecnologiche. Se
ci sono strani decessi inspiegabili è facile addossarne le responsabilità
alle industrie antiche o moderne. Allo stesso modo tutto ciò che è industria
o che è moderno sembra poter essere salvifico, assolutamente risolutore
per una umanità piena proprio dei «guai» di cui parlava Tobin.
 E il nucleare? E l?uranio impoverito? E i rifiuti tossici? E le scorie?
E i malanni causati dai depositi grandi e piccoli di eternit? Il più delle
volte le risposte a quesiti più che legittimi, più che angoscianti, non
sono adeguate all?importanza del tema in discussione. Le cronache estive
in una Sardegna ribollente contro l?ipotesi di «sito» per le scorie nucleari
italiane, quanto è successo alcuni mesi dopo in un piccolo paesino della
Basilicata dimostrano quanto i temi della salute, della sicurezza coinvolgano
l?opinione pubblica.
 I mezzi di informazione hanno saputo dare il giusto rilievo agli interrogativi
che i cittadini si ponevano? Ciascuno può rispondere in base alla propria
esperienza. Ma chi leggerà questo libro si renderà conto di apprendere,
in queste pagine, da queste pagine, notizie, informazioni che sui giornali,
alla televisione, alla radio molte volte non ha sentito. Perché Marco Mostallino,
che pure è giovane, ha dimostrato di saper fare un giornalismo da inchiesta
vecchia maniera, non si è accontentato dei comunicati stampa ufficiali,
delle interviste compiacenti e compiaciute ai ministri o ai sottosegretari
di turno per poi chiudere il taccuino e lasciare che tutto restasse come
prima. Delle vicende di Saluggia l?autore di questo libro non si è limitato
a dire le cose risapute. No, è andato sul posto, a vedere che cosa era successo
nei depositi che sfioravano le acque della Dora Baltea dopo l?alluvione
del Duemila, a raccogliere testimonianze dirette, documentate, prese di
persona, non al telefono. Andate e leggervi il capitolo della mappa dell?Italia
radioattiva per capire se il problema del nucleare può ancora essere trattato
da principianti della politica e della tecnica, se si può non tener conto
delle migliaia di metri cubi di residui a media e bassa densità dislocati
in varie parti del nostro Paese.
 Un problema, un «guaio» del genere può essere affidato esclusivamente al
potere militare? Può non essere «politico» un problema che coinvolge i rapporti
diretti con altri Stati dell?Unione Europea? E, soprattutto, si può continuare
a mantenere il segreto, a vivere di omissis, in un settore che coinvolge
tutti i cittadini? Perché a La Spezia, o a La Maddalena, non si deve sapere
che cosa ospitano le acque di quei mari? In Sardegna, proprio a La Maddalena,
alla fine degli anni Settanta, esplosero casi strani di bambini nati con
malformazioni occipitali (si parlò di una malattia nota come cranioschisi).
Si è mai saputo qualcosa di ufficiale in merito? No, mai. Top secret. Omissis.
[...]
 Torniamo così ai problemi dell?informazione, soprattutto di quella locale,
regionale. Che non può, non deve essere considerata di serie b, marginale,
di ripiego, soltanto succube di quella nazionale. L?informazione locale
- quella dei quotidiani in particolare - ha una sua grande funzione soprattutto
perché in molti casi continua a essere se non l?unica la principale fonte
di informazione scritta. È vero che negli anni Sessanta il quotidiano locale
era l?unico giornale per almeno il 92 per cento dei lettori di una determinata
regione. Oggi quella percentuale si è assottigliata ma naviga ancora oltre
il 72 per cento. Vogliamo dare quotidiani di seconda serie a 72 lettori
sardi su cento?
 Da almeno un decennio - ma la patologia si è aggravata negli ultimi cinque
anni - i quotidiani regionali e provinciali hanno delegato l?informazione
nazionale e internazionale ai grandi giornali e ai grandi gruppi editoriali.
È evidente - nell?analisi dei costi e dei benefici - che un quotidiano di
Catania o di Trieste non possa avere un proprio inviato in ogni piazza calda
nazionale o internazionale. È evidente che le agenzie internazionali di
informazione avranno un ruolo sempre più importante e autorevole. Ma c?è
anche una via di mezzo. E in Italia (con i quotidiani dell?Emilia e della
Toscana, con quelli liguri, pugliesi e friulani, anche con alcuni giornali
sardi e siciliani) non erano mancati casi positivi di indagine su fatti
nazionali e internazionali letti e raccontati da cronisti di quelle «singole»
testate. È proprio la globalizzazione a imporre la «localizzazione» dell?informazione.
Le informazioni di Bruxelles non possono essere lette in un?unica chiave
paneuropea visto che da lì discendono anche le politiche di sviluppo locale
di comunità periferiche. Le strategie intorno alla valorizzazione dell?insularità
mediterranea possono non avere una informazione, una lettura «locale» inserita
in quelle più generali? Si vuol capire o no - in autonomia - che cosa propone
Bruxelles per l?Obiettivo 1, per gli Interreg e via europoeizzando o dobbiamo
passare le carte dell?Ansa romana, dell?Afp parigina o - meglio ancora -
dell?Ap o dell?Upi americana e avviarci verso il pensiero e la notizia unica?
 Il caso del nucleare di cui si occupa bene questo libro (e di cui, almeno
in una certa fase, si sono occupati con professionalità i quotidiani sardi)
è da paradigma. Possiamo immaginarci il corrispondente di un paesino sardo
analizzare questo fenomeno grave, che ci riguarda tutti, con sole informazioni
locali, paesane? L?esame globale di questi fatti deve essere l?eccezione
o la regola? Marco Mostallino ha rotto questa tendenza diffusa da «corrispondente
locale» e ha fatto ciò che si dovrebbe osare molto più spesso: essere segugi
della notizia in ogni suo aspetto, scovare e scavare, sentire diverse opinioni,
non accontentarsi delle note ufficiali di stampa, non limitarsi ad amplificare
gli interessi dei padroni, a riportarne le voci. Attività, queste, che un
professionista da solo non può fronteggiare ma che andrebbero inserite in
un progetto più completo di un giornale che fa informazione senza troppi
paletti. E guai se il palo è messo lì per dire «No entry» o «Top secret»
o «limite invalicabile» come ancora leggiamo davanti alle caserme dei carabinieri.
Se l?informazione non può essere sottoposta a censure, non può allo stesso
modo essere condizionata dalla geografia dei luoghi. Oggi c?è lo spazio
comune europeo, c?è lo spazio mondiale: e l?informazione - dal nucleare
alla genetica e a quant?altro si voglia analizzare - non può che muoversi
tra questi grandi confini. È un risultato che può, che deve cogliere anche
l?informazione locale.
 Forse queste pagine ci aiuteranno a riflettere, a poggiare - o a far poggiare
- il piede sul freno perché in questo campo le accelerazioni non sono consentite
né alle particelle atomiche né agli uomini che le maneggiano con disinvoltura.
Tantomeno a quelli in camice bianco. Se non ci sono certezze scientifiche
non si può insistere su una strada che porta al baratro e che suscita reazioni
popolari più che legittime. Anche la scienza deve avere la coscienza di
saper poggiare il piede sul freno. Anche perché senza scienza non c?è informazione.
E senza scienza, come diceva nove anni fa James Tobin, si rischia certo
di «trasmettere facilmente informazioni» ma questo processo porta anche
a «trasmettere facilmente disinformazione e banalità». Sono queste le terapie
di cui ha bisogno la società dell?informazione?