Sorella Adriana, saveriana in Sierra Leone




Invio quest'articolo di Rosati Fabio, che racconta l'esperienza di suor Adriana, una missionaria saveriana che ha operato con gli ex bambini soldato in Sierra Leone. Spero sia di interesse.
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Marcello Storgato sx
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Liberazione, 14 maggio 2002

Intervista a suor Adriana, della comunità di recupero di Makeni

Un futuro di speranza per i bambini-soldato

Fabio Rosati

La Sierra Leone ormai fa parte della sua vita, è un pezzo, neanche piccolo, del suo grande cuore. E' qui dal 1990, ha vissuto gli anni del terrore, ha conosciuto una dura prigionia dopo essere stata rapita dai ribelli del Ruf. Adriana, originaria di Frascati, è una missionaria saveriana, qualcuno la chiama sorella, ma lei a questo bada poco. Con le emergenze e i drammi che si trova a fronteggiare, figuriamoci se può fare caso ai "titoli". Quel che è certo, è che trasmette una grande allegria e altrettanta sicurezza. Insieme alla fede, l'hanno aiutata a superare i momenti più difficili.

E' a Makeni da pochi giorni e proprio qui si getterà in una nuova sfida: vedere come va la vita degli ex bambini soldato che è stato possibile riunire alle rispettive famiglie. Un lavoro non da poco qui a Makeni, visto che le ondate migratorie successive alla lunga guerra hanno "rivoluzionato" la popolazione e trasformato il grande villaggio in una comunità in parte nuova. Ma Adriana non si perderà certamente d'animo. Come non si è persa d'animo nel '95, quando per due mesi finì prigioniera dei ribelli. Molti di quelli che la portarono via con la forza dalla missione di Kambia, oggi sono liberi. Ma c'è di più: una parte erano bambini soldato e lei nei due anni appena trascorsi ha contribuito al loro recupero nel centro di Lakka, alla periferia di Freetown. Quel centro, che lei ha diretto, è uno dei fiori all'occhiello dei missionari che lavorano in questa terra tanto difficile. Se oggi ha chiuso, è perché gli operatori sono riusciti a recuperare in pieno tutti i bambini che aveva potuto ospitare. «Sono stati 2.600 i bambini ex combattenti passati da noi e poi consegnati alle rispettive famiglie - ci dice Adriana - per gli altri abbiamo trovato risposte alternative, dagli affidamenti alle famiglie allargate. E' questa una soluzione molto presente in Africa quando non si riescono a rintracciare i genitori dei bambini».

Come venivano condotti i bambini nel centro di Lakka?

Le Nazioni Unite facevano da intermediarie e ce li consegnavano. Si trattava veramente di ragazzini, alcuni non avevano neppure otto anni e già avevano combattuto e ammazzato. C'era chi si avvicinava a noi con grande entusiasmo e voglia di ricominciare, altri avevano paura, pensavano chissà che cosa gli facessimo. Ma era comprensibile, avevano vissuto periodi bui, non avevano conosciuto l'infanzia. Ricordo che un bambino si è tranquillizzato soltanto quando una operatrice lo ha portato dal medico e ha pagato lei la visita. Aveva capito di essere finito in buone mani.

Un lavoro certamente difficile quello del recupero. Come vi eravate organizzati?

In tutto il centro eravamo oltre mille. Prima cosa, evitavamo il contatto tra i bambini e i giornalisti che andavano alla ricerca delle notizie clamorose. Sarebbe stato un danno. Poi, cercavamo di far esprimere questi ragazzi, prima con il disegno, poi con la parola. Ricordo che disegnavano il loro villaggio prima della guerra, durante e dopo la guerra, con le scene delle stragi. Erano disegni che rivelavano situazioni umane molto difficili. Tra questi bambini, ho riconosciuto anche chi mi ha rapito e tenuta prigioniera. Sono stati momenti commoventi. Adesso alcuni sono assistenti di comunità.

A Lakka venivano soltanto maschi?

Sì, e questo era un male, perché molte ragazze hanno subìto violenze e poi sono state abbandonate. Adesso si trovano a pagare un prezzo salatissimo, escluse dalla comunità, senza un futuro e con figli da mantenere.

Il programma di recupero quali punti di riferimento aveva?

Noi puntavamo sulla riumanizzazione di bambini trasformati in robot da guerra. Avevamo creato una struttura sul modello della famiglia classica. Ogni bambino aveva una coppia di assistenti che gli facevano da genitori e a loro doveva fare riferimento. Ogni gruppo familiare così costituito viveva in bungalow. La giornata veniva vissuta in piena attività: scuola, pasti, compiti, sport, teatro. Chi preferiva imparare un mestiere veniva inviato all'apprendistato. C'era la possibilità di scegliere tra la falegnameria, la sartoria o l'attività di pesca. Tutti erano coinvolti con grande entusiasmo. Abbiamo cercato di insegnare a questi bambini le regole del buon vivere, del rispetto per sé e per gli altri.

Il risultato?

Sono soddisfatta, questi ragazzi hanno conosciuto un'altra vita e oggi non ne vogliono sapere della guerra. Adesso si tratta di fornire loro un futuro degno, un'occupazione.

Sono mai venuti dei genitori a riprendersi i propri figli?

Certamente. Sono state scene bellissime, indimenticabili. Ricordo un papà che non vedeva il figlio da sei anni. Prima di venire a Lakka aveva fatto il giro di tutti i centri di recupero. Adesso quel bambino ha dieci anni. Purtroppo, quel caso ha fatto cadere in depressione la famiglia che nel centro si era presa cura di quel bambimo. Ricordo la donna che lo aveva fatto crescere, lo aveva allevato con molta cura. Era in fin di vita quel piccolo quando ci è stato consegnato. Alla fine il caso ha voluto che lavorassimo per recuperare la sua assistente.

Adesso che cosa farai?

Ad agosto torno in Italia. In questi mesi mi metterò sulle tracce degli ex bambini soldato riconsegnati alle loro famiglie per vedere che prospettive di vita hanno davanti a sé.