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L'Italia alle armi
- Subject: L'Italia alle armi
- From: Alessandro Marescotti <kfqma at tin.it>
- Date: Fri, 04 Feb 2000 10:57:50 +0100
L'ITALIA DELLE ARMI Di Carlo Gubitosa - <c.gubitosa at peacelink.it> "Domina, su ogni altra sfida del nuovo secolo, il mantenimento della pace. Nell'eta nucleare, impedire nuove guerre è indispensabile per la nostra stessa sopravvivenza. Occorre rafforzare le istituzioni sovranazionali ancora inadeguate ad assicurare il successo in questo fondamentale compito. L'Italia è parte del ristretto numero di grandi nazioni sulle quali ricadono in tutti questi campi le maggiori responsabilità". Con queste parole Carlo Azeglio Ciampi ha salutato il 2000 nel messaggio alla nazione del 31 dicembre. Le parole di Ciampi danno spazio a numerosi interrogativi: Quale potrà essere la credibilità e la dignità del nostro Paese nel delicato processo di risoluzione pacifica dei conflitti internazionali? Quali sono le scelte politiche con cui nostri governanti intendono costruire la pace mondiale? Molti segnali possono indurre al pessimismo: in quella che il Presidente Ciampi ha definito con preoccupazione "l'età nucleare", l'Italia ha ratificato un trattato internazionale (la nuova "dichiarazione di principi" della Nato) con cui si ribadisce ancora una volta il ruolo indispensabile delle armi atomiche. Nonostante il "mantenimento della pace" auspicato dal presidente, le esportazioni di armi italiane continuano ad aumentare, anche e soprattutto nei paesi in cui i diritti umani vengono violati quotidianamente e sistematicamente. Malgrado i buoni propositi espressi da Ciampi in merito al rafforzamento delle istituzioni sovranazionali, il partito di maggioranza relativa del nostro governo, con una larghissima maggioranza di voti contrari, ha bocciato nel congresso di gennaio una mozione piccola piccola in cui si affermava semplicemente che "nessun intervento armato internazionale deve più avvenire fuori dalla legittimazione dell'ONU", dimostrando che il ruolo marginale assegnato dai G7+1 alle Nazioni Unite non è stato il frutto temporaneo dell'emergenza balcanica, ma una chiara e definitiva scelta politica mirata ad esautorare definitivamente l'ONU in materia di risoluzione dei conflitti. L'adozione del cosiddetto "nuovo modello di difesa", una spesa militare in costante aumento e una spesa sociale in via di estinzione completano un quadro politico in base al quale il nostro futuro e la sicurezza del nostro Paese rischiano di essere seriamente compromessi negli anni a venire. "FALSO IN BILANCIO" DEL GOVERNO D'ALEMA Per quanto riguarda il commercio delle armi, il governo D'Alema si è reso responsabile nei mesi scorsi di un vero e proprio "falso in bilancio". Secondo l'articolo 5 della legge 185/90, che ha introdotto in Italia "norme per l'esportazione, importazione e transito di materiali di armamenti", la Presidenza del Consiglio dei Ministri è tenuta a presentare al Parlamento una relazione annuale sulle esportazioni autorizzate di armi italiane. Il 31 marzo del 1999 il Generale Cucchi, consigliere militare del Governo D'Alema I, ha presentato la relazione relativa alle armi prodotte e vendute dall'Italia nel 1998. C'è stato un tempo in cui i pacifisti si auguravano che un governo di "sinistra" scegliesse come consigliere militare una persona rispettosa del diritto internazionale, magari non direttamente coinvolta con la gerarchia militare, che avesse la volontà di destinare le nostre forze armate unicamente al servizio delle Nazioni Unite. Oggi i pacifisti si augurano che la nuova sinistra di governo scelga collaboratori che siano almeno in grado di controllare i risultati di addizioni e moltiplicazioni. Nella relazione presentata dalla Presidenza del Consiglio, infatti, risulta che il valore globale delle autorizzazioni rilasciate per l'esportazione di armi nel 1998 è calato del 6% rispetto ai dati dell'anno precedente. Purtoppo questi valori non sono il frutto di una improvvisa riconversione dell'industria bellica, ma semplicemente un'"illusione ottica" provocata da due gravi errori contabili e di trascrizione (marchi per lire e miliardi per milioni), errori riconosciuti e confermati dalla Presidenza del Consiglio, che avrebbe volentieri sorvolato su questa svista se questi errori non fossero stati pesantemente rilevati da "Oscar", l'osservatorio fiorentino sul commercio delle armi, che ha dimostrato, conti e tabelle alla mano, come l'esportazione di armi italiane sia aumentata del 30% anziché calata del 6%. Ma non è questo l'unico dato preoccupante evidenziato nel "Rapporto Oscar". Oltre alla quantità, è interessante anche scoprire i destinatari delle nostre esportazioni. Il quadro che emerge nel rapporto è a dir poco angosciante: nonostante i divieti contenuti nella legge 185/90, nella lista dei nostri clienti figurano paesi come Turchia, Algeria, Cina, Brasile, Arabia Saudita, India, Indonesia e Pakistan, più volte segnalati per ripetute violazioni dei diritti umani fondamentali. Purtroppo ai nostri politici non bastano i rapporti annuali di Amnesty International e le segnalazioni di ONG e organizzazioni umanitarie per classificare questi paesi come "repressivi o aggressivi", vietando di conseguenza l'esportazione di armi italiane verso questi paesi in base alla legge 185. Il caso più eclatante è forse quello della Colombia, un paese che nel 1998 ha acquistato armi dall'Italia per 10 miliardi e mezzo, segnalato nel rapporto annuale 1999 di Amnesty International per "Più di 1000 civili uccisi dalle forze di sicurezza o gruppi paramilitari". Sempre leggendo il rapporto di Amnesty scopriamo che "Molte vittime sono state torturate prima di essere uccise. Minacciati e attaccati attivisti per i diritti umani; almeno 6 sono stati uccisi. Nelle zone urbane continuano le uccisioni da parte degli squadroni della morte. Molti militari sono stati accusati di violazioni dei diritti umani; molti altri continuano a sottrarsi alle responsabilità. Gruppi armati dell'opposizione sono stati responsabili di numerosi abusi dei diritti umani, comprese uccisioni intenzionali e indiscriminate e della cattura di centinaia di ostaggi". Perché l'Italia continua a vendere armi alla Colombia? Secondo il "Rapporto Oscar" già citato in precedenza, "Il governo italiano non ha sospeso le autorizzazioni alle esportazioni [verso la Colombia Ndr] appellandosi al fatto che la Commissione ONU ha espresso solo una raccomandazione e non una condanna formale per violazioni dei diritti umani". Vale a dire che per quanto riguarda la vendita delle armi, ogni paese è un buon cliente fino a prova contraria, e che l'unica "prova contraria" ammessa è una condanna formale dell'ONU. Questo può far dormire sonni tranquilli a paesi come la Cina (che dovrebbe condannarsi da sola in quanto membro del consiglio di sicurezza ONU) o la Turchia (Membro della Nato protetto in sede ONU dal veto statunitense). Documenti "futili" come i rapporti di Amnesty International non sono un freno sufficiente per arrestare il mercato globale degli strumenti di morte. L'EUROPA DEGLI EUROFIGHTER Un ulteriore beffa con il quale il nostro governo ha preteso di aggirare i limiti imposti dalla legge 185/90 è stata una circolare emanata nell'ottobre 1998 dal Ministero delle Finanze, che sottrae alle normali procedure di autorizzazioni il commercio di armi relative a 13 coproduzioni multinazionali, tra cui i cacciabombardieri eurofighter, un progetto europeo a cui l'italia contribuisce con 16.000 miliardi, che verranno sottratti al bilancio dello stato negli anni dal 1998 al 2006, per la produzione di 121 caccia bombardieri. La cifra stanziata per il progetto Eurofighter relativa all'anno 2000 è partita da 820 miliardi, e potrebbe raggiungere un totale di 1020 grazie all'emendamento Tab.D.18.45 con cui il Governo ha proposto di stornare 200 miliardi da destinare al cap. 7177 dello stato di previsione del Ministero della difesa, relativo appunto al progetto Eurofighter. Parallelamente le spese per la sanità hanno subito un taglio dell'ordine di parecchie decine di miliardi, solo un assaggio di quanto accadrà in caso di vittoria del referendum radicale sull'abolizione del servizio sanitario nazionale. Consultando le pagine Internet all'indirizzo http://eurofighter-typhoon.com scopriamo che il progetto Eurofighter è promosso da un consorzio di 4 stati (Italia, Spagna, Germania e Gran Bretagna), e che tra le industrie coinvolte figurano numerose aziende italiane, soprattutto del gruppo Fiat. Gli stati membri del consorzio si sono già spartiti il "bottino", ossia le zone di mercato, e all'italiana Alenia Aerospazio toccherà il compito di piazzare gli Eurofighter in Brasile, Filippine e Sudafrica, sperando che quest'anno in queste zone del mondo qualche dittatorello decida di rinnovare il suo arsenale. IL NUOVO VOLTO DELLE FORZE ARMATE L'esercito del 2000 comprende, tra l'altro, i già citati Eurofighter, la nuova portaerei Einaudi da 4000 milardi, la trasformazione della Brigata Friuli in brigata aeromobili addestrata per semina di mine da elicottero. Tuttavia l'ingrediente fondamentale che da alcuni anni a questa parte ha cambiato la fisionomia, lo spirito e gli obiettivi del nostro apparato militare non è un bombardiere o una portaerei, ma il "nuovo modello di difesa", un apparato teorico con il quale mettere finalmente nero su bianco che le guerre non si fanno solo per difendere il paese, ma anche per "pacificare" le zone di conflitto legate in un modo o nell'altro ai nostri interessi economici o strategici. Il "Nuovo Modello di Difesa", è un documento presentato in parlamento nell'ottobre del '91, che non è mai stato discusso o trasformato in legge, ma che è stato di fatto messo in pratica con opportuni stanziamenti di anno in anno. A pag. 44 questo documento definisce chiaramente la difesa degli "interessi vitali" del paese "ovunque minacciati o compromessi". Questo nuovo carattere "extraterritoriale" della difesa del paese è ormai un dato acquisito e assimilato dalle gerarchie militari, come risulta da un servizio di Maurizio Crovato intitolato "Addio alla naja", trasmesso nel corso del "TG2 Dossier" del 19 novembre scorso. Nel corso di questo servizio il generale Resce, comandante della brigata alpini julia, ha dichiarato testualmente che "l'esercito del 2000 sarà un esercito abilitato alle moderne operazioni, quelle che non sono più - o non solo - rivolte alla difesa del territorio nazionale, ma sono orientate verso missioni più dinamiche, di controllo preventivo della conflittualità. (...) l'esercito quindi è un esercito di proiezione, non è più un esercito di difesa statica di un confine che, grazie a Dio, è diventato sicuro con gli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni della storia europea". I vertici delle forze armate ammettono apertamente che i nostri confini sono sicuri, e il nostro esercito non avrebbe più ragione di esistere se non in virtù delle azioni militari svolte al di fuori del territorio nazionale. Per coerenza alle caratteristiche dell'"esercito del 2000" qualcuno potrebbe addirittura proporre di cambiare il nome del Ministero della Difesa in "Ministero della proiezione" o più onestamente "Ministero dell'attacco". Il "Nuovo Modello di Difesa", lo stratagemma italiano con cui si è cercato di legittimare la "guerra di proiezione" nel nostro Paese, ha come equivalente su scala internazionale il "Nuovo Concetto Strategico" dell'Alleanza Atlantica, un documento in base al quale i paesi membri della Nato hanno conferito a se stessi il ruolo di "Gendarme Mondiale", stravolgendo i principi ispiratori dell'Alleanza Atlantica, nata con scopi puramente difensivi. La differenza tra i due documenti, oltre all'ambito geografico di applicazione, sta anche nella loro natura giuridica. Se il "Nuovo Modello di Difesa" può essere in fondo considerato come un pezzo di carta che non ha ancora trovato riscontro in nessun atto ufficiale, il "Nuovo Concetto Strategico" è (purtroppo) un trattato internazionale in piena regola, che il 24 aprile 1999 è stato firmato a nome del popolo italiano dal Presidente del Consiglio Massimo D'Alema. Nessuno dei principali mezzi di informazione ha commentato o pubblicato questo documento, un trattato che non è stato sottoposto a nessun tipo di verifica, di controllo o di discussione e che non è frutto del dibattito parlamentare, un testo sconosciuto fino alla sua ratifica, un patto scellerato che riporta il mondo indietro di cinquant'anni, affermando ancora una volta che non può esserci pace senza l'effetto deterrente delle armi nucleari. Collegandosi attraverso l'Internet all'indirizzo <http://www.nato.int/docu/pr/1999/p99-065e.htm> è possibile visionare il testo integrale di questo documento. In particolare, al paragrafo 20 si legge che la sicurezza dell'alleanza è legata non solo alla possibilità di un attacco ad uno degli stati membri, ormai molto remota, ma anche all' "incertezza e instabilità nell'area euro-atlantica" e alle "crisi regionali alla periferia dell'alleanza". In pratica alla Nato non basta più la sicurezza e la pace dei suoi alleati, ma è necessario che sia "pacificata" anche la "periferia dell'impero". Per quanto riguarda l'utilizzo delle armi nucleari vengono utilizzati toni molto chiari: "Le armi nucleari danno un contributo insostituibile per rendere incalcolabile e inaccettabile il rischio di una aggressione contro l'alleanza, e pertanto rimangono essenziali per il mantenimento della pace". (par. 46) "La garanzia suprema della sicurezza degli alleati proviene dalle forze nucleari strategiche dell'alleanza, e in particolare da quelle degli Stati Uniti" (par. 62) "Le forze nucleari europee della Nato costituiscono una componente politica e militare fondamentale per collegare i membri europei e americani dell'alleanza. Pertanto l'alleanza manterrà in Europa un numero sufficiente di armi nucleari". (par. 63) IL CORAGGIO DELLE SCELTE Al di là del ruolo di "custodi della pace" che il nostro Presidente della Repubblica vorrebbe assegnare al nostro Paese, esiste una realtà politica, economica e militare che spinge verso la fabbricazione, il commercio, la proliferazione e il conseguente utilizzo delle armi convenzionali e nucleari. Di fronte al coro di proteste di tutti gli operatori di pace, molti fanno appello al "buon senso" della "Realpolitik", che non ama eccessi o posizioni radicali, ma ricerca il compromesso e la mediazione tra pace e testate nucleari, tra disoccupati e confindustria, tra liberi cittadini e centri di potere politico e militare, una mediazione che inevitabilmente finisce col premiare le ragioni del più forte. Ai nostri governanti è stato chiesto ripetutamente di dire e fare "qualcosa di sinistra", e ripetutamente la risposta è stata una sola: quando si indossa l'abito di governo bisogna rinunciare all'abito ideologico, etichettando come "ideologica" e come figlia dell'utopia qualsiasi proposta di riconversione dell'industria bellica, democratizzazione e al rafforzamento delle Nazioni Unite, tassazione delle speculazioni finanziarie, aumento della spesa pubblica per l'istruzione e la sanità. Il problema diventa allora la determinazione di spazi e di principi che non possono essere oggetto di trattativa o di mediazione, e uno di questi è senza dubbio la sfera del diritto. Per dire e fare qualcosa di sinistra non c'è bisogno di riesumare il vecchio eskimo o di rispolverare i fantasmi del marxismo: basterebbe utilizzare la forza del diritto a beneficio della Pace e della giustizia sociale, trasformando in prassi leggi e trattati già stabiliti sulla carta. Un primo passo potrebbe essere quello di destinare lo 0,7% del PIL ad iniziative di cooperazione internazionale, per favorire lo sviluppo dei paesi impoveriti, così come è previsto dal capitolo 33 dell'Agenda 21, il programma d'azione per lo sviluppo umano e ambientale concordato dalle Nazioni Unite nel 1992 a Rio de Janeiro in occasione del "Vertice della Terra". Tra i 170 paesi firmatari dell'"Agenda 21" c'è anche l'Italia, che attualmente dedica ai paesi in via di sviluppo meno dello 0.1% del PIL. Si potrebbe poi continuare chiedendo che nei programmi scolastici delle scuole di ogni ordine e grado vengano inserite delle attività di educazione alla Pace e alla Nonviolenza, in ottemperanza alla risoluzione approvata dall'assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 novembre 1998, una risoluzione con cui il decennio 2001/2010 è stato proclamato "Decennio internazionale per la Cultura della Pace e della Nonviolenza per i bambini del mondo". Un'altra scelta coraggiosa potrebbe essere una ferma applicazione della legge 185/90, bloccando tutte le vendite di armi italiane a tutti i paesi segnalati per le loro violazioni dei diritti umani fondamentali, come la Colombia, la Cina, la Turchia e l'Indonesia. Per la ricerca di un'alternativa alla difesa armata basterebbe dare piena attuazione alla legge 230/98, con riferimento particolare all'articolo 8 della legge, in base al quale l'Ufficio nazionale per il servizio civile, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ha l'impegno di "predisporre, d'intesa con il Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta". Per dire "qualcosa di sinistra" basterebbe mettere in pratica la raccomandazione accolta dalla Camera dei Deputati il 14 aprile 1998, con la quale il governo si è impegnato "a studiare forme atte alla creazione ed alla formazione operativa di un contingente italiano di caschi bianchi" da mettere a disposizione dell'ONU, un contingente che "potrebbe essere costituito anche da obiettori che lo richiedano". Con questi esempi (e ce ne sarebbero molti altri) è chiaro che l'utopia è solo questione di punti di vista. Un contingente italiano di Caschi Bianchi non è certo un'utopia, ma è utopia chiedere un contingente italiano di Caschi Bianchi o il rafforzamento delle Nazioni Unite alla classe politica che attualmente governa il paese, anche alla luce delle recenti rivelazioni sul congresso DS pubblicate dal "Manifesto" del 18 gennaio. "Nessun Intervento armato internazionale deve più avvenire fuori dalla legittimazione dell'ONU (...) Bisogna superare tutti gli alibi e ridare centralità alle Nazioni Unite. Per fare questo è necessario che si proceda ad una riforma del consiglio di sicurezza". Affermazioni chiare e perentorie, in teoria condivise dagli stessi vertici DS, contenute in una mozione respinta seccamente dalla stragrande maggioranza dei delegati al congresso. Una posizione accuratamente censurata persino sulle pagine Internet del partito, dove non viene neppure fatta menzione della mozione respinta. La bocciatura di questa mozione contrasta le affermazioni dello stesso Veltroni, che nel corso della marcia per la pace Perugia/Assisi aveva indicato le Nazioni Unite come l'unico tavolo di discussione possibile per l'affermazione dei diritti umani su scala mondiale. Il traffico e la produzione di armi in Italia, il potere nucleare della Nato, l'aumento della spesa militare, l'adozione del nuovo modello di difesa incideranno sulla nostra vita molto di più di quanto non appaia oggi, soprattutto in assenza di un progetto politico e di una scelta di campo che trasformino il nostro Paese in un vero "custode della pace". L'alternativa all'Italia armata va ricercata per il momento al di fuori del palazzo, tra tutti i movimenti, le ONG e le associazioni che affermano con testarda e lucida determinazione che un altro mondo è possibile, lottando con gli strumenti "poveri" della controinformazione contro il pensiero unico dei media globalizzati. Fino a quando la ricerca della pace non uscirà dal limbo dell'utopia per diventare un concreto progetto politico, le parole di pace del nostro Presidente, pur pronunciate con onestà e speranza, saranno parole buone solo per mettere a tacere la nostra coscienza la notte del 31 dicembre, tra un panettone e uno spumante. Oggi più che mai è necessario sostenere e valorizzare gli "anticorpi" della società civile, stimolare la partecipazione politica popolare al di fuori dei partiti, tenere sveglia l'attenzione e lo spirito critico, ricercare canali alternativi di informazione e di documentazione, ricontrollare somme, moltiplicazioni, affermazioni e documenti, mettere in discussione persino gli atti e i bilanci ufficiali prodotti dal Consiglio dei Ministri. Da Seattle a Palazzo Chigi, la società civile è pronta a far sentire la sua voce. Politici e guerrafondai sono avvertiti. Carlo Gubitosa - Associazione PeaceLink c.gubitosa at peacelink.it http://www.peacelink.it ----------------------------------------- Peacelink è una associazione di volontariato dell' informazione che dal 1992 offre una alternativa ai messaggi proposti dai grandi gruppi editoriali e televisivi. PeaceLink collabora con associazioni di volontariato, insegnanti, educatori ed operatori sociali che si occupano di Pace, nonviolenza, diritti umani, liberazione dei popoli oppressi, rispetto dell'ambiente e libertà di espressione. Tutti i volontari di PeaceLink svolgono il loro lavoro a titolo puramente gratuito, per dare voce a chi non ha voce. ============================================================== Carlo Gubitosa - 0368/3476589 - Via Tarabella 3 - 20132 Milano ==============================================================
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