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Persichetti, o monsieur de la calomnie
Persichetti, o monsieur de la calomnie.
Un po' di storia e di verità sugli anni 70 e la detenzione politica
Ho sempre avuto un deciso fastidio per le polemiche tra "ex" e per
l'autolesionistica propensione alla rissosità, così radicata nel DNA della
sinistra.
Ho sempre solidarizzato con chi sta in carcere, non solo per comune
condizione ed esperienza, ma in quanto, parafrasando il poeta inglese John
Donne, l'imprigionamento di ogni uomo mi diminuisce e mi addolora, perché
sono implicato nell'umanità.
D'altro canto, dalle calunnie bisogna pur difendersi. Specie se sono
gratuite e non episodiche.
Paolo Persichetti, in un'intervista al quotidiano "La Stampa" del 25
settembre, dimostra e conferma di essere un calunniatore professionale.
Anche ora, dalle carceri italiane, mantiene una pigra continuità con la
pratica di quella esigua parte di fuoriusciti soggiornanti a Parigi che,
nel corso degli anni, ha fatto della maldicenza e dell'insulto lo strumento
preferito della battaglia politica. Nulla di nuovo: è l'onda lunga e triste
dello stalinismo.
Calunnia, calunnia, qualcosa resterà
Per anni, nel pozzo nero delle carceri e dei "braccetti" speciali
sottoposti al famigerato articolo 90, abbiamo dovuto sopportare il
venticello della calunnia e del rancore che arrivava da alcuni bistrot
parigini. Certo, a opera solo di una minoranza dei fuoriusciti a Parigi,
una sorta di "banda dei 4", ma assai rumorosa e petulante, dunque con
qualche visibilità ed efficacia, secondo il noto motto: calunnia, calunnia,
qualcosa resterà. Temo che, grazie al buco nero nella memoria collettiva e
a certa compiacenza o antiche frequentazioni di qualche lobby
intellettual-mediatica-salottiera per tale minoranza rumorosa, qualcosa
delle reiterate campagne di disinformazione sugli anni 70 e sulla
detenzione politica operate da costoro possa attecchire. Soprattutto in
chi, per ragioni anagrafiche, non li ha vissuti e stante che, anche nelle
assemblee del movimento, si aggirano tuttora ex colleghi o coimputati di
Persichetti altrettanto e impudentemente maldicenti.
La delegittimazione della lotta armata
L'accusa che viene rivolta a me e ad altri, ma con ancora maggiore livore a
Toni Negri, era ed è che «l'invenzione del concetto della dissociazione e
della "delegittimazione dall'interno" della sovversione politica ha fornito
- a partire dai primi anni 80 - un contributo molto più decisivo ed
efficace di Sofri, e altri dirigenti di LC, come Marco Boato ed Enrico
Deaglio, nella lotta contro la sovversione politica e la lotta armata in
Italia» (cfr. il libro Il nemico inconfessabile, di Persichetti e Scalzone).
Insomma, chi in quegli anni nelle carceri italiane portava avanti il
movimento della dissociazione era un traditore, al servizio di uno stato
per giunta assai poco riconoscente: «Il trattamento restrittivo e
vendicativo che gli [a Toni Negri] è stato riservato dopo il rientro in
Italia e la sua costituzione alla giustizia nel luglio 1997, mostra una
mancanza di gratitudine da parte dello Stato italiano assai notevole»
continuano ironici e compiaciuti gli autori del testo citato.
Dignità e onestà intellettuale
È forte il fastidio di vedere questo livore e disprezzo rivolto a chi, come
Adriano Sofri ma come lo stesso Negri, sono in carcere da tempo con una
dignità, senso della responsabilità e onestà intellettuale ammirevoli ed
evidentemente - letteralmente - incomprensibili a Persichetti e Scalzone.
Beninteso: io non sono un sostenitore delle virtù della pena e del carcere.
Tutt'altro. Penso che il carcere sia una violenza non necessaria, sempre
avvilente e spesso feroce; da tempo sono impegnato anche nel volontariato
penitenziario e da anni porto avanti una battaglia per provvedimenti di
amnistia e indulto rivolti a tutti i reclusi. Sono però assertore del senso
di responsabilità politica, che è cosa assai diversa (ben più alta e più
impegnativa) di quella giuridica, e del coraggio dell'autocritica e della
revisione. Facoltà queste ultime (autocritica e revisione delle analisi)
che Scalzone ammette per sé (cfr. intervista a "L'Espresso" del 28
settembre 1980), ma evidentemente nega agli altri.
Prima disertori, poi censori
Detto ciò, mi pare francamente paradossale che tali accuse e contumelie
arrivino da coloro che, nella logica dei movimenti rivoluzionari (e specie
se si assume che negli anni 70 in Italia ci fu una sorta di "guerra
civile", come alcuni sostengono), sono da considerarsi dei disertori. Uso
questo termine in senso puramente tecnico e fattuale, non certo come
insulto, avendo (non in questo caso, ma certo in generale) un'alta
considerazione di chi si sottrae alla logica della guerra, di classe, di
religione o d'Impero che sia. Per dirla con la Cassandra di Christa Wolf:
«Tra morire e uccidere, c'è una terza possibilità: vivere». Dunque, ben
vengano i "disertori", purché non si arroghino in seguito il ruolo dei
giudici e dei censori dei comportamenti, delle scelte e della moralità dei
prigionieri.
La collettività della Terza via e i crumiri
La mia e nostra scelta nelle carceri fu, appunto, un faticoso e doloroso
percorso collettivo di ricerca di una "terza via", di una diversa soluzione
rispetto alle diserzioni individuali, al cannibalismo dei "pentiti", al
continuismo acefalo degli "irriducibili" e all'opportunismo dei "silenti",
poi lesti, come i crumiri in fabbrica, nel fruire delle conquiste
collettive, legge sulla dissociazione o "Gozzini" che sia. Fu un percorso
di desistenza collettiva e condivisa, nel senso proprio di decisa assieme,
in assemblea: e questa mi pare differenza non da poco rispetto alla logica
di sopravvivenza, di trattativa o diserzione individuale. E non perché
abbia una moralità superiore, ma in quanto ha valore politico. E questo, ad
esempio, è anche il motivo per cui oggi nessuno può sognarsi di riesumare
la sigla di Prima Linea per compiere omicidi, a differenza di quanto
avviene per le BR.
Disinnescare la macchina e la logica di guerra
E questo è, veramente, il punto: l'aver "delegittimato dall'interno" la
lotta armata, l'aver sciolto pubblicamente Prima Linea e altre
organizzazioni minori, ovvero essersi assunti la responsabilità di
disinnescare la macchina e la logica di guerra che si era in precedenza
costruita o accettata, è esattamente il motivo per cui oggi nessuno può più
uccidere con quel nome e con quei simboli. Viceversa, il fatto che le BR
non abbiano compiuto percorsi analoghi, collettivi e pubblici, contribuisce
a far sì che qualcuno, oggi, si senta legittimato a usare quel "logo" per
uccidere Biagi e D'Antona. Questo è il punto: la rottura di continuità,
pubblica e politica, la proposta di una diversa "Linea di condotta"; che è
cosa diversa dal proprio certificato penale. Questo è quanto Scalzone finge
di non sapere o effettivamente non capisce.
I magistrati dell'emergenza
Del resto, il nostro percorso carcerario e politico fu fortemente e
lungamente osteggiato dai magistrati dell'emergenza antiterrorismo (chi si
ricorda della "lobby dei 36"?), nonché dall'apparato penitenziario. Non a
caso: perché toglieva spazio e credibilità sia ai "pentiti" sia al
continuismo "irriducibile" o "silenzioso" che, a sua volta, veniva usato
per legittimare e perpetuare all'infinito la logica dell'emergenza e del
sostanzialismo giuridico. Ma sicuramente gli avversatori più tenacemente
rancorosi, aggressivi e sleali furono la parigina "banda dei 4" e, in
carcere, i "pentiti di essersi pentiti", ovvero quei militanti che avendo
collaborato coi giudici e magari fatto arrestare i loro compagni, poi si
"pentirono" di tale scelta e divennero i più implacabili fustigatori di
ogni vero o supposto cedimento da parte di altri militanti incarcerati.
La legge sulla dissociazione e la legge Cossiga
Un percorso, quello della dissociazione, che portò infine a una legge:
brutta per alcuni aspetti, ma che in ogni modo si tradusse in una sorta di
indulto, che consentì l'uscita progressiva e anticipata dal carcere di
migliaia di persone, a cominciare dai tantissimi giovani con scarse
responsabilità penali ma gravati da condanne esorbitanti, appunto per le
logiche e le leggi dell'emergenza (la "legge Cossiga" in primo luogo).
Questo io chiamo responsabilità: chi si è arrogato, o comunque
obiettivamente ha avuto, un ruolo trainante nella radicalizzazione violenta
del conflitto e nella scelta delle armi, a sconfitta avvenuta, après le
déluge come ama dire Scalzone, non può decretare l'"ognuno per sé" o
rivendicare e giustificare il "diritto al silenzio" (cfr. intervista a
Scalzone su "la Repubblica" del 28 agosto 2002). Nemmeno può fingere che
tutto ciò sia stato una specie di laboratorio politico, una semplice
rappresentazione in vitro del conflitto: perché è stata carne e sangue,
morte e carcere. E di questo bisogna dare conto ed evitare che si ripeta.
Non il conflitto, beninteso: la morte e il carcere.
Responsabilità intellettuale e discorso etico
Oltre a tutto questo, appunto, vi sarebbe da fare un ragionamento sulla
responsabilità anche umana e intellettuale, non solo politica; un discorso
etico, non solo politico, sul rifiuto della violenza, della morte,
dell'omicidio politico, sulla sofferenza delle vittime e dei familiari. Ma,
in sede di polemica con quelle logiche, mi sembra veramente sprecato e,
come dire?, irricevibile.
Fatto sta che è ormai ventennale la campagna di menzogna e di odio
alimentata nei confronti del movimento della dissociazione e di suoi
singoli esponenti. Campagna che allora diventò una legittimazione, se non
una obiettiva istigazione, all'aggressione fisica nei nostri confronti.
Tentativi di omicidio
Proprio pochi giorni fa, Toni Negri ha rivelato a "Le Monde" il tentativo
dei brigatisti di ucciderlo durante la sua prima detenzione. Lo stesso
successe a me e ad altri nelle carceri speciali, quando istruimmo il
percorso politico della dissociazione. Un movimento e un percorso, lo
ripeto, collettivo; tanto che, sono costretti a riconoscere gli stessi
Persichetti e Scalzone, coinvolse la «quasi totalità di Prima linea»,
nonché molti altri gruppi minori, pezzi dell'Autonomia e del movimento e
tanti singoli, anche delle BR.
Percorso politico, dunque. Che è cosa ben diversa dal «firmare lettere di
dissociazione», come dice Scalzone. Percorso politico significa conflitto e
mediazione. E questo è stato. Perché l'indulto e l'amnistia, le soluzioni
di libertà non basta invocarle. E tanto più dai bistrot o solo per sé.
Bisogna contribuire politicamente a renderle possibili. Anche assumendo le
responsabilità politiche che competono a ciascuno, in misura maggiore o
minore a seconda delle scelte compiute ma anche dei ruoli avuti.
L'innocenza meschina del casellario giudiziario
A questo argomento, Scalzone usa eccepire che non gli vengono contestati
omicidi o reati di sangue (cfr. l'intervista a "la Repubblica" già citata).
In sostanza rivendica quell'innocenza «che attiene al casellario
giudiziario» e che lui stesso definì «meschina» qualche lustro fa (in
"Synopsis", numero speciale del 24 marzo 1984). In ciò mostrando una
cocciuta indisponibilità a considerare (a comprendere?) il concetto di
responsabilità politica, e non solo penale, rispetto a quegli anni e quegli
avvenimenti. Anche questo è paradossale, perché somiglia da vicino alla
logica con cui gran parte dei magistrati di quegli anni si rifiutavano di
considerare altro che la responsabilità penale, in uno schema binario
colpevole/innocente, senza alcuno spazio per la motivazione politica e il
contesto storico e sociale di quegli avvenimenti.
Il passato e il futuro, la dignità e la libertà
Su "La Stampa" Persichetti cita Kundera, peraltro con la medesima frase che
apre un capitolo del libro scritto con Scalzone. A entrambi, propongo
allora questo brano dello stesso autore: «Il muro dietro il quale erano
imprigionati uomini e donne era interamente tappezzato di versi, e davanti
a quel muro si danzava. Ah no, non una danza macabra. Lì danzava
l'innocenza! L'innocenza col suo sorriso insanguinato» (Milan Kundera, La
vita è altrove).
È l'innocenza, meschina appunto, non la poesia che ha danzato in questi
anni fuori da quelle mura dietro e dentro di cui noi, uomini e donne
imprigionati per la sanguinosa utopia cui abbiamo partecipato, vivevamo,
morivamo e intanto costruivamo percorsi autocritici, collettivi e dignitosi
di libertà e di futuro, prospettive di nuovo impegno sociale in cui, in
effetti e per davvero, ora molti di noi sono collocati e attivi.
Infine, e tornando ai veleni di Persichetti («Segio ha dimostrato solo di
avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà. Mi ricorda una
frase di Kundera rivolta a coloro che per un po' di futuro hanno venduto il
loro passato», «Segio, reo confesso di numerosi omicidi, è in libertà»):
vorrei tranquillizzarlo. Non ho sottoscritto alcuna cambiale, sono abituato
a pagare sempre i miei debiti (e talvolta anche quelli non miei), ma in
contanti, di persona e senza elemosinare sconti. Sono ancora sottoposto a
misure di restrizione della libertà, pur se dopo 20 anni di carcere la mia
condanna sta quasi finendo. So che i tribunali e le carceri del popolo
brigatiste hanno pene più severe, ma grazie al cielo non sono sottoposto
alla loro giurisdizione. Ho avuto accesso alle misure alternative solo in
seguito a un lungo sciopero della fame e grazie alla forte solidarietà di
tante persone che in quell'occasione mi hanno sostenuto. Ciò a differenza
di tutti gli altri detenuti nelle mie medesime condizioni e con le mie
stesse condanne, e a differenza di tantissimi altri detenuti politici
non-dissociati, che invece hanno avuto regolare e giusto accesso alle
misure alternative allorché si sono trovati nelle condizioni previste. Sono
praticamente l'ultimo militante di PL ancora sottoposto a limitazioni della
libertà e a frequentissimi controlli della polizia. Ho avuto il lavoro
all'esterno (cd. "articolo 21"), con piantonamento e accompagnamento degli
agenti penitenziari, credo caso unico in Italia; poi ho avuto la
semilibertà con un trattamento ancor più restrittivo dell'articolo 21.
La strada, l'impegno sociale e i no global
Stante che i reati da me compiuti sono, per propria natura, non individuali
i casi sono solo tre: o, come dicono Scalzone e Persichetti per Toni Negri,
lo stato non ha mostrato grande gratitudine per il mio "servizio", a
differenza di tutti i miei coimputati e co-dissociati; o io non sono molto
bravo a vendermi; o, più semplicemente e veridicamente, non ho mai
barattato il passato per il futuro, conservando dolorosa memoria del primo
e non rinunciando a pensare in termini collettivi il secondo (del resto,
solo uno sciocco può assumere il passato, e l'identità, come materia inerte
e immobile). E non rinunciando a lavorare dentro il presente, assieme ai
tanti senza futuro e senza diritti con cui ho continuato in questi anni
l'impegno sociale. Nelle strade, dentro e fuori le carceri, tra tossici e
poveri di varia natura, non nelle università.
Forse sarà per questo che ancora non ho finito la mia pena. Certo è per
questa fondamentale differenza che Persichetti non può capire ciò di cui
sto parlando. Forse è proprio per tutto ciò che Persichetti arriva a
concludere l'intervista su "La Stampa" dicendo che «i no global condannano
la violenza dei deboli che bruciano i cassonetti, ma non hanno il coraggio
di disobbedire ai veri divieti dei forti».
Se non altro, nel disprezzo di Persichetti mi trovo in buona compagnia:
assieme alle centinaia di migliaia di donne e uomini che da Genova e ancor
prima stanno sognando e costruendo un mondo diverso. Senza ingiustizie, e
possibilmente senza calunniatori.
Sergio Segio
(26 settembre 2002)