[Diritti] Fwd: In ricordo di Sher Khan, assassinato 6 anni fa dal freddo, dal gelo, dalla disumanità ...
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- From: Alessio Di Florio <lalocomotivajoe at gmail.com>
- Date: Tue, 15 Dec 2015 15:44:11 +0100
In questi giorni son 6 anni che ci lasciato Mohammad Muzaffar Alì, per tutte le compagne e i compagni di Roma e non solo, Sher Khan. Un nome che purtroppo non dirà più nulla a tanti, troppi, della “sinistra italica”. Ma che invece dovrebbe dirci tutto e di più. Sher Khan è stato il simbolo di una stagione intensa di lotte, di passione, di militanza vera, di umanità assetata di altra umanità e di giustizia, in cui si è riuscito a costruire, respirare, lottare insieme, realmente. E’ stato il primo, erano gli anni in cui nasceva Senzaconfine, gli anni in cui incrociò Dino Frisullo, don Luigi Di Liegro, Eugenio Melandri ed altri che la parola compagno veramente la seppero vivere e far vivere. Sher Khan è morto nel freddo dicembre di ormai 6 anni fa. Era appena uscito, dopo 40 giorni di detenzione, dal CIE di Ponte Galeria, al termine di una vita dura, durissima, costellata di fatiche e stenti. E di lotte e passioni. 6 anni dopo è un imperativo non dimenticare Sher Khan, Mohammad Muzaffar Alì, morto di freddo e disumanità 6 anni fa per lottare, e cercare di costruire un mondo migliore strappando ad ogni barbarie ogni giorno un pezzetto di umanità, con e per i tanti Sher Khan di ogni giorno.
UN SUO ARTICOLO PUBBLICATO DA SENZACONFINE NEL 1994
http://www.senzaconfine.org/senzaconfine/wp-content/uploads/2013/06/Marzo-1994Aggressione-a-SherKhan.pdf parole di vent’anni fa, parole terribilmente attuali
(fonte immagine: Baruda.net, http://baruda.net/tag/sher-khan/ )
ALCUNE TESTIMONIANZE SCRITTE SUBITO DOPO LA NOTIZIA DELLA MORTE
“Sher Khan: un leader pachistano fiero e determinato”
Alfio Nicotra
Se chiudo gli occhi lo rivedo lì. In quel pastificio poco fuori San
Lorenzo a Porta Maggiore. Ci viene incontro con la sua tunica bianca e
il sorriso sornione sotto i baffi. Siamo dentro un alveare umano, credo
nel 1990. Reti, materassi, panni stesi, fornelli per il gas ovunque.
Sher Khan sembra il padrone di casa, ci fa strada in quella strana
visita guidata. La Pantanella è tutto un odore di umanità. Pelli
colorate e babele di lingue. Gli “invisibili” qui hanno un volto e, sia
pur in modo precario, un rifugio dal freddo.
Sono passati diciannove anni e la notizia ti arriva come un pugno dritto
nello stomaco. Non fai neanche in tempo a riprendere fiato e ti accorgi
che i ricordi ti stanno portando indietro. Questa volta sono in via
Turati, stesso periodo, sede di Senzaconfine, piena di fumo e volti
asiatici. “Cazzo Dino spegni questa sigaretta, non si respira”. Ma lui,
Dino Frisullo, è un tabagista inguaribile e Sher Khan invece un leader
pachistano fiero e determinato. L’associazione Senzaconfine di Eugenio
Melandri come la Caritas di Luigi Di Liegro era una delle poche realtà
che si faceva attraversare dall’organizzazione di base dei migranti in
una città che ogni giorno metteva in discussione la sua vocazione
cosmopolita. Sher Khan parlava italiano a scatti, ma la sua voce calda,
quando parlava nella sua lingua fluiva senza intoppi e doveva entrare
nel cuore. Doveva essere così perché per anni la comunità pachistana è
stata tra le più attive e combattive. Prima e dopo la sanatoria della
legge Martelli. La sede di Senzaconfine era nel quartiere
dell’Esquilino, a due passi da piazza Vittorio sotto i cui portici
l’altra notte Sher Khan è morto di freddo.
Al gelo, probabilmente colpito da un malore che gli ha impedito di
raggiungere lo stabile occupato di Ponte Mammolo, è morto un leader, un
protagonista di lotte straordinarie per la dignità. E’ morto da
clandestino e senza un tetto fisso. Nel disumano gioco dell’oca del
sindaco Alemanno fatto di sgomberi e caccia al clandestino questa è la
condizione “normale” di vita (o non vita?) di migliaia di esseri umani.
Chissà se Sher Khan sabato era alla manifestazione contro Berlusconi e
chissà cosa avrà mai pensato di quella marea di bandiere viola e rosse.
Chissà qual è stato il suo ultimo pensiero, desiderio o carezza.
L’ultima volta, qualche mese fa, mi era apparso all’improvviso, proprio
in piazza Vittorio. Mi aveva porto la mano dicendomi “ti ricordi, sono
Sher Khan”. Certo che ti ricordo, indomito leone pachistano, testardo
combattente di una umanità negata. Che stretta di mano la nostra e come
era buono quell’ultimo caffè bevuto insieme. Chiudo gli occhi e ti
rivedo. Sher Khan ucciso dal freddo e dall’indifferenza di Roma.
Probabilmente anche dalla nostra.
IN MEMORIA E RISPETTO DI SHER KHAN
Sher Khan è morto stanotte !
Morto di freddo e di patimenti (fuori dal CIE-Ponte Galeria solo da 3 giorni
, ” perché privo di permesso nonostante il soggiorno in Italia da almeno 20
anni”) in quella multietnica P.za Vittorio divenuta anche il sacello della
tragica storia del riscatto degli immigrati.
Morire di freddo nella metropoli della storia è un infamia da gridare ai
quattro venti.
Con oltre 600 chiese,centinaia di palazzi monumentali e di luoghi pubblici al
coperto, 20000 appartamenti sfitti, una decina di occupazioni di case, oltre
30 spazi-centri sociali occupati , svariate sedi sindacali confederali e di
base , circoli e sezioni di partito : morire di freddo a Roma è una bestemmia,
un controsenso, l´indice barbaro della modernità che continua ad uccidere per
cattiveria, qualunquismo, indifferenza.
Ne portiamo tutti la responsabilità , quella di non aver fatto abbastanza per
lenire la sofferenza !
Sher Khan era parte di noi. Lo abbiamo conosciuto tra i primi, per la
prestanza irriverente con cui affrontava e tutelava i bisogni-diritti negati ai
suoi simili. Per l´assillo che metteva ovunque ci fosse un sopruso : con quel
fiero volto, simpatico e sorridente; con quelle manone calorose e gesticolanti;
con quel cipiglio da capopopolo , arringante e ritmante fluviali slogan da
megafono.
Lo abbiamo aiutato e sostenuto; cazziato per alcune ingenuità ed errori ,
dovuti per lo più allo stato di esclusione programmata a cui le istituzioni
costringono gli immigrati per far ricadere su di loro le colpe e i misfatti
della politica.
Sher Khan Addio ! Addio al tuo – di tanti – sogno di emancipazione e
liberazione , di cui avvertiamo e sentiamo il peso per non essere riusciti a
soddisfare : prendiamo rinnovato impegno perché il tuo sacrificio non sia stato
inutile, così che altri tuoi-nostri fratelli e sorelle potranno realizzarlo !
Addio Sher Khan , la terra ti sia accogliente .
Un saluto a pugno chiuso.
Vincenzo Miliucci per la Confederazione Cobas
Comunicato stampa
Sher Khan è morto
Sher Khan è morto. E’ stato trovato morto sul marciapiede di piazza
Vittorio, dove passava spesso le sue giornate tra gli immigrati, che da
anni cercava di aiutare nelle pratiche per il permesso di soggiorno e
per l’accoglienza. Gli agenti dicono che il suo cuore si è arrestato,
per il freddo, per l’alcool…. era uscito solo tre giorni fa da Ponte
Galeria, dopo vent’anni in Italia, e – ironia della sorte – avrebbe
avuto tra poco il permesso per motivi umanitari, dopo un lungo calvario
burocratico e dopo svariati soggiorni al centro di identificazione ed
espulsione, sempre rilasciato. Già, perchè lui in Pakistan, il suo
paese, non ci poteva tornare, rischiava la persecuzione.
Aveva guidato ormai quasi vent’anni fa la battaglia della Pantanella
insieme a Don Luigi Di Liegro e a Dino Frisullo, che oggi non ci sono
più. Aveva continuato caparbiamente a occupare case, a guidare
manifestazioni, con la voce sempre più roca ma sempre in prima fila. Un
gran rompiscatole, che ti telefonava alle ore più impensate dicendo
“corri, c’è tanti ragazzi qui che dormono al freddo, bisogna fare
qualcosa”, oppure “bisogna organizzare una manifestazione per i permessi
di soggiorno, subito, adesso”, ed era capace di non mollare la presa
finchè non ti mettevi in moto, finchè non scrivevi per lui un comunicato
alle 2 di notte, o non ti occupavi di un caso particolarmente
difficile.
Sher Khan è morto. E’ morto di freddo. Dormiva nelle occupazioni, certo
non badava molto a se stesso; più volte era stato aggredito da gruppi di
fascisti, come lui definiva tutti gli aggressori. Di botte ne ha prese,
ma ha continuato a lottare. Fino a stamattina. Tornerà in Pakistan:
forse per nostalgia, ma “se muoio portatemi al paese”, aveva detto negli
ultimi giorni. E per la prima volta, in tasca avrà il suo permesso di
soggiorno ormai inutile. Stasera alle 18 ci sarà una riunione a piazza
Vittorio per organizzare un saluto e il suo ultimo viaggio.
Con tristezza, e la sensazione di rabbia per non aver fatto abbastanza,
Alessia Montuori
Sher Khan, irregolare sempre in prima fila
Cinzia Gubbini – il manifesto
Un mazzo di fiori e alcuni ceri. E soprattutto i compagni di lotta di
Sher Khan, increduli, in questo angolo di piazza Vittorio – tra via
Bixio e via Principe Eugenio – dove ieri notte è stato trovato morto «un
clochard», come hanno battuto le agenzie di stampa. Ma in poche ore
nella Roma antirazzista si è diffusa la notizia: una volta tanto quel
«barbone», quel «senza fissa dimora», lo conoscono tutti. Si chiamava
Mohammad Muzaffar Alì, detto Sher Khan, e ieri sera il gruppo di persone
corse in piazza Vittorio – dove era stata convocata una riunione per
decidere cosa fare per rendergli omaggio – non smettevano di ricordare
quanto fosse «un infaticabile rompicoglioni».
Alto, grosso, come tanti immigrati dall’Asia non aveva mai imparato a
parlare bene l’italiano. Rimbomba nelle orecchie la sua voce possente:
«Noi vo-glia-mo permesso di soggiorno». Era lo slogan scandito fino al
parossismo nelle grandi manifestazioni antirazziste degli anni ’90. In
quei primi movimenti di massa che vedevano le comunità immigrate
organizzarsi per chiedere un documento. Sher Khan c’era sempre. Aveva
iniziato alla Pantanella, insieme a don Luigi Di Liegro e Dino Frisullo.
Aveva fondato al prima associazione degli immigrati asiatici, la «Union
asian workers association». «Un gran rompiscatole, che ti telefonava
alle ore più impensate dicendo “corri, c’è tanti ragazzi qui che dormono
al freddo, bisogna fare qualcosa”, ed era capace di non mollare la
presa finché non ti mettevi in moto», lo ricorda Alessia Montuori di
Senzaconfine.
A Roma era arrivato nel 1988 dal Pakistan, dalla città di Dera Ghaji
Khan dove ora si cercherà di rimandare il suo corpo facendo una raccolta
fondi. Ad aspettarlo sono rimasti solo alcuni fratelli. Giovedì
prossimo, invece, ci sarà una commemorazione e forse anche un corteo. A
lui sarebbe piaciuto. Per Sher Khan fare politica, organizzarsi, fare
gruppo e contestare era un modo di vita. «Uno splendido caratteraccio,
che ti costringeva a mollare ogni impegno per fare le cose, con ogni
mezzo necessario», per dirla con il responsabile immigrazione di
Rifondazione, Stefano Galieni. L’esatto contrario del «modello
immigrato» a cui aspirano le leggi italiane: Sher Khan era il tipico
soggetto che in tanti avrebbero volentieri cacciato a calci fuori
dall’Italia. Un improduttivo, uno con cui non era facile ragionare, uno
che non ha mai fatto niente per piacere. E, in parte, ce l’hanno fatta. È
stato un lavoro facile: a Sher Khan è stata data la caccia. Non a lui
in particolare, ovviamente. Ma ogni nuova barriera edificata a suon di
legge per rendere impossibile una vita dignitosa a chi non si
normalizza, gli ha tolto un pezzetto d’aria. Il suo lavoro era
un’occupazione informale, ma preziosa: accompagnava gli immigrati in
questura, si occupava di seguire le loro pastoie burocratiche, e in
cambio chiedeva dei soldi. Mai abbastanza – a differenza di altri – per
diventare ricco. Infatti non ha mai avuto una casa. Sher Khan ha sempre
vissuto dove capitava. Fino alla fine di settembre abitava
nell’occupazione della Cartiera, quella che è stata sgomberata dal
sindaco Gianni Alemanno insieme all’occupazione dell’ospedale Regina
Elena. Centinaia di persone per strada perché secondo il sindaco di Roma
non si possono più tollerare illegalità. Sempre per lo stesso motivo – e
cioè perché non si possono tollerare le illegalità – Sher Khan ha
passato il mese di ottobre nel Centro di identificazione e di espulsione
di Ponte Galeria: non aveva un permesso di soggiorno. Ora si scopre che
a giorni ne avrebbe ottenuto uno per motivi umanitari: glielo avrebbe
rilasciato la questura di Roma, dove alla fine era approdata la sua
antica richiesta di asilo politico. Un permesso che non avrebbe risolto
la sua situazione se non per poco tempo: quel tipo di documento dura un
anno, ed è difficilissimo da rinnovare. Presto, sarebbe tornato ad
essere un clandestino. Il primo permesso lo aveva ottenuto tanti anni fa
con la sanatoria delle legge Martelli. Poi, siccome uno straniero per
vivere in Italia deve avere un regolare contratto di lavoro e una casa
con tutti i crismi, ha finito per perderlo. Cosa dovessero identificare a
Ponte Galeria – visto che il soggetto era ben conosciuto dalla questura
romana – non si capisce bene, ovviamente. Né dove avrebbero voluto
espellerlo, visto che Sher Khan viveva da ventidue anni in Italia.
Infatti, a rinviarlo in patria non ci ha pensato nessuno: ha
semplicemente fatto un ennesimo soggiorno nelle patrie galere per
stranieri per poi tornare sui marciapiedi di Piazza Vittorio. Forse, un
po’ più depresso. Una persona che lo ha incontrato proprio martedì dice
di aver raccolto le sue lamentele: «Non sto tanto bene», avrebbe detto.
Certamente non abbastanza per vivere in strada.
La legge, invece, Sher Khan la conosceva bene. Non le è sfuggito. Aveva
precedenti penali, e alcuni anni fa è stato condannato a un anno e otto
mesi di galera con un’accusa infamante: tentativo di stupro. Ma
quell’episodio che destò scandalo, va raccontato per quello che è stato
almeno il giorno della sua morte: Sher Khan toccò il sedere a un’addetta
alla sicurezza delle metropolitane con cui litigò perché – ubriaco e
senza biglietto – voleva infilarsi sul treno. Chi lo ha conosciuto, e ha
conosciuto il suo modo a volte arrogante e machista di relazionarsi,
può tranquillamente immaginarlo mentre compie un atto del genere. La
condanna – e altri precedenti legati alla sua vita di strada – hanno
rappresentato un insormontabile ostacolo all’ottenimento di un permesso
di soggiorno. Quello che ha chiesto a gran voce attraversando le strade
di Roma per vent’anni. Se n’è andato senza riuscire a metterci le mani
sopra. Che maledizione, Sher Khan.
Annamaria Rivera, “La nostra barbarie”, il manifesto, 10 dicembre 2009.
Mohammad Muzaffar Alì, detto Sher Khan, in Pakistan non era un marginale, ma un capopopolo, un oppositore politico istruito, e stimato quanto perseguitato. In Italia, Mohammad Muzaffar Alì era solo Sher Khan. Da Sher Khan «aveva fatto la Pantanella», come si dice, cioè aveva partecipato alle prime lotte per i diritti dei migranti. Da Sher Khan aveva incontrato Luigi Di Liegro e Dino Frisullo e da loro era stato rispettato e protetto. Aveva poi partecipato a ogni corteo, lotta, occupazione di case, lui che una casa non l’avrebbe mai avuta e sarebbe morto di sconforto e di freddo su un marciapiede di Piazza Vittorio. Era un ribelle nato, Sher Khan, perciò un rompiscatole, perciò destinato a frequentare prigioni e lager per migranti. Uno senza casa, senza lavoro, senza status legale, che va e viene da luoghi di detenzione prima o poi si ammala e magari finisce alcolizzato. Negli ultimi tempi Sher Khan beveva più del normale ed era gravemente malato. Ma continuava a lottare caparbiamente. Perfino nel corso dell’ultimo soggiorno a Ponte Galeria si era dato da fare: aveva organizzato un’assemblea e uno sciopero della fame, e li aveva resi pubblici. Perfino quelli che lo conoscevano bene mai si sarebbero aspettati che finisse morto assiderato dalle parti di Piazza Vittorio, appena uscito da Ponte Galeria. Come Joseph Roth nella Parigi degli anni Trenta. Ma forse gli anni Trenta sono tornati senza che ce ne accorgessimo.
Chiediamoci tutti, e non retoricamente, che razza di Paese sia quello che riserva un tale trattamento a un perseguitato politico, oltre tutto bisognoso di cure. Che città sia quella che lascia che migranti, marginali e poveri muoiano per strada di freddo. Che sinistra sia, soprattutto quella istituzionale, che non riesce a prestare aiuto e solidarietà concreti a un compagno come Sher Khan. E infine che antirazzismo sia quello che, sì, magari ancora è capace di organizzare qualche protesta e di assicurare a questo o a quello la tutela di qualche legale. Ma spesso dimentica che tutti, anche quelli come Sher Khan, hanno bisogno di nutrirsi e di essere curati, di dormire al caldo e di essere consolati, perfino coccolati se sono appena usciti dall’incubo di Ponte Galeria. No, non basta invocare la barbarie in cui è precipitato il Paese. Forse anche noi siamo parte della barbarie e perciò nessuno può credersi assolto.
Annamaria Rivera, “Vietato il corteo per Sher Khan”, il manifesto, 17 dicembre 2009
Si sa, i corpi più vulnerabili stanno
sempre nella plaga simbolica dell’alterità indistinta che ispira
aggressività, nel senso dell’annullare, oppure indifferenza, nel senso del lasciar morire.
Da vivo, Sher Khan hanno cercato di annullarlo, di piegarne forza e
coraggio, di farlo cadere nel fondo della condizione sociale: con la
discriminazione e privazione di diritti, con il sequestro del corpo
sofferente in galere o lager per migranti. Poi hanno lasciato che una
notte morisse per strada, di malattia, di freddo, di sconforto. Dopo le
prime notizie, per lo più all’insegna del “barbone morto di freddo” e
prive di ogni pietas; dopo l’indifferenza del primo cittadino, mal
mascherata da gelide dichiarazioni burocratiche –“il Piano-freddo
partirà come ogni anno”, arriva il divieto della questura per il corteo
in suo onore, giustificato in nome del santo natale e del consumo.
Eppure onorare un uomo che ha testimoniato, pur con i suoi limiti,
interesse e solidarietà per gli ultimi –lui stesso fatto divenire
ultimo- sarebbe stato un modo degno, per chi è cristiano, di onorare
l’Uomo che si sacrificò per gli ultimi. Ma la retorica delle radici
cristiane e dei crocifissi è ormai solo uno dei tanti slogan
pubblicitari che il potere marcescente utilizza per corrompere le
coscienze e la qualità civile del Paese. Ci sono corpi e corpi. C’è
l’ostentazione iterata e drammatizzata, oscena e isterica, del volto del
Potere insanguinato da una lieve ferita, proposto come sacra sindone.
Per ricordarci i nostri peccati mortali: il mancato idoleggiamento del
potere, la pretesa di criticarlo, sottrarsi ad esso, contrastarlo. E c’è
l’annullamento dei corpi di cui il potere fa strage nelle galere, nelle
traversate del Mare nostrum, nell’inferno libico, nelle missioni di
pace, in cantieri, fabbriche e campagne, nei lager per migranti, in
ospedali rischiosi, nelle strade delle nostre città, ostili e insicure
per gli altri. Sher Khan è stato uno di quelli da annullare e
oggi occultare. Rispettarlo e onorarlo è invece dovere morale e politico
per noi che da vivo non l’abbiamo protetto abbastanza, né abbiamo
saputo impedire che vent’anni d’Italia lo riducessero a corpo sofferente
quanto irriducibile. Sappiamo quel che lui avrebbe fatto di fronte a un
corteo vietato: il vocione roco, la gestualità immoderata, il sorriso
furbo, si sarebbe messo alla testa senza esitare. Fare come lui può
essere un bel modo per ricordarlo.
Giovedì 17 Dicembre alle ore 17:00
Saremo a Piazza Vittorio per la veglia pubblica per Mohammed Muzzafar Alì, detto Sher Khan.
Ci saremo per ricordarlo e ricordare insieme a tutti gli antirazzisti le battaglie portate avanti insieme.
Ci saremo per ricordarci che ancora molto da fare se c’è ancora chi muore, di freddo, per strada…
Saremo insieme anche per denunciare pubblicamente le colpe di chi non lo ha assistito durante la detenzione nel C.I.E. di Ponte Galeria e fuori, quando è stato lasciato al suo destino.
Chiediamo a tutti di partecipare a questo momento di lutto che vuole anche essere un momento di riflessione collettiva sul da farsi affinché le battaglie per i diritti dei migranti siano ogni giorno nelle strade e nella vita di questa città, nella vita di tutti noi così come lo è stato per Sher Khan.
Per chi voglia contribuire alle spese per il funerale e per il trasporto in Pakistan si può utilizzare il conto dell’associazione Senzaconfine, specificando nel bonifico “per Sher Khan” e mandando contestualmente una mail a senzaconfine at libero.it.
Conto n. 111215 intestato a Associazione Senzaconfine
Banca Popolare Etica – Roma
IBAN: IT91W0501803200000000111215
Claudio Graziano
Responsabile Immigrazione
Arci Roma
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