il pesce che mangiamo può essere stato pescato da schiavi
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26 marzo 2015
Una nuova denuncia sulla presenza di lavoratori schiavi
nell’industria della pesca thailandese è fatta dall’agenzia AP che
traccia in una isoletta indonesiana, Benjina, il luogo dove c’è
l’incontro tra mercanti di schiavi, schiavi, pescato ed industria
thailandese della pesca per rifornire i grandi mercati americani ed
europei.
“Questa intricata ragnatela di connessioni separa il pesce che
mangiamo dagli uomini che lo prendono, oscurando una importante verità:
il pesce che mangiamo può essere stato pescato da schiavi ”
Per lo più si parla di gente che viene dalla Birmania che, dopo aver
attraversato la Thailandia, è stata portata in questo angolo
indonesiano.
E’ un giro che rifornisce le grandi catene di commercio alimentari come anche i ristoranti costosi.
“In un’indagine durata un anno, l’AP ha intervistato oltre 40
schiavi, attuali ed ex, a Benjina. Ha documentato il viaggio di una
singola grande spedizione di pesce colto da schiavi dal villaggio
indonesiano e lo ha seguito via satellite fino ad un brutto porto
thailandese. All’arrivo giornalisti della AP hanno seguito i camion che
hanno caricato e portato il pescato verso decine di impianti e grandi
mercati del pesce.”
Il pescato si mischia con altri raccolti nei vari siti in Thailandia
molti dei quali inviano negli USA, in Europa e in Asia. L’AP registra
solo quelli americani perché il resoconto del traffico è pubblico.
Il
National Fisheries Institute a nome di oltre 300 imprese americane del
pesce, il 75% delle imprese, dice che i propri membri sono turbati da
quanto scoperto. “Non dà solo fastidio ma taglia le gambe, perché le
nostre imprese hanno tolleranza nulla per gli abusi sul lavoro. Sono
cose che fioriscono nell’oscurità”.
L’agenzia AP descrive turni fino a 20 ore di lavoro, dove non c’è
neanche l’acqua potabile, dove i lavoratori sono costantemente
minacciati, picchiati, presi a calci, e pagati poco o nulla. In tanti
sono morti in mare. Dice uno scappato Hlaing Min: “Se europei ed
americani mangiano il loro pesce ci dovrebbero ricordare. C’è una
montagna di ossa in fondo al mare da poter farne un’isola per quante ce
ne sono”.
Nel porticciolo risulta registrata una sola impresa, Pusaka Benjina
Resources, nel cui recinto sono state trovate persino le gabbie per gli
schiavi. Registrata in Indonesia con più di 90 pescherecci, la compagnia
è di proprietà di thailandesi.
Il cargo che AP ha seguito è anch’esso thailandese ed al suo arrivo
al porto di Samut Sakhon ha scaricato 150 carichi di pesce che poi
vengono inviati alla lavorazione o alla distribuzione per la grande
distribuzione americana attraverso intermediari thailandesi.
Nella stragrande maggioranza nessuno vuole rispondere alle domande
della AP sul lavoro degli schiavi. Chi lo fa spesso riconosce la
difficoltà nel tenere testa a questa pratica nonostante le
certificazioni internazionali, i controlli fatti da terze parti. “Ci
sono compagnie come la nostra che ci tengono e fanno tutto quanto loro
possibile” dice un rappresentante di una impresa americana.
Le grandi imprese commerciali thai hanno un fatturato di miliardi di
dollari all’anno rifornendo la grande catena commerciale americana
persino nel pesce destinato agli animali o nella catene di negozi. Per
la grande impresa miliardaria Thai Union è difficile eliminare gli abusi
sul lavoro, come pure non si può dure che la catena di rifornimento
thailandese sia pulita al 100%.
Sull’isola di Benjina intanto la disperazione è palpabile. C’è
persino un cimitero degli schiavi disperso nella giungla, dove le tombe
hanno nomi falsi di schiavi su navi dai falsi nomi. A ricordarli sono
solo i loro amici. Ma questo accadde solo dopo che le autorità e le
compagnie cominciarono a chiedere il resoconto su ogni persona imbarcata
ai capitani delle navi. Prima chi moriva veniva lanciato in mare come
alimento per gli squali.
Comincio a pensare che vivrò in Indonesia per sempre. Ricordo che
pensavo che la sola cosa che ci attende qui è la morte” dice Hla Phyo.
http://www.irrawaddy.org/burma/are-slaves-from-burma-catching-the-fish-you-buy.html