L'AVVENIRE DEI LAVORATORI La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894 Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano Settimanale in posta elettronica – Zurigo, 26 febbraio 2014 |
IPSE DIXIT In bilico - «In bilico tra il classico vorrei ma non posso e un inedito vorrei ma non so: una sorta di vorrei dirvi che se sono qui è per il discredito nel quale avete precipitato Paese e istituzioni, ma non posso; alternato ad un vorrei spiegarvi come penso di portarvi fuori dal pantano, ma è successo tutto così in fretta che, in fondo, ancora non lo so.» – Federico Geremicca Il Principe nuovo - «Al Principe nuovo è impossibile fuggire il nome di crudele.» – Niccolò Machiavelli |
L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da oltre 115 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà. Conformemente alla Legge 675/1996 tutti i recapiti dell'ADL Newsletter sono utilizzati in copia nascosta. Ai sensi del Codice sulla privacy (D.L. 30.6.03, 196, Art. 13) rendiamo noto che gli indirizzi della nostra mailing list provengono da richieste d'iscrizione o da fonti di pubblico dominio o da risposte ad E-mail da noi ricevute. Il nostro servizio d'informazione politica, economica e culturale è svolto senza scopo di lucro e non necessita di "consenso preventivo" rivestendo un evidente carattere pubblico e un legittimo interesse associativo (D.L. 30.6.03, 196, Art. 24). |
EDITORIALE Resoconto stenografico di Andrea Ermano LUNEDÌ – Prima che il Principe nuovo prenda la parola di fronte all'augusta assemblea, la scena si apre con un vecchio motivetto di sottofondo, piuttosto spiazzante in mezzo a tutto quel solenne velluto rosso: Non ho l'età… / tatàn! tatàn! / Non ho l'etaaa peeer amartiii...
CONFLITTO INTERGENERAZIONALE – Il patrigno Barry (Ryan O'Neal) con il figliastro, Lord Bullington (Leon Vitali), in Barry Lyndon, capolavoro di Stanley Kubrik del 1975. Quando il mangiadischi, molto vintage, si tace, nell'emiciclo porporato risuonano queste precise parole: "Signore e signori, in quest'aula sordida e grigia, ma comunque sacra a Roma immortale, io ora vi preannuncio… preannuncio che… che io vi scioglierò!" Un brivido corre lungo la schiena del Senato mentre il popolo segue lo spettacolo in diretta tv o in streaming, compiaciuto di fronte a tanta crudeltà d'animo. "Qui è il Principe nuovo che vi parla. Colui il quale non solo scioglierà il Senato romano… No, non solo. Perché, signore e signori, io vengo qui anche a chiedervi un gesto di oltraggiosa abnegazione ulteriore ed ultima. Sì! Io voglio, anzi pretendo, che voi mi conferiate la fiducia su codesto programma di rottamazione senatoriale totale finale" (timidi applausi chiaramente fuori luogo da parte di venerandi con l’amplifon difettoso). Il Principe nuovo è come i medici d'Eraclito ionio: non solo "taglia" e "brucia", cioè ti amputa e ti cauterizza nella carne viva, ma poi ti chiede financo di essere pagato, profumatamente. E il bello è che questi lo pagano. Votanti 308, favorevoli 169, contrari 139, il Senato approva. <> MARTEDÌ – Replica alla Camera. Dove va in scena un toccante atto unico di M. Cacasenno: Il ritorno di Bertoldo e Bertoldino. Abbracci forzati abbracci sinceri twitter di giubilo birignao silenzi dichiarazioni ovazioni. Il pubblico è come rapito da questa patapunfete di pura emozionalità. Raptus generale di buoni sentimenti. L’intero emiciclo dei turbo-cannibali si alza intenerito. Standing ovation. Ora mugolano commossi persino il Circo delle iene dattilografe e il Coro ululante dei pentastellati. Sembra la moltiplicazione del miracolo di San Francesco da Gubbio. Votanti 598, favorevoli 378, contrari 220, la Camera dei Deputati approva. <> MERCOLEDÌ – A qual genere appartiene questo teatro, di grazia? Alla Commedia stile tramonto veneziano, al Dramma barocco tedesco o alla tragedia scespiriana tipo Macbeth? Numerando gli eventi che sempre seguono agli eventi, il tempo galantuomo ce lo dirà. Per intanto il copione non contiene indicazioni sufficienti. C'è solo un combinato di due fatti abbastanza vistosi: il defenestramento di Emma Bonino dal Ministero degli esteri e la contestuale cancellazione del Ministero per le politiche europee. Osservatori e commentatori si chiedono se siamo qui di fronte a un atto muscolare della Farnesina, che si è semplicemente ripresa le sue competenze. O abbiamo a che fare con l'asportazione di un'appendice istituzionale tendenzialmente ancillare nei confronti di un qualche establishment non nostrano? Ma Emma? È stata reputata troppo subalterna alla logica buonista, laddove la trattativa Roma-Bruxelles dovrà inevitabilmente indurirsi? «Non ci faremo dettare la linea dall'Europa» – ha dichiarato il Principe nuovo. Eccolo qui, forse, un bandolo dell’inestricabile matassa. Be’, in tal caso teniamo per favore presente che la nobile arte dello sbandieramento potrebbe non impressionare più di tanto gl’inimici là fuori. Infine, la nostra attuale classe dirigente nazionale. Quanta ce ne resta, al netto dei magniloquenti gesti simbolici? Lo sapremo via via, seguendo il saggio metodo prescritto dal dott. Bersani, misurando cioè "lo spread tra le parole e i fatti". |
SPIGOLATURE Tra Crimea e Mar Nero di Renzo Balmelli IPOTECA. Ai confini con l'UE incombe la mina vagante dell'Ucraina, la nazione post sovietica di gran lunga la più importante dello scacchiere a cavallo tra Crimea e Mar Nero, che rischia, nella peggiore delle ipotesi, di farsi travolgere dalla pesante ipoteca della secessione. L'incubo di una spaccatura tra le regioni filo europee e quelle russofone del Paese anziché dissolversi con la liberazione di Yulia Tymoshenko ha messo in moto una vasta operazione geopolitica dagli sbocchi imprevedibili che arroventa i rapporti tra Bruxelles e il Cremlino. Una volta, in situazioni analoghe, si sarebbe udito il rumor di sciabole o quello ancora più inquietante dei cingolati. Ora la diplomazia al massimo livello è più solerte nel fare da pompiere, ma quella che è già stata battezzata la guerra non armata tra russi e occidentali non consente di dormire tra due guanciali. GARANTI. Gli euroscettici affascinati dalla Marine (Le Pen), dall'olandese Wilders e dall'inglese Farage, tutti e tre portatori di tristissime ideologie fast-food, spesso dimenticano che quelle che essi chiamano, nei loro slogan di facile suggestione, le " chiacchiere dell'Unione" " sono all'opposto le garanti della pace per l'Europa. Settant' anni di pace - un primato - che non sono negoziabili per nessuna ragione, per nessun umorale livore nei confronti del vicino di casa, per nessun referendum e per nessun cedimento agli atteggiamenti che abbiamo già visto in un contesto ben diverso di quello attuale. Diverso, certo, ma che per una fatale disattenzione potrebbe ripresentarsi sotto le spinte mai dome della deriva razziale, veicolo di dolori inenarrabili per il Vecchio continente. SENTIMENTI. Nel suo film "Anita B.", ispirato alla biografia di Edith Bruck, il regista Roberto Faenza evoca una realtà mai veramente approfondita, se non addirittura rimossa. Si è parlato molto delle atrocità nei lager, ma poco del dopoguerra che è stato tragico per i sopravvissuti. Rare sono state le ricerche sulle difficoltà che molti di loro hanno incontrato per riconquistare il diritto di condurre una vita normale, con sentimenti normali. Pareva quasi che la loro vicenda fosse rimasta per sempre sepolta dietro i reticolati di Auschwitz trasformandoli in esseri diversi dagli altri. Per Primo Levi fu una tortura insopportabile e senza scampo. Alla luce di quanto possiamo leggere e vedere, è evidente che l'interrogativo si pone anche oggi per tutte le vittime della prevaricazione dell'uomo sull'uomo di cui abbiamo ogni giorno tragiche testimonianze. GELO. Nemmeno il passaggio da Prodi e Berlusconi, che pure non si amavano, è stato tanto gelido quanto la consegna del campanello da Letta a Renzi. Il freddo formalismo della cerimonia ha lasciato pochi dubbi sui rapporti tra i protagonisti dell'avvicendamento a Palazzo Chigi. Davanti al Paese i due non si sono nemmeno degnati di uno sguardo. Se occorreva una conferma della burrasca che agita la sinistra, eccola servita. Non è il miglior viatico per il nuovo premier che già parte con la fama non proprio lusinghiera di " berluschino" toscano. Per ora i sondaggi lo premiano, ma dopo il clamoroso infortunio in cui è incappato uno dei guru della categoria, è meglio andarci cauti. Al solo pensiero che costui potesse elaborare le sue previsioni con la stessa disinvoltura con la quale ha frodato il fisco, sorge qualche dubbio sugli imbrogli mediatici di cui è capace la politica. NOSTALGIA. Se quella che viene indicata come cultura nazional-popolare può a volte risultare utile per capire le tendenze e gli umori del Paese, forse non è esagerato dire che quest'anno il Festival di San Remo non è stato all'altezza delle aspettative. Mentre dalle teche della RAI spuntavano le immagini di repertorio non di rado in bianco e nero, quasi in contemporanea scattava l'effetto nostalgia, Però non la nostalgia " nostalgica", ma piuttosto il rimpianto per la manifestazione canora di un tempo, quando, da Modugno a Mina, il palco dell'Ariston, vero tempio della musica leggera, sapeva proporre brani di sicuro richiamo. Certo, i gusti cambiano, la qualità dello spettacolo segue altri indirizzi, e non ha più senso dire che "sono solo canzonette". Ma tra le battute un po' stantie che hanno penalizzato il gioco malizioso delle parole, la risata forzata ha finito col nascondere l'imbarazzo per uno show senza acuti. |
FONDAZIONE NENNI http://fondazionenenni.wordpress.com/
Parliamo di socialismo Due libri per capire l’Italia Freschi di stampa due libri che ci aiutano a capire cosa è successo negli ultimi quarant’anni in Italia e che individuano in una data la chiave di svolta della storia economica, politica e sindacale del nostro paese: 14 febbraio 1984. di Antonio Tedesco “Alla ricerca del salario perduto”, di Antonio Passaro, responsabile dell’Ufficio stampa della Uil e portavoce del Segretario Luigi Angeletti (nel 2010 ha vinto il premio “Addetto stampa dell’anno”) è un lavoro di grandissima passione e precisione giornalistica. L’autore ha consultato oltre duemila articoli del periodo ed ha ricostruito in maniera lucida e con grande obiettività le cronache di quei concitati giorni. Passaro ha individuato le ragioni che hanno portato alla fine del meccanismo della scala mobile e ha tentato un prezioso confronto con ciò che è accaduto trent’anni fa e l’odierna crisi economica. “Il divorzio di San Valentino”, di Giorgio Benvenuto, scritto insieme al giornalista Antonio Maglie, è un volume dal sapore antico, scritto da uno dei protagonisti di quelle vicende. Benvenuto, in quegli anni segretario Confederale della UIL, ricostruisce i fatti con l’ausilio di documenti inediti, foto, testimonianze,una fase che definisce, parafrasando Hobsawn, il “decennio lungo”(1975-1985) cominciato con l’accordo interconfederale del 1975 sul punto unico di contingenza e concluso con il referendum del 1985 che ha ratificato l’accordo di San Valentino del 1984. L’ex segretario generale della UIL, oggi Presidente della Fondazione Bruno Buozzi, difende quelle scelte ricordando che “La scala mobile era per il Paese come lo zucchero per il diabetico”. Siamo nel febbraio del 1984. Bettino Craxi è premier di un governo che per la prima volta è presieduto da un socialista e diretto da Dc, Psi, Pri, Psdi e Pli. De Michelis Ministro del lavoro. L’economia italiana è in grande difficoltà, l’inflazione galoppa a due cifre e il tasso di disoccupazione sale con grande preoccupazione. Ad essere messo sotto accusa, già dai primi anni 80′, è il meccanismo della scala mobile, sistema per cui all’aumento dell’inflazione corrispondeva automaticamente e immediatamente un aumento dei salari. Si decise di intervenire sul meccanismo della scala mobile per frenare l’inflazione e per favorire l’occupazione. L’ accordo fu sottoscritto con il governo Craxi soltanto da Uil e Cisl. La decisione di tagliare di 4 punti la contingenza creò una spaccatura sindacale, con la Cgil, allora guidata da Luciano Lama, che non firmò l’ intesa. La stessa Cgil si spaccò al suo interno, tra maggioranza comunista e la componente socialista di Ottaviano Del Turco. L’ allora segretario del Pci Enrico Berlinguer, che pochi mesi dopo morì per un ictus, si oppose in tutti i modi all’accordo. Fu la scelta giusta? Due letture che ci fanno fare un tuffo nel passato e ci forniscono preziosi spunti per riflettere sul presente. Certo, era un altra Italia, un mondo che forse non esiste più. - Antonio Passaro, Alla ricerca del Salario perduto, Tullio Pironti Editore, 2014. - Giorgio Benvenuto, Antonio Maglie, Il divorzio di San Valentino, Così la scala mobile divise l’Italia, Fondazione Bruno Buozzi, 2014. |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it Da Renzi belle parole. Ora i fatti "Ho ascoltato il discorso di Matteo Renzi, un elenco di cose che ha in mente di fare, che vuole proporre, le priorita' del suo governo... ora vorrei capire dove recupera le risorse, augurandomi che si rivolga a chi detiene oltre il 50% delle rendite del Paese. Vada a prenderle li' le risorse che servono". Cosi' il segretario generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone, in un'intervista all'agenzia Dire. "Vorrei capire che idea ha di giustizia sociale- continua Cantone- e mi auguro che occupazione e diritti non siano tra i titoli di coda. Vorrei vedere le carte, mi auguro che intenda rispettare il ruolo democratico delle forze sociali". Per il segretario Cantone Renzi "non deve fare quello che gli diciamo noi, ma almeno ci ascolti. Berlusconi ha fatto quello che voleva, Monti ci ascoltava e poi faceva quello che voleva, Letta non ha avuto tempo di convenire con il sindacato su alcune cose. Mi auguro che Renzi si comporti diversamente. E tra le priorita' metta il welfare e la condizione degli anziani. Staremo a vedere, non basta fare una buona impressione, non basta presentare bene un progetto, sono gli atti concreti che mi interessano". Hanno scatenato polemiche le parole del sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Delrio, che nei giorni scorsi ha detto che se ad una signora anziana, con 100 mila euro in Bot da parte, "non credo che se le togli 25 o 30 euro avra' problemi...". Per Cantone "gli anziani spesso sono usati a sproposito- dice- Mi auguro, ma sicuramente sara' stato cosi', che abbia solo fatto un errore. Anziani con 100mila euro da parte? Mah, io ne conosco molti che con pochi risparmi, frutto del lavoro di una vita, devono aiutare la famiglia e i propri figli, devono usare i risparmi e la pensione per svolgere un ruolo di ammortizzatore sociale e spesso gli anziani rinunciano a curarsi. La maggioranza dei poveri sono persone che hanno superato i 65 anni. Ma io Delrio lo stimo, l'ho conosciuto: e' una persona capace, per bene e sempre molto attenta ai bisogni. Presumo sia stato un errore involontario". Una battuta sul futuro, su cosa si aspetta: "Non vedo un cielo roseo, vedo molte nubi, speriamo che piova poco e che non grandini. Spero che dopo arrivi l'arcobaleno e un po' di sole per il nostro Paese". Giovedì 27 febbraio dalle ore 13.00 in diretta su RadioArticolo1 conferenza stampa di Susanna Camusso www.radioarticolo1.it |
Economia G20 Sydney – Scontro con i Paesi emergenti Il recente summit di Sydney tra i ministri delle Finanze ed i governatori delle banche centrali del G20 è stato, più che un incontro di coordinamento, un vero e proprio scontro tra poteri e interessi differenti. di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista Lo scontro è avvenuto in un momento assai delicato, all’apice della destabilizzazione valutaria e della spinta inflazionistica in tutti i Paesi emergenti. Ma sembra che sull’argomento sia stato imposto il silenzio. Nel comunicato finale si ignora quasi completamente questo aspetto. Ci si limita a parlare genericamente di “volatilità sui mercati finanziari” che potrebbe danneggiare la crescita economica. Si riconosce che in molte economie avanzate la politica monetaria dovrà restare “accomodante” e che il suo superamento richiederà tempi non definibili e condizionati dalla stabilità dei prezzi e dalla ripresa. Addirittura si afferma che “dato che i mercati reagiscono a varie politiche di transizione e a differenti circostanze nazionali, i prezzi delle attività e i tassi di interesse si aggiustano di conseguenza”. In pratica si ritiene che la realtà di oggi non sarebbe altro che il “banale adeguamento” ad una astratta teoria economica dei vasi comunicanti. Nessuna parola, invece, viene spesa sulle politiche yo-yo della Federal Reserve, che prima ha inondato di liquidità il sistema e poi ha cominciato a ritirarla creando choc e fughe di capitali dai Paesi emergenti. Ma c’è di più. La dichiarazione del G20 vede come evento principale i recenti segnali di un presunto miglioramento dell’economia globale ed in particolare il rafforzamento della crescita negli Usa, in Gran Bretagna, nel Giappone. Perché si sottace il fatto che negli ultimi 12 mesi il real brasiliano ha perso il 24% nei confronti del dollaro, la rupiah indiana si è svalutata del 28%, il rublo russo del 17% ed il rand sudafricano del 31%? Eppure alla vigilia del summit di Sydney i governi del Brics si erano fortemente lamentati del fatto che la Fed e le banche centrali di Londra, di Tokyo, e in parte anche la Bce, avessero attuato politiche monetarie senza tener conto delle possibili ricadute negative sul resto del mondo, sollecitando l’indispensabile coordinamento delle politiche economiche e monetarie. L’atteggiamento americano è a dir poco sconcertante. Il ministro del Tesoro Usa, Jack Lew, ha “rivoltato la frittata” rovesciando le responsabilità sui governanti dei Paesi emergenti. ”I mercati emergenti - ha detto - sono chiamati a prendere iniziative per mettere in ordine il loro sistema fiscale e per operare delle riforme strutturali”. In altre parole, non è stata l’eccessiva liquidità della Fed a drogare e a sconvolgere le altre economie, ma sono state le loro disfunzioni interne a determinare le situazioni di crisi. Ancora una volta l’Unione europea non si è distinta dalla Fed ne ha cercato di comprendere le ragioni dei Paesi emergenti. Anzi. Non a caso è stato il governatore della Bundesbank tedesca a dare la linea dicendo che “non si deve sovrastimare il peso dei Paesi emergenti sull’economia mondiale”. Per rendere ancora più chiara la rottura con le economie emergenti, gli Stati Uniti hanno bloccato la riforma delle quote di controllo del Fondo Monetario Internazionale che sarebbe dovuta entrare in vigore il primo gennaio 2014. Perciò, anche al fine di limitare il controllo anglo-americano del Fmi, al meeting di Sydney il G20 ha deciso di sollecitare, per iscritto, gli Usa “ a ratificare la riforma del 2010 del Fmi prima del prossimo summit di aprile”. Secondo la Cina, sulla riforma del Fmi si gioca la stabilità del sistema globale, la credibilità del G20 e la stessa legittimità del Fondo. In realtà il tema principale del summit sarebbe dovuto essere la politica di investimenti di lungo termine per riavviare la ripresa e il rilancio dei settori delle nuove tecnologie, delle Pmi e delle infrastrutture. Invece esso è stato marginale. Si calcola che, per sostenere la crescita economica globale fino al 2030, sarebbero necessari 57 trilioni di dollari di finanziamento per i vari progetti infrastrutturali. L’effetto sulla nuova occupazione potrebbe essere di circa 8.000 posti di lavoro per ogni miliardo di dollari investito. Anche per conto dell’OCSE, il nuovo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha partecipato al summit. Ci auguriamo che ciò sia di buon auspicio anche per il rilancio della nostra economia e dell’occupazione, essendo egli stato uno dei primi fautori della politica di investimenti a lungo termine nelle grandi infrastrutture. |
Da MondOperaio http://www.mondoperaio.net/ Renzi, Hollande e la crisi Sulla “Repubblica” di lunedì è apparso un interessante editoriale firmato da Marc Lazar, un raffronto comparato fra due figure della sinistra europea apparentemente distanti sotto il profilo culturale, ma vicini nelle crisi e nelle difficoltà: Matteo Renzi e Francois Hollande. La tesi dell’analista francese è di una semplicità cristallina: la caratura personale dei due esponenti politici è diversissima, sebbene le sfide di fondo siano le medesime; analizzando come Italia e Francia affronteranno la crisi sarà allora possibile intuire quale approccio identitario si adegua maggiormente allo spirito dei tempi, quale proposta convince di più la platea europea. Il richiamo introduttivo agli “undici capi di Stato o di governo progressisti” va in questa direzione, e rivela un vizio diffuso fra gli intellettuali d’oltralpe, successivamente esportato anche in casa nostra: l’idea del “ciclo dai tratti tipici”, se possiamo ricorrere a questa bizzarra espressione, del minimo comune denominatore come chiave di volta di un’interpretazione storica. Non occorre volgere lo sguardo al passato remoto o all’anteguerra per avere contezza di questo riflesso pavloviano: basta rammentare lo stato politico del Vecchio Continente alla vigilia del conflitto jugoslavo. A lungo si discusse sull’Europa progressista che intercettava il vento clintoniano di discontinuità, a lungo si rifletté collettivamente su una realtà politica finalmente matura in grado di rispondere – prima con Blair, poi con D’Alema e Schroeder – agli input e alle istanze liberal della cittadinanza. Mai affermazione fu più parziale: se è vero, infatti, che in un determinato frangente la percezione comune di alcuni interessi condivisi può albergare nella società europea, è altresì innegabile che una semplice lettura delle diverse esperienze di governo ha portato gli osservatori seri ad individuare le infinite discrasie intercorse fra le forze a trazione socialista. Ciò che era apparso prioritario in Germania sembrò folle nel Regno Unito, ciò che sembrò scontato a Parigi apparve un successo a Roma. Com’era ovvio che fosse, posto il background storico di ciascun paese. Non a caso Matteo Renzi, prima di essere presentato come l’ultimo tentativo di blanda emulazione del laburismo blairiano, è stato accusato da più parti, in seno al suo stesso partito, di essere un eretico di “destra”, ove non apertamente liberista. Lazar scrive che la palestra politica di Hollande nel partito che fu di Mitterrand lo convinse per tempo ad essere uomo di cuciture e non di strappi, a prediligere la via del dialogo anziché quella dello scontro. Un programma diametralmente opposto rispetto alla rottamazione di renziana memoria. Analogamente, mentre l’ex sindaco di Firenze è figlio di una generazione nuova pronta a reclamare spazio, una generazione che si affaccia con interesse alla responsabilità nazionale e così “appare a suo agio sia in tv che sui social network o nei suoi show all’americana”, Hollande – viceversa – sembra imbolsito in un modo di fare politica che spesso e volentieri legge come il trionfo della forma sulla sostanza, e non concepisce il nuovo idioma della condivisione. E qui, a mio avviso, Lazar compie un errore prospettico: si limita a proiettare sul piano politico le differenze umane fra i due, roba buona per i sociologi, senza leggere la comunanza di vedute in relazione alle problematiche della società globale. La svolta con cui Hollande ha annunciato l’inizio di una riflessione critica in seno al governo, soprattutto in merito agli indirizzi economici, rende evidente come i processi di natura finanziaria condizionino le scelte di qualunque esecutivo, chiamato a reagire in modo sostanzialmente uniforme alla fine della fiera. Si può contenere o meno la spesa pubblica, possono essere individuate talune priorità rispetto ad altre, è possibile stabilire delle linee d’indirizzo: ma non si può agire con gli strumenti del tardo Novecento, non essendoci più l’autonomia monetaria. La via della responsabilità ha finito col prevalere, il partito del vincolo di bilancio ha strategicamente mosso le pedine e fatto scacco matto. Bisogna prenderne atto e non cercare ad ogni costo delle difformità nella sinistra europea, raccogliendo semmai gli elementi di congiunzione nel tentativo di formulare una proposta autonoma e convincente sul panorama mondiale. |
Da CRITICA LIBERALE riceviamo e volentieri pubblichiamo La corrida Avvertenza per i lettori: quando si deve scrivere una recensione a uno spettacolo di cabaret, anche se sul teatro piovono bombe, si deve tenere un tono leggero. E, come si suol dire, oggi la situazione italiana è tragica ma non seria. Anzi, tutto fa pensare che sia cominciata una nuova commedia burlesca. di Enzo Marzo Perché il nostro giudizio su Renzi è così severo? Perché in fondo ci ha delusi. Non che ci fossimo illusi. Pensavamo che fosse un demagogo populista con grande inesperienza, ma non arrivavamo ad immaginare che fosse così tanto demagogo e cosi tanto inesperto. E' bastato che uscisse dalla sua provincia e approdasse a Roma per dimostrare sia che, se ci si mette con grande presunzione, si possono accumulare tanti errori in pochissimo tempo, sia quanta oceanica differenza passa tra una comparsata televisiva e una trattativa con Gianni Letta. Dopo aver formato il suo governo, Renzi ha dichiarato che in questo esecutivo lui ci mette la faccia. Trascurando il fatto che non può farlo perché la faccia l'ha già persa. Vedi il nostro esergo. Ma come è potuto succedere? Dato che il nuovo leader aveva giurato che non avrebbe mai fatto il presidente del consiglio se non con un mandato elettorale, ... che aveva ridicolizzato l'idea di un rimpasto, ... che era stato categorico: mai più con la destra, ... e poi invece ha pasticciato una crisi extraparlamentare, ha fatto sostanzialmente un rimpasto riuscendo a peggiorare la mediocre compagine di Letta, ha sostituito una Grande Coalizione "obbligata" (così era stata fatta ingoiare agli italiani) con una maggioranza di centrodestra scelta volutamente, dato che tutto ciò è avvenuto bisognerà pur dare una spiegazione a questa vittoria da gambero. Renzi finora ci ha privati del suo pensiero sulla questione. Eppure, lui che tiene tanto alla comunicazione deve pur essersi accorto che sui media sta infuriando la ripetizione ossessiva della sua baldanza e delle sue asserzioni categoriche. Smentite dai fatti poche ore dopo. L'unica differenza con Berlusconi, e di questo gliene diamo atto, è che il Sindaco si è risparmiato di giurare sulla testa dei propri poveri figli. Renzi, come accadeva al Cavaliere, non ho offerto alcuna spiegazione dei suoi voltafaccia e nella riunione di direzione del Pd, il giorno del massacro di S. Valentino, li ha solo conditi con uno spericolato volo pindarico: "Dobbiamo prendere il vento in faccia e il vento in faccia è il suono di un silenzio sottile". Roba da San Remo più che da Nazareno. Insomma, ha taciuto e se lui tace, forse per la vergogna, legittima ogni ipotesi. Noi ne avanziamo una, la più semplice. Un'ipotesi che motiva ma non giustifica, perché si fonda su un primo catastrofico errore del Sindaco al suo debutto. Poi, per porre una pezza a questo, Renzi ne ha sgranati molti altri, come in un rosario. Dopo le Primarie del Pd, in cui aveva trionfato solo perché il "popolo del centrosinistra" avrebbe votato anche il diavolo pur di togliersi di torno la burocrazia ex-piccista, Renzi aveva davanti a sé una via chiara anche se non agevole. Gli bastava far vedere che l'aria era cambiata, che lui era così bravo da realizzare un paio di provvedimenti innovativi, che aveva poco a che fare con un governo inetto e infettato dai "diversamente berlusconiani", per - infine - approfittare di questo momento sfavorevole alla destra berlusconiana e pretendere dal refrattario Napolitano quelle elezioni che lo avrebbero incoronato come il grande leader di un centrosinistra finalmente vincente. L'unico vero ostacolo alle elezioni era la necessità della riforma elettorale. Ma giocando sugli opposti veti non sarebbe stato impossibile far digerire a tutti la soluzione del ritorno al vecchio Mattarellum, molto più legittimato di qualunque altro sistema elettorale varato dall'attuale parlamento gravato dal peso sia dell'illegittimità perché eletto con un sistema incostituzionale sia dell'inopportunità di coinvolgere come protagonista in una qualsiasi riforma un pregiudicato che in questo stesso parlamento non può neppure mettere piede perché giudicato indegno. Invece, nulla di tutto questo si è avverato. L'ansia del "fare" qualunque cosa, pur di mostrar di "fare", lo fa inciampare in uno sbaglio grossolano. Ostentatamente ridà vita a Berlusconi, e legando di fatto la riforma elettorale all'abolizione del Senato regala al governo un altro anno e mezzo di vita, almeno teorico. Enrico Letta e Napolitano gongolano. Non aggiungiamo altro sui contenuti del nuovo Porcellum - quello che abbiamo giudicato come l'estrema autodifesa di una Casta con pulsioni definitivamente antidemocratiche, e quindi Castellum - che è la dimostrazione plateale di come a Renzi interessi più il titolo delle riforme che la loro sostanza. Il suo motto sembra essere "fare malissimo" pur di "fare". Lo prova anche il varo della legge sul finanziamento ai partiti, che non ricade sotto la sua diretta iniziativa ma che coinvolge comunque la sua responsabilità politica. E quella legge è pessima, tra l'altro perché legittima addirittura la corruzione politica da parte delle aziende, e addirittura una quota delle mazzette la fa pagare allo Stato. Dopo qualche giorno lo stesso Renzi deve essersi accorto di aver ben lavorato a favore dei suoi "avversari" interni ed esterni. Da qui la decisione improvvisa, che può essere nata da questa osservazione: "se il governo deve durare un altro anno e mezzo, allora perché lasciare che a guidarlo sia il paludoso Letta? Quindi: il ribaltamento della strategia iniziale, la lotta fratricida nel Pd e, sotto sotto, l'assecondare la strategia quirinalizia rigorosamente favorevole all'Inciucio e contrarissima a riportare con le lezioni politiche un po' di regolarità nella vita democratica del nostro paese. E' curioso che un giornale come "Repubblica", scalfarianamente di confessione napolitanea, giudichi "chiusa la parentesi presidenzialista" di Napolitano, addirittura in un titoletto. Esagerazione e zelo in chiave filo-renziana voluti dall'editore? Ma così persino "Repubblica" ammette ciò che sanno tutti e che i grillini hanno avuto il torto di gridare troppo sguaiatamente, nel momento sbagliato e con motivazioni incongrue, che cioè grazie a Napolitano siamo immersi da anni in una fase di aperta violazione della Costituzione. Si realizza così l'errore finale di assumere direttamente la responsabilità di governo, di essere l'ennesimo "nominato" con pochissima legittimazione e con una maggioranza esposta a ogni ricatto della destra. Le prime mosse di Renzi non sono state meno catastrofiche dei presupposti. Il "nominato" ha eseguito un rimpasto coprendolo con la melassa di una demagogia ormai insopportabile... Continua la lettura su Critica liberale |
Da vivalascuola riceviamo e volentieri pubblichiamo Allarme scrittura di Giorgio Morale vivalascuola presenta una bella esperienza di educazione alla scrittura. A dispetto degli "allarme scrittura" ricorrenti, i risultati raggiunti sono sorprendenti, come dimostrano i brevi racconti qui presentati:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/02/17/vivalascuola-164/ Ciò dimostra che, dati esempi e spunti, i ragazzi accettano la sfida con impegno ed entusiasmo mettendo in gioco la loro fantasia e la loro creatività. Ogni alunno sperimenta le proprie potenzialità creative, scopre la magia della scrittura e uno sguardo diverso verso se stesso e la realtà. Spesso le storie nascono dal vissuto dei ragazzi, dalle loro esperienze, che vengono poi trasfigurate in senso fantastico. Le inquietudini e le paure nascoste della vita di ogni giorno prendono così corpo sulla carta, ma sono governate dai loro autori, quindi vengono distanziate e in qualche modo esorcizzate, diventando non solo esercizio, ma momento di crescita. |
Cultura politica Torniamo allo Statuto? Il Senato e la democrazia italiana di Fabio Vander Quando Sidney Sonnino nel 1897 scrisse sulla “Nuova Antologia” il celebre Torniamo allo Statuto, era un conservatore che contrastava l’avvento delle masse e dunque la democrazia. Il nemico da debellare era per lui il sempre maggiore potere conquistato dal parlamento come organo della sovranità popolare. Sul punto Sonnino era chiaro: “in un Governo fondato quasi totalmente sull’elezione, manca nella sua alta direzione della cosa pubblica la rappresentanza dell’interesse collettivo generale”. Insomma se il sistema politico si fondasse “totalmente sull’elezione”, cioè se Camera e Senato avessero espresso in pari misura la sovranità popolare (nei termini di oggi ‘dare la fiducia’) questo non sarebbe più stato in grado di assicurare “alta direzione” ovvero tutela dell’“interesse collettivo generale”. Da sempre per conservatori e reazionari “interesse generale” e democrazia si elidono. Qualche volta anche per ‘progressisti’ e ‘rivoluzionari’. Ma c’era anche un altro elemento implicito nell’antiparlamentarismo di Sonnino. Anch’esso inquietante se visto con riferimento all’oggi: il presidenzialismo populista ed autoritario. Nei termini di allora: il boulangismo. Lo denunciava Domenico Farini nel suo Diario di fine secolo. In una nota la pretesa di Sonnino di dare al re poteri che in verità non aveva mai avuto, era definita una “vera follia”, così come “fare la scimmia a Boulanger in Italia, drizzandosi contro il così detto parlamentarismo, è ridicolo semplicemente”. Ora il dibattito italiano di oggi per ‘ridicolaggine’ non è secondo a nessuno. Donde anti-parlamentarismo, anti-partitismo, anti-politica. Occorre fare un punto. Anche perché la discussione pubblica pare bloccata, quasi ‘incantata’ da stili e argomenti cui non si sa opporre una discorso critico, alternativo. Eppure l’articolo 55 della nostra Costituzione recita: “il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”. Secondo l’articolo 70: “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. L’articolo 94 infine: “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”. L’esprit de sistème della Costituzione “più bella del mondo” è straordinario. Questi tre articoli, letti sinotticamente, integrano gli estremi di una compiuta dottrina della forma di governo democratica. Così riarticolabile: 1) le Camere sono due; 2) il Parlamento è un tertium, che però è un prius relazionale e funzionale; c’è insomma primato della relazione sui termini, che sono solo articolazioni strutturali di un insieme complesso ma unitario; simul stabunt e, se si amputa un pezzo, una Camera, è l’insieme parlamento che cadet; 3) non c’è funzione legislativa (la più importante di ogni parlamento democratico) se non è esercitata “collettivamente”, cioè paritariamente dalle “due Camere” (escluso cioè il Governo, il Presidente della Repubblica, ecc.); 4) la norma di chiusura del nostro sistema costituzionale stabilisce poi che l’esecutivo la “fiducia” deve averla dalle “due Camere”. Andrea Manzella ha acutamente ragionato di tutto ciò. Intanto sottolineando la “grande novità” dell’articolo 55 della Costituzione, perché “nel vecchio Statuto non si parlava di ‘parlamento’, ma solo delle due Camere; né esistevano momenti di loro agire unitario”, come ad esempio con il Parlamento “in seduta comune”; con l’aggiunta però che il Parlamento della Repubblica è ben altro della semplice riunione congiunta per eleggere il Presidente della Repubblica o nominare i Giudici della Corte Costituzionale, ma rappresenta il centro di imputazione unitaria dell’intero sistema di rappresentanza, conoscenza e decisione democratica. In questo senso se ne può concludere che dal momento che “l’art. 55 Cost. ha introdotto non già il bicameralismo, che c’era già in epoca statutaria, ma la nozione di ‘parlamento’, ci si trovi di fronte ad una forma particolare di monocameralismo, o a un bicameralismo di significato esclusivamente procedurale” (1) (perché funzionalmente invece la struttura del nostro sistema parlamentare è “complessa”, ma unitaria). Ai terribles semplificateurs che oggi vogliono ‘abolire’ il Senato si potrebbe obiettare che il “monocameralismo” in Italia c’è dal 1948, ma certo gli si dovrebbe chiedere lo sforzo di distinguere fra struttura e funzione... Per questo sempre Manzella, in uno scritto più recente, ha ricordato, che “prima di sostituire il Senato con un non-Senato bisogna stare attenti ad aggiustare le cose storte senza perdere di vista l’equilibrio del sistema tutto intero”. Anche secondo Nadia Urbinati non si ‘taglia’ il Senato per risparmiare: “l’argomentazione è pessima perché le istituzioni si dovrebbero riformare per ragioni politiche, non perché sono costose. La democrazia non è costosa: essa esiste o non esiste”. È il Torniamo allo Statuto del XXI secolo. Certo l’attacco resta insidioso. Gli ambienti confindustriali da tempo, almeno dal 2012 con il Manifesto per la Cultura, propongono di annullare il Senato come organo politico. Per ridurlo a mero ‘pensatoio’ di pretesi ‘esperti’. Sul supplemento del “Sole 24 Ore” dell’8 dicembre 2013, Armando Massarenti ha parlato espressamente di “Senato della Conoscenza”. La “riforma del bicameralismo” dovrebbe portare ad un Senato come “luogo delle indagini conoscitive, del controllo dei fatti del monitoraggio dei saperi”. A scanso di equivoci, “il modello è la House of Lord”, cioè un organo pletorico di 826 membri (l’attuale nostro Senato ne ha ‘solo’ 315), nominati a vita, che non possono sfiduciare il Primo Ministro, ecc. E mentre in Gran Bretagna si discute (da anni invero) di trasformarla (almeno all’80%) in camera elettiva, in Italia dovremmo importarne il “modello”? Sono pensieri e propositi dall’inquietante retrogusto di classe. Contro i poveri, contro gli ignoranti, contro la parità fra i cittadini, contro la democrazia. La sinistra deve sforzarsi di definire un discorso alternativo, non essere corriva culturalmente prima ancora che politicamente con elitismo ed antidemocrazia. Il bicameralismo va mantenuto appunto come presidio di democrazia, idem l’elezione diretta degli parlamentari; semmai con una migliore ripartizione delle competenze fra le due Camere e gli Enti Locali. La riforma dei partiti è indispensabile, non però la loro negazione, da ottenersi magari a mezzo della revoca dei finanziamenti pubblici. Questi sono un dovere per lo Stato e una necessità per la democrazia. Conseguire un contenimento dei costi è semmai possibile intervenendo sul numero dei parlamentari; la riduzione a 200 senatori e 400 deputati porterebbe risparmi senza intaccare un ganglio vitale della democrazia. Quanto al contrasto del malcostume politico occorre piuttosto una seria legge sulla corruzione, sul falso in bilancio, sulla trasparenza, sul conflitto d’interessi. Se la sinistra italiana invece che vent’anni di chiacchiere, avesse fatto queste cose, non avremmo avuto Berlusconi, né Grillo, né Renzi. La questione morale va dunque portata a progetto politico alternativo rispetto al mainstream populista e antipolitico. Per questo servono una nuova sinistra e un nuovo centro-sinistra, cioè un’altra visione della democrazia e della politica. Testo apparso sul sito del Centro per la Riforma dello Stato il 21.2.2014 |
Novità in libreria Il caso Arpur Andrea Carli, Il caso Arpur, Ferrara, Edizioni Trasogni, 2014. L’autore e il suo protagonista: un romanzo postumo di Andrea Carli (1919-1990) racconta la terribile esperienza di un internato in un lager nazista. di Giuseppe Muscardini La dimensione della sofferenza ingenerata dalla protervia nazista, necessita oggi di essere indagata, riconvocata e approfondita, a dispetto delle demenziali teorie dei negazionisti, secondo cui l’Olocausto è il frutto di una macchinazione degli storiografi per mistificare ciò che di fatto, secondo loro, non avvenne. E qui inevitabilmente monta l’indignazione. Leggere il libro di Andrea Carli quando si soggiace a questa indignazione, non può che obbligare il lettore a leciti raffronti: rievochiamo pure le atmosfere tetre dei lager nazisti per calarci nei fatti orribili che si consumarono all’epoca, ma domandiamoci anche per quale ragione oggi c’è gente infatuata dell’idea di quella stessa violenza. E che per non darne conto, la nega. La testimonianza letteraria di Andrea Carli in questa ricerca del clima cupo che pervase l’esistenza degli internati, è assolutamente preziosa; e perché Carli la protervia nazista la subì personalmente, e perché la compostezza stilistica e il rigore formale presenti in queste pagine, acquisiscono grande pregnanza per chi legge, dovendo, chi legge, misurarsi con gli aspetti psicologici della sofferenza di chi scrive. Non possiamo di fatto sottacere il raccapriccio che destano nel lettore certe descrizioni, le torture gratuite inflitte da carnefici senza scrupoli, le costole delle vittime spezzate con il calcio di un fucile, gli interventi chirurgici in laboratori improvvisati, apparentemente senza senso. Apparentemente, sembra dirci Carli: perché lo scopo sadico di quegli interventi chirurgici, nel caso del protagonista del romanzo, è quello di produrne l’annientamento, di annullarne la stessa personalità e l’identità, di cambiargli fisicamente i connotati. I carnefici agiscono già come proto-negazionisti, per cancellare fatti evidenti e poi destinare la loro vittima ad una società dove la mancanza di un'identità e la spersonalizzazione, anche quando la si è subita per effetto della crudeltà nazista, è duramente condannata. Ciò che si genera nella psiche del protagonista, e dell’autore, è una terribile persuasione, e una conseguente condotta di vita: l’anonimato come felicità. È il noto precetto del “vivere appartato” di Epicuro: la politica è un inutile affanno, quindi: vivi nascostamente. Ma a questo Arpur è stato indotto, e se avviene non è per suo desiderio né per sua volontà. Il tutto sembra condensarsi in una personalissima consapevolezza, espressa nell’incipit dell’XI capitolo: Ad Arpur non rimaneva dunque che adagiarsi nel nulla. Con lui, quindi, il nazismo era arrivato alla soppressione dell’io. C’era arrivato per vie esterne, puntando su facili trucchi, come quello delle alterazioni plastiche e della conquista dell’opinione pubblica”. Quello dell’omologazione culturale finalizzata a qualcosa di torbido, è un concetto attualissimo. Sono dunque pagine cariche di evocazioni forti e di fatti insospettabili, specie per chi si avvicina al testo con l'animo del lettore abituato alla cosiddetta “narrativa di situazione”. Qui non abbiamo una “narrativa di situazione”, ma abbiamo un autore che si distingue per la capacità di penetrare e descrivere umanissimi e ambivalenti sentimenti, insistendo molto sulla tenacia e la perseveranza del protagonista e alternandola con la sua rassegnazione di fronte ad eventi che sono percepiti come inevitabili. Almeno fino alla parte conclusiva, con la rinascita dell'amore, della sensualità e altri suggestivi colpi di scena. Il libro di Carli si inserisce a pieno titolo, e con un'attualità straordinaria, nel filone di quei testi letterari dove la memorialistica è di supporto all’impegno civile, utile a rigettare le tesi del negazionismo, contrastando sul piano ideologico, ma anche sul piano del buon senso, gli atti sacrileghi dei naziskin ed altri dementi che oggi si ispirano al nazismo. Ciò che Carli descrive - ma morì troppo presto per poterlo appurare - sembra avere un seguito ai nostri giorni, come se dovessimo teorizzare su fatti per capirne non la gravità, ma la veridicità. Il romanzo di Carli, pur nell’espediente letterario, in realtà scava a fondo sulla perdita della memoria storica di quanto avvenne settant’anni fa. Perdita che purtroppo persiste nella contemporaneità: oggi, ad esempio, c’è una perdita della memoria storica rispetto alla meritevole azione di quanti in passato si sono impegnati in favore di una cultura di pace, nel tentativo di affossare quella di guerra. Pensiamo a Gandhi e agli stravolgimenti storico-ideologici che la sua protesta ha causato. Nella nostra pseudo-cultura, quando è spicciola, si dice spesso che chi mena per primo mena due volte. Gandhi sosteneva invece che alla base della non violenza vi è il fondamento di un principio espresso peraltro anche nella parabola evangelica dell'altra guancia. Offrire l’altra guancia a chi ci percuote, vale spesso a ridurre la portata della violenza del nostro aggressore. Ha cioè funzione lenitiva nell’aggressore, ne stravolge lo schema mentale e genera un corto circuito nel cervello di chi invece si aspetta una prevedibile azione difensiva da parte dell’aggredito. E non è ciò che mette in atto, e non del tutto inconsciamente, il nostro Michele Arpur, protagonista del romanzo di Carli, quando prende atto del suo destino? Non è questo che fa, dopo essersi limitato a sputare in viso al medico che lo ha operato per cambiargli la fisionomia? Se non si conoscono libri come questo, se ne ignoriamo le tematiche, nel tempo i nostri giovani parteciperanno inconsapevolmente ad un nocivo processo di despiritualizzazione della società, attraverso l’implicita accettazione di nuove religioni che a seconda dell’utilità si alimentano o alla fonte dell’idealismo o alla fonte del materialismo. Se è vero come è vero che ogni idea per poter essere accettata o posta in serrata dialettica con altre idee deve incarnarsi in qualcosa o in qualcuno, Andrea Carli ci fornisce oggi un formidabile strumento di riflessione. L'impianto narrativo del racconto lungo di Carli è costruito su alcuni snodi puntuali che fanno de Il caso Arpur un godibilissimo testo letterario. Si pensi al continuo insistere sul paesaggio, con descrizioni che assumono nel testo un andamento filmico, scenico, come se il lettore fosse davanti a frequenti panorami colti di sfuggita, ma in realtà destinati a fissarsi nella mente come stato d'animo del protagonista – e del lettore - più che come specifica condizione geografica. È un po' come dire: «Guardate, questo era il contesto ambientale delle cose, questa è la realtà, la cornice, il fondale che avevamo attorno quando subivamo le efferatezze e le angherie di chi deliberatamente voleva umiliarci e farci soffrire. E qui si svela, per istintiva associazione, la propensione letteraria e poetica di Andrea Carli, che sempre coltivò le lettere. Carli nel lager sperimenta direttamente, sul piano sensoriale e psicologico, gli effetti di quella natura di leopardiana memoria, bella e prodigiosa ma immota, insensibile e indifferente davanti al male del mondo: Sta natura ognor verde, anzi procede / Per sì lungo cammino / Che sembra star. / Caggiono i regni intanto, / Passan genti e linguaggi: ella non vede: / E l'uom d'eternità s'arroga il vanto. Ecco il valore della cultura, oggi. E Carli, di solida formazione umanistica, lo aveva intuito. La cultura come presidio alla barbarie, come baluardo alla despiritualizzazione della società. Che è purtroppo in atto, pericolosissima. Andrea Carli oggi ci fornisce uno strumento culturale valido per combatterla. Usiamolo. |
LETTERA Italicum = Porcellum Il 20 febbraio 2014, nel corso di un'Assemblea per la presentazione della lista “Per un'altra Europa”, ho illustrato lo stato dei ricorsi contro le leggi elettorali lombarda e per le europee. Questo dopo che la Corte Costituzionale ha accolto il ricorso mio e di altri due avvocati, Bozzi e Tani, in rappresentanza di 25 cittadini elettori. Purtroppo c'è il rischio che al posto del Porcellum si approvi l'Italicum, che è altrettanto incostituzionale se non peggio. Il video del mio intervento è disponibile su YouTube. Felice Besostri, Milano
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L'AVVENIRE DEI LAVORATORI EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897 Casella postale 8965 - CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano Amministratore: Sandro Simonitto Web: Maurizio Montana L'editrice de L'Avvenire dei lavoratori si regge sull'autofinanziamento. E' parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che dal 18 marzo 1905 opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro estero socialista". L'ADL è un'editrice di emigranti fondata nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall'Unione Sindacale Svizzera. Nato come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all'estero, L'ADL ha preso parte durante la Prima guerra mondiale al movimento pacifista di Zimmerwald; ha ospitato l'Avanti! clandestino (in co-edizione) durante il ventennio fascista; ha garantito durante la Seconda guerra mondiale la stampa e la distribuzione, spesso rischiosa, dei materiali elaborati dal Centro estero socialista di Zurigo. Nel secondo Dopoguerra L'ADL ha condotto una lunga battaglia per l'integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana, di chiunque, ovunque. Dal 1996, in controtendenza rispetto all'eclissi della sinistra italiana, siamo impegnati a dare il nostro contributo nella salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti. |
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