CIE di Torino. Torture democratiche



CIE di Torino. Torture democratiche

CIE: Hassan e Arbil da 8 giorni al freddo, in sciopero della fame, tra
umiliazioni e pestaggi

Domenica 12 dicembre
Ore 15,30
Presidio solidale in piazza Castello angolo via Garibaldi
Ore 18,30
Presidio al CIE di corso Brunelleschi

Per approfondimenti:
http://senzafrontiere.noblogs.org/

Di seguito uno dei volantini che verrà distribuito in piazza:
I CIE – centri di identificazione ed espulsione per immigrati - sono le
galere che lo Stato italiano riserva ai clandestini, ai senza carte. Sono
posti dove finisci per quello che sei, non per quello che fai. Come nei
lager nazisti. Raccontano che nei CIE ci sono i delinquenti, ma mentono.
Nei CIE rinchiudono chi ha perso il lavoro e, quindi, anche le carte,
oppure chi un lavoro a posto con i libretti non l’ha mai avuto e quindi
nemmeno le carte in regola.
Il lavoro che ricatta la vita di noi tutti, italiani ed immigrati, è una
vera catena per gli immigrati. Una legge razzista, una delle tante,
sancisce che può vivere nel nostro paese solo chi ha un contratto di
lavoro, chi accetta di lavorare per quattro soldi, senza tutele e senza
orario. Oggi i migranti, con permesso o in nero, sono i nuovi schiavi di
quest’Europa fatta di confini e filo spinato.
Le leggi sull’immigrazione sono parte del mosaico normativo che incastra
le vite dei lavoratori immigrati e, in prospettiva in rapido
avvicinamento, dei lavoratori italiani, non di rado incapaci di cogliere
il nesso tra leggi contro la clandestinità e riduzione di salari e tutele
per tutti.
L’immigrato senza “permesso” finisce nei CIE e di lì via, indietro, ancora
verso la miseria da cui è fuggito.

Nei CIE soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane
quotidiano. Le lotte degli immigrati rinchiusi nei CIE hanno segnato
l’ultimo decennio. Una lunga resistenza, spesso disperata, fatta di
braccia tagliate, bocche cucite, lamette o pile ingoiate. Qualcuno ha
preferito la morte alla deportazione e l’ha fatta finita. In tanti si sono
ribellati, bruciando materassi, distruggendo suppellettili, salendo sul
tetto. Un po’ ovunque ci sono stati tentativi di fuga.
Due settimane fa nel CIE di Torino sei ragazzi si sono cuciti la bocca con
ago e filo. Li hanno lasciati lì, senza cibo, con le ferite infette,
finché non hanno ceduto e si sono lasciati scucire.

Il 14 luglio di quest’anno al CIE di Torino è scoppiata una rivolta, una
delle tante. In lotta contro le deportazioni di massa verso la Tunisia,
gli immigrati della sezione bianca diedero fuoco a materassi e
suppellettili, rendendo inagibile l’area. In quell’occasione la polizia
pestò duro: un ragazzo massacrato di botte dovette attendere ore prima di
essere portato in ospedale. Gli antirazzisti per fare pressione occuparono
per tutta la sera il cortile della Croce Rossa in via Bologna.
La settimana successiva un altro tunisino, Sabri, resistette per tre
giorni e tre notti sul tetto del CIE, prima di essere buttato giù e venire
deportato. Fuori gli antirazzisti fecero un presidio permanente e
provarono inutilmente a fermare la camionetta che lo portava via.
Qualche settimana dopo sei dei ragazzi che avevano partecipato alle lotte
di luglio vennero arrestati.
Il 2 dicembre sono stati condannati dal tribunale di Torino a pene
comprese tra l’anno e mezzo e i due anni e otto mesi.
Questa è la vendetta dello Stato contro chi alza la testa e si ribella
alle deportazioni.
Ai tre con meno di due anni è stata concessa la sospensione condizionale,
ma non sono stati liberati. Li hanno ricondotti al CIE. Messi in
isolamento in una sezione senza riscaldamento hanno protestato. La
risposta è stata chiara e secca: un ragazzo è stato pestato e
immediatamente deportato. Un altro, Hassan, condotto dal giudice di pace
per la convalida, è stato obbligato, unico tra altri cinque, ad una
umiliante perquisizione personale. Hassan e Arbil sono in sciopero della
fame da 8 giorni. Chiedono solo di essere messi con gli altri, al caldo.
Hassan ha anche ingoiato dei ferri. Poliziotti e crocerossini li lasciano
lì, al freddo, senza cure, convinti che in questa città siano tutti regni
l’indifferenza, il tacito consenso. Noi pensiamo che non sia così. Hassan
e Arbil sono sotto tortura, una tortura soft, democratica, ma pur sempre
tortura.
Se un giorno qualcuno chiederà “dov’eravate quando la gente moriva in mare
e nel deserto? Dov’eravate ai tempi dei lager e delle deportazioni? Noi
vorremmo poter rispondere “ero lì, con gli altri, a resistere”.
Mettersi in mezzo è un’urgenza che parla a ciascuno di noi.
Se non ora, quando? Se non io, chi per me?

Per info e contatti:
Federazione Anarchica Torinese – FAI
corso Palermo 46 – riunioni – aperte a tutti gli interessati – ogni
giovedì dalle 21
fai_to at inrete.it – 338 6594361