L’eutanasia di un Ratzinger
Anche il cugino Down del futuro papa fu ucciso dal Terzo Reich perché 
difettoso. Ecco di cosa parla Benedetto quando dice che la vita è sacra
di Lorenzo Fazzini
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 «Il nazionalsocialismo non è nient’altro che un’applicazione della biologia». 
Ovvero la messa in pratica, su scala politica, economica e finanche sanitaria, 
del principio che esistono vite “degne” e altre che invece sono “indegne” di 
essere vissute. Tale lapidaria ammissione del gerarca nazista Rudolf Hess, 
risalente al 1934, poco dopo la presa del potere da parte di Hitler, illumina la 
prassi dell’eutanasia di Stato nel Terzo Reich, sancita dalla celebre 
“Operazione T4”, chiamata così dall’ufficio al numero 4 di Tiergartenstrasse, 
nel quartiere di Charlottenburg, a due passi da Berlino, dove il Führer sancì – 
siamo nel 1939 – l’eliminazione fisica degli infermi e dei malati di mente da 
parte della burocrazia statale germanica.
Una conseguenza logica, del resto, 
delle posizioni che il caporale austriaco aveva già fatto presenti in tempi non 
sospetti, nel suo Mein Kampf del 1925, in cui si augurava un impegno dell’ente 
pubblico per «l’annientamento delle vite che non valgono la pena di essere 
vissute». Così proseguiva Hitler: «Lo Stato deve fare in modo che solo chi è 
sano generi figli e che sia scandaloso mettere al mondo bambini quando si è 
malati o difettosi». 
![]() L’indagine di Brennan Pursell
L’indagine di Brennan Pursell
Anche Joseph Ratzinger venne 
toccato nei suoi affetti familiari dalla macchina di morte del regime nazista 
contro “i malati o i difettosi”. Il futuro Papa aveva un cugino, poco più 
giovane di lui, nato con la sindrome di Down. Nel 1941– Joseph aveva 14 anni – 
alcuni “medici” nazisti vennero nella casa del giovinetto, nella Baviera 
sud-orientale, e informarono gli zii di Ratzinger sulle nuove disposizioni del 
Terzo Reich, norme che proibivano ai figli handicappati di rimanere coi propri 
genitori. Di fronte alle vibrate proteste dei familiari, gli inviati del Reich 
si mostrarono inflessibili: portarono via il ragazzino e nessuno lo vide mai 
più. Solo più tardi la famiglia ricevette la notizia che il piccolo era morto. 
Il particolare, ad oggi inedito, è stato svelato da Brennan Pursell, giovane 
storico americano, docente alla DeSales University in Pennsylvania che – 
curiosità – da protestante ha fatto il suo ingresso nella Chiesa cattolica nel 
monastero benedettino di Metten, nella terra di Benedetto, la Baviera. Nei due 
anni di ricerca per scrivere Benedict of Bavaria. An Intimate Portrait of the 
Pope and His Homeland (CirclePress, 240 pagine, 24,50 dollari), uscito a marzo, 
Pursell, grazie al suo fluente tedesco, ha potuto incontrare conoscenti e 
parenti di Benedetto XVI e rivelare così il particolare inedito di quella 
“ferita” che il regime nazista inflisse al giovane Joseph con il rapimento e la 
soppressione fisica del cugino Down. 
Il principio (non) 
negoziabile
Un’esperienza, questa, che parrebbe aver lasciato una traccia 
profonda nel pensiero e nella visione del teologo, vescovo e quindi pontefice 
tedesco. Basti pensare alla sua celebre formulazione del “principio non 
negoziabile” della difesa della vita umana “dal suo concepimento alla sua morte 
naturale”. ![]() Questo 
passaggio del discorso di Benedetto XVI durante il suo viaggio in Austria, nel 
settembre 2007, pronunciato davanti alle autorità pubbliche, ben illumina la 
grande sensibilità del pontefice per il tema della dignità della persona e 
l’intangibile valore della sua vita, anche se segnata dalla disabilità o dalla 
sofferenza: «Una grande preoccupazione costituisce per me anche il dibattito sul 
cosiddetto “attivo aiuto a morire”. C’è da temere che un giorno possa essere 
esercitata una pressione non dichiarata o anche esplicita sulle persone 
gravemente malate o anziane, perché chiedano la morte o se la diano da sé. La 
risposta giusta alla sofferenza alla fine della vita è un’attenzione amorevole, 
l’accompagnamento verso la morte – in particolare anche con l’aiuto della 
medicina palliativa – e non un “attivo aiuto a morire”».
Questo 
passaggio del discorso di Benedetto XVI durante il suo viaggio in Austria, nel 
settembre 2007, pronunciato davanti alle autorità pubbliche, ben illumina la 
grande sensibilità del pontefice per il tema della dignità della persona e 
l’intangibile valore della sua vita, anche se segnata dalla disabilità o dalla 
sofferenza: «Una grande preoccupazione costituisce per me anche il dibattito sul 
cosiddetto “attivo aiuto a morire”. C’è da temere che un giorno possa essere 
esercitata una pressione non dichiarata o anche esplicita sulle persone 
gravemente malate o anziane, perché chiedano la morte o se la diano da sé. La 
risposta giusta alla sofferenza alla fine della vita è un’attenzione amorevole, 
l’accompagnamento verso la morte – in particolare anche con l’aiuto della 
medicina palliativa – e non un “attivo aiuto a morire”». 
La prassi 
burocratica nazista prevedeva anche l’invio di una comunicazione ai genitori per 
informare del decesso del familiare disabile. Come spiega lo storico Lorenzo 
Baratter nel suo Le Dolomiti del Terzo Reich (Mursia), «solerti funzionari si 
apprestavano a riempire gli spazi vuoti delle lettere standard di condoglianze 
ai parenti:![]() “Data la 
grave malattia psichica di cui soffriva il deceduto, la sua esistenza era 
diventata un’immane sofferenza di cui la morte lo ha liberato”». È plausibile 
che anche gli zii del futuro papa abbiano ricevuto una tale missiva sulla triste 
fine del loro figliolo disabile.
 “Data la 
grave malattia psichica di cui soffriva il deceduto, la sua esistenza era 
diventata un’immane sofferenza di cui la morte lo ha liberato”». È plausibile 
che anche gli zii del futuro papa abbiano ricevuto una tale missiva sulla triste 
fine del loro figliolo disabile. 
Simile alla sorte del cugino di Ratzinger è 
stata quella di decine di migliaia di disabili e malati psichici del Terzo 
Reich, moltissimi dei quali trovarono la morte ad Hartheim, un castello 
rinascimentale nei pressi di Eferdin, in Alta Austria, a poca distanza da 
Braunau, cittadina che diede i natali a Hitler. Qui, dal 1939, venne istituito 
un centro di sterminio “sanitario”, con camere a gas e forni crematori, 
specializzato nell’eliminazione di “soggetti difettosi”, diretto dal dottor 
Rudolf Lonauer. Responsabile della funzionalità medica della struttura era il 
dottor George Renno, cui è dedicato il recente Una ragionevole strage (Lindau, 
208 pagine, 15 euro) di Mireille Horsinga-Renno, che ha rintracciato nel prozio 
George uno dei carnefici di Hartheim. E in questo libro racconta la terribile 
scoperta di un parente medico dedito all’eutanasia di Stato nazista, morto nel 
1997 senza alcun processo a carico, che al termine della sua vita ammetteva 
candido: «Non mi sento colpevole. Non è come se avessi ucciso qualcuno con un 
colpo di pistola o qualcosa del genere. Non si è trattato di tortura; per quei 
malati è stata piuttosto, per così dire, una “liberazione”». 
Un 
taglio agli “sprechi”
Secondo alcune stime – quelle ad esempio dello 
storico austriaco Florian Zehethofer – l’intera operazione T4 comportò 
l’uccisione di 70 persone al giorno per 3 anni, per un totale di 60-70 mila 
vittime. Il 27 giugno 1945 le truppe americane scovarono ad Hartheim le carte 
relative all’attività del castello, la cui presenza era avvolta nel mistero per 
gli stessi abitanti del posto, che si domandavano cosa si facesse in quel 
maniero dove ogni giorno arrivavano pullman carichi di gente. E dal cui 
comignolo usciva, ininterrotto, un filo di fumo nerastro. Ebbene, la relazione 
trovata dagli americani (39 pagine, datate 1942) parlava, nel freddo linguaggio 
burocratico nazista, dei “risparmi” per lo Stato realizzati grazie 
all’operazione T4: le 70.273 “disinfestazioni” già effettuate fino ad allora 
(18.269 svoltesi nel castello dell’Alta Austria) avevano garantito un’economia 
di 885 milioni di marchi alle casse del Terzo Reich.