Chi è “persona” e chi non lo è
*di Carlo
Valerio Bellieni
ROMA, domenica, 30 novembre 2008 (ZENIT.org).- Stiamo assistendo in
Italia e all’estero al ritorno di un’antistorica divisione tra chi è “persona” e
chi non lo è. A certe dichiarazioni di questo tenore rispondono sdegnati
soprattutto le persone disabili che sentono sulla propria carne il peso della
discriminazione e i genitori dei bambini prematuri che combattono giorno per
giorno una lotta solitaria per far riconoscere il diritto alla piena assistenza
ai loro piccoli.
In realtà indignarsi è giusto, stupirsi un po’ meno, perché ormai da anni
stiamo assistendo a questa erosione del “diritto di cittadinanza” tra gli esseri
umani, iniziata con i bambini non ancora nati, seguita poi da tutti coloro che
non hanno “capacità di autonomia”, secondo certi filosofi.
Nel 1996 il prof. J. Maroteau, studioso di nanismo, pubblicava sulla rivista
Archives de Pédiatrie un editoriale intitolato “J’accuse!”, che aveva
come sottotitolo: “La bassa statura ha ancora diritto di cittadinanza?”. Si
riferiva proprio agli aborti selettivi fatti in caso di nanismo. Era un primo
segnale d’allarme.
Ma bisogna far chiarezza, perché spesso usiamo la parola “persona” senza
essere ben coscienti delle implicazioni che questo genera.
Per gli antichi romani la parola persona esisteva, ma significava
semplicemente “maschera”, perché indicava la maschera che gli attori mettevano
in faccia per amplificare, far risuonare (per-sonare) la loro voce nei teatri.
Passò del tempo e il termine si colorò di significato filosofico per opera dei
cristiani del Medioevo che Severino Boezio (476-525 d.C.) sintetizzò definendo
la parola persona come “l’individuo appartenente a quel livello della natura che
possiede razionalità” (Individua substantia naturae rationalis).
Questa definizione, spiega che per essere definito persona, un soggetto deve
avere due caratteristiche: deve essere un individuo (e non una parte di un
individuo), e deve avere natura razionale. Quest’ultima cosa significa
semplicemente che la razionalità deve essere nella natura dell’individuo di cui
si parla, ma non necessariamente egli (per l’età, per una malattia, magari
perché sta dormendo) deve esprimerla adesso.
La prima conseguenza di questo fu che tutti, ma proprio tutti gli esseri
umani si ritrovavano sullo stesso livello: non era mai successo nella storia
della filosofia. Uomini e donne, schiavi e liberi, bambini, etnie diverse,
malati… tutti ricadevano nella stessa definizione: una delle più grandi
rivoluzioni del pensiero occidentale: veniva reso in termini filosofici quanto
era scritto nel Vangelo.
Da allora, tutte le persone sono divenute parimenti sacre, cioè con pari
diritti e pari intangibilità degli stessi, tanto che per poter nuocere con la
violenza ad un’etnia bisognava inventarsi una qualche forma per screditarla in
modo così profondo (e inverosimile) da farle perdere il titolo di “persona”. Ne
abbiamo esempi tragici nella storia anche recente.
Ma oggi, non potendo negare che dal concepimento siamo di fronte ad un nuovo
essere umano (è così chiara l’evidenza scientifica!), si fa passare l’idea che
non tutti gli esseri umani sono uguali, ma certuni non meritano il titolo di
“persona”, stravolgendo l’idea originaria da cui questo termine era nato. Non
più “tutti sono persone”, ma “sono persone solo coloro che hanno autocoscienza”
e non un’autocoscienza potenziale, ma solo coloro che l’esercitano di
fatto, qui, ora. Chi non è persona, finisce con l’avere meno diritti degli
altri, ed ecco i trattamenti scadenti del dolore, ecco la minor attenzione alla
depressione (recentemente riportata dal Lancet e da Le Monde),
alla sofferenza, e all’interpretazione dei bisogni di chi non si sa esprimere.
E’ un vento che richiede un cambiamento di rotta, almeno pretendendo che in
ogni discussione in cui si afferma che certi individui (spesso questo
ragionamento viene fatto per gli embrioni e i feti) non sono persone, chi
sostiene queste tesi spieghi chiaramente “chi” è persona per lui. E sarà facile
che si assista a discorsi molto fragili che finiscono col colpire certe
minoranze o certi tipi di malati, o anche certe età della vita, mostrando
l’inconsistenza di un ragionamento “erosivo” del diritto di cittadinanza.
Come ho già spiegato, deve essere difeso dalla retta coscienza un semplice
concetto: o tutti siamo una risorsa (cioè delle persone), o tutti siamo da
buttar via, perché non esiste a livello ontologico e scientifico una bacchetta
magica che faccia diventare “persona” chi non lo è.
Non fa fare questo salto l’aria che entra nei polmoni alla nascita, la luce
che tocca gli occhi al momento di uscire dall’utero, l’etnia, ma neanche il
livello di intelligenza o di autonomia.
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*Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico
Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro
Vita.